Nel corso della Storia milioni di soldati hanno sacrificato la propria vita all’ideale della patria: morire per un bene superiore, rinunciando a sé stessi per la collettività, era considerato un atto nobile e bello. Su questo tipo di ideale hanno fatto leva, dal XVII al XX secolo, i vari nazionalismi, che ponevano la patria al di sopra dell’individuo, fino a esaltare la morte in guerra come la più sublime delle esperienze possibili, esistenzialmente e politicamente. Quando, soprattutto durante la Prima guerra mondiale, la guerra cominciò a mostrare il suo volto tremendo, fatto di violenza, orrore e noia (come testimoniano le poesie di Ungaretti), le retoriche del gesto eroico e glorioso iniziarono a essere contestate da alcuni intellettuali. Ma sarà solo in seguito, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, e in particolare attorno al Sessantotto, che si svilupperà un movimento di massa a favore della pace e contro ogni genere di guerra.
Nei versi che riportiamo, il poeta romano Dario Bellezza (1944-1996) incarna il punto di vista di chi rifiuta la guerra e, piuttosto che prendervi parte, preferisce morire da disertore. Come lui, tanti giovani hanno scelto la strada dell’obiezione di coscienza non solo nei confronti della guerra, ma anche del servizio militare di leva (che fino al 2004 nel nostro paese era ancora obbligatorio, al compimento della maggiore età, per i cittadini di sesso maschile).