Il «M’illumino d’immenso» è una professione di fede, una percezione immediata che ha rapporto virtualmente con tutto e concretamente con nulla. Senza averlo messo in programma, Ungaretti scrive così il primo comandamento dell’estremismo e del fanatismo lirico, che è anche un vero e proprio manifesto tecnico della nuova poesia. Così ogni parola viene liberata dalla sintassi, viene isolata, lasciata a sé stessa, restituita a sé stessa. Ungaretti mette in parole, in due parole, l’illuminazione dell’io, nelle quali l’io è sommamente illuminato come da un enorme e quasi divino riflettore cosmico, il sole, sul palco di una storia ridotta a zero. Ma quella luce da dove viene? Viene dal sole del mattino o viene direttamente dall’io? L’io (che per il Futurismo doveva sparire) qui, dilatandosi all’infinito, sparisce o diventa enorme?
Nella antologia Garzanti della poesia italiana del Novecento questa micropoesia è accompagnata da una nota: «Due parole per una poesia: oggetto di polemiche, di ironia, di frecciate per tanti anni. È l’esaltazione del frammento, così come Ungaretti, in quella fase di ricostruzione di una poesia e di una metrica italiana, lo sentiva».
I due minimi versi di Ungaretti (un settenario diviso in due) si presentano come un semplice appunto da taccuino, la nota scarna del soldato-poeta che non ha né tempo né spazio per scrivere, e la cui vita è ridotta a una sola cellula di pensiero, che ogni mattina si meraviglia di essere ancora in vita. Ma il destino letterario successivo di questo stile e tecnica di scrittura di Ungaretti forse qualche frecciata ironica la merita. Ungaretti ha lavorato alla ricostruzione del discorso poetico, ha aperto la strada al Petrarchismo e al Gongorismo e tardo Simbolismo o Surrealismo depurato dagli Ermetici. L’estrema e disperata serenità di chi è in bilico tra la vita e la morte, soldato in guerra, diventa più tardi certezza, abitudine e garanzia poeticistica per innumerevoli epigoni, noti e ignoti. È un destino culturale che non riguarda solo Ungaretti e l’Ungarettismo (che arriva fino alla Neoavanguardia e ad Andrea Zanzotto). L’estremismo linguistico, l’essenzialismo dell’arte e della poesia moderna è nato da situazioni realmente estreme, è nato dalle rovine della Prima guerra mondiale. Ma è diventato poi estremismo simulato, fittizio, o programmatico. Quanti disastrosi disastri poetici, quanti poeti illeggibili, candidi e sibillini (formalistici, informali, oracolari e orfici, irreali) sono nati dal piccolo seme di quelle due parole di Ungaretti! Un vero disastro ecologico. Un pauroso imbruttimento e degrado del linguaggio e dell’ambiente poetico, che ancora oggi ognuno può vedere, se vuole.
(Alfonso Berardinelli, Cento poeti, Mondadori, Milano 1991)