Silvio Pellico

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Silvio Pellico (1789-1854) è un letterato e patriota vissuto tra Torino e Milano a inizio Ottocento. Insieme all’amico Piero Maroncelli, Pellico entra nella Carboneria. Scoperto dalla polizia austriaca, viene processato e condannato con Maroncelli al carcere duro nello Spielberg, famosa fortezza-prigione da dove i due patrioti usciranno dopo 10 anni.

Nel 1832 pubblica Le mie prigioni, un resoconto dei suoi anni di prigionia. Il libro ha un immediato e grandissimo successo, dovuto soprattutto al tono semplice, sincero e obiettivo del racconto e all’umanità con cui Pellico giudica i suoi stessi carcerieri. Le mie prigioni è uno dei più famosi testi italiani di memorialistica.

Maroncelli subisce l’amputazione della gamba


di Silvio Pellico, adattamento da Le mie prigioni

Pellico e Maroncelli condividono le dure condizioni della vita nel carcere dello Spielberg. Nel brano che segue, Pellico racconta le sofferenze e il coraggio mostrato da Maroncelli nel momento in cui deve affrontare l’amputazione della gamba.

Tutti i termini possibili passarono, e non fu concessa alcuna grazia. Intanto era venuto al mio povero Maroncelli un tumore al ginocchio sinistro.


In principio il dolore era leggero, e lo costringeva soltanto a zoppicare. Poi stentò a trascinare i ferri, e di rado usciva a passeggio. Un mattino d’autunno, volle uscire con me per respirare un poco d’aria. C’era già neve, ed in un fatale momento che non lo sostenevo inciampò e cadde. 

Il colpo fece subito divenire acuto il dolore al ginocchio. Lo portammo sul suo letto. Lui non era più in grado di reggersi.


Quando il medico lo vide, decise finalmente di fargli levare i ferri. Il tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme e sempre più doloroso. Tali erano i martìri [sofferenze], del povero infermo, che non poteva avere pace né a letto né fuori. Quando gli era necessario muoversi, alzarsi, mettersi sdraiato, io dovevo prendere la gamba malata con la maggior delicatezza possibile e trasportarla lentissimamente nella nuova posizione. Talvolta, per fare il più piccolo movimento ci volevano quarti d’ora di tormento.


Sanguisughe, fontanelle, pietre roventi, impacchi ora asciutti ora umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti di strazio e niente più. Dopo i bruciamenti con le pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; e non diminuiva mai.


Non mi pesava fare l’infermiere, perché lo facevo per un amico così degno. Ma vederlo deperire fra atroci tormenti, e non potergli ridare la salute! E presagire [prevedere] che quel ginocchio non sarebbe mai più guarito! E vedere che l’infermo considerava più verosimile la morte che la guarigione! E doverlo continuamente ammirare per il suo coraggio e la sua serenità! Ah, tutto questo mi angosciava in modo terribile!


In quel deplorevole stato, Maroncelli poetava ancora, cantava, discorreva; tutto faceva per illudermi, per nascondermi una parte dei suoi mali. Non poteva più digerire, né dormire; dimagriva spaventosamente; frequentemente andava in deliquio [sveniva]. E tuttavia, a volte, raccoglieva la sua vitalità e faceva animo a me.


Ciò che patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu concesso che si tenesse un consulto. Venne il medico, approvò tutto quello che era stato tentato, e senza pronunciare la sua opinione su ciò che restasse da fare se ne andò.

Un momento dopo viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: «Il medico non ha osato spiegarsi in sua presenza. Temeva che lei non avesse la forza di sentirsi annunciare una dura necessità. Io gli ho assicurato che a lei non manca il coraggio».


«Spero», disse Maroncelli, «di averne dato prova, soffrendo senza urli questi strazi. Mi si propone...?».


«Sì, signore, l’amputazione. Ma il medico, vedendo un corpo così smunto, esita. In tanta debolezza, sarà in grado di sostenere l’amputazione? Sa che si espone al pericolo...»


«Di morire? E poi, non morirei lo stesso, se non si mette fine a questo male?»


«Dunque faremo subito relazione a Vienna di ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...»


«Che?! Ci vuole un permesso?»


«Sì, signore.»


Di lì a otto giorni, l’atteso permesso giunse. Il malato fu portato in una stanza più grande; chiese che lo seguissi. «Potrei morire durante l’operazione, che almeno mi trovi fra le braccia di un amico», disse. La mia compagnia gli fu concessa.


L’abate Wrba, nostro confessore, venne a dare i Sacramenti all’infelice. Compiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurghi, e non comparivano. 

Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.


I chirurghi alla fine vennero: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere. L’altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, che aveva fama di essere molto abile. Questi, mandato dal governatore per assistere all’operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla lui stesso, ma dovette contentarsi di vigilare sull’esecuzione.


Il malato fu seduto sulla sponda del letto con le gambe giù. Io lo tenevo fra le braccia. 

Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad essere sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che doveva fare il coltello. 

Il barbiere tagliò lungo il segno per la profondità di un dito. Poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero subito legate con filo di seta. Per ultimo si segò l’osso.


Maroncelli non emise un grido. Quando vide che portavano via la gamba tagliata, le diede un’occhiata di compassione; poi si girò verso il barbiere che aveva fatto l’operazione e disse: «Lei mi ha liberato di un nemico, e non ho modo di ricompensarla».


Sopra la finestra c’era un bicchiere con una rosa. 

«Ti prego di portarmi quella rosa», mi disse. 

Gliela portai. E lui l’offrì al vecchio barbiere, dicendogli: «Non ho altro da darle come prova della mia gratitudine». Quello prese la rosa, e pianse.

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Rispondi alle domande


1. Scegli tra quelli che seguono gli elementi che fanno intuire l’assurdo rigore della burocrazia del carcere:

  • il medico toglie i ferri a Maroncelli quando vede che si è aggravato.
  • si deve chiedere l’autorizzazione a Vienna per poter effettuare l’amputazione.
  • Maroncelli viene operato da un barbiere e non dal chirurgo, che deve solo assistere.
  • a Maroncelli viene concessa la compagnia di Pellico per affrontare l’operazione.


2. Alla fine dell’operazione Maroncelli dà un’occhiata di compassione:

  • alla gamba amputata.
  • al chirurgo.

3. L’atto di coraggio di Maroncelli viene compiuto:

  • con modestia e semplicità.
  • ostentando eroismo.

I saperi fondamentali di letteratura - volume 2
I saperi fondamentali di letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento