Un momento dopo viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: «Il medico non ha osato spiegarsi in sua presenza. Temeva che lei non avesse la forza di sentirsi annunciare una dura necessità. Io gli ho assicurato che a lei non manca il coraggio».
«Spero», disse Maroncelli, «di averne dato prova, soffrendo senza urli questi strazi. Mi si propone...?».
«Sì, signore, l’amputazione. Ma il medico, vedendo un corpo così smunto, esita. In tanta debolezza, sarà in grado di sostenere l’amputazione? Sa che si espone al pericolo...»
«Di morire? E poi, non morirei lo stesso, se non si mette fine a questo male?»
«Dunque faremo subito relazione a Vienna di ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...»
«Che?! Ci vuole un permesso?»
«Sì, signore.»
Di lì a otto giorni, l’atteso permesso giunse. Il malato fu portato in una stanza più grande; chiese che lo seguissi. «Potrei morire durante l’operazione, che almeno mi trovi fra le braccia di un amico», disse. La mia compagnia gli fu concessa.
L’abate Wrba, nostro confessore, venne a dare i Sacramenti all’infelice. Compiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurghi, e non comparivano.
Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.
I chirurghi alla fine vennero: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere. L’altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, che aveva fama di essere molto abile. Questi, mandato dal governatore per assistere all’operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla lui stesso, ma dovette contentarsi di vigilare sull’esecuzione.
Il malato fu seduto sulla sponda del letto con le gambe giù. Io lo tenevo fra le braccia.