T2 - Il mondo senza di noi (A. Weisman)

T2

Alan Weisman

Il mondo senza di noi

  • Saggio

Nel best seller internazionale Il mondo senza di noi (2007) il giornalista, scrittore e insegnante americano Alan Weisman (n. 1947) ha provato a immaginare che cosa accadrebbe al pianeta Terra se all’improvviso la specie umana scomparisse. Dopo una settimana senza corrente elettrica, centrali nucleari, metropolitane, complessi industriali andrebbero in tilt, con esiti devastanti. Secolo dopo secolo ponti e città cadrebbero in rovina, i grandi mammiferi sarebbero liberi di aggirarsi indisturbati e ogni testimonianza del nostro passaggio scomparirebbe. Oggi invece, per trovare qualche luogo estraneo alla civiltà moderna, bisogna inoltrarsi nel cuore delle foreste del Borneo, o dell’Amazzonia, dove vivono le ultime tribù di indigeni, come gli zàpara. Ma anch’esse sono minacciate dall’ingordigia di chi mette il denaro sopra ogni cosa.

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Audiolettura

Una mattina di giugno del 2004 Ana María Santi sedeva appoggiata a un palo sotto
una grande tettoia di foglie di palma, osservando con sguardo corrucciato un raduno
del suo popolo nel piccolo villaggio di Mazáraka, sul Río Conambo, un tributario
ecuadoriano1 del Rio delle Amazzoni. Tranne i capelli, ancora folti e neri dopo sette 

5      decenni, tutto in lei ricordava un baccello di legumi secco. Gli occhi grigi erano come
due pallidi pesci intrappolati negli scuri gorghi del viso. Rimproverava le sue nipoti in
un misto di quichua2 e di una lingua quasi scomparsa, lo zápara. Un’ora dopo l’alba
erano già ubriache, come tutti gli altri nel villaggio, tutti tranne Ana María.

L’occasione era una minga, l’equivalente amazzonico di una festa campestre per 

10    la costruzione di un granaio. Quaranta indios zápara a piedi nudi, molti con il volto
dipinto, sedevano addossati gli uni agli altri in un circolo di panche per tronchi.
Per farsi forza prima di mettersi a tagliare e bruciare la foresta per far spazio a un
nuovo appezzamento di manioca3 per il fratello di Ana María, gli uomini bevevano
chicha, a litri. Anche i bambini ingollavano tazze di ceramica piene di quell’acida e 

15    lattiginosa birra di polpa di manioca fermentata con la saliva delle donne zápara,
che la masticano per tutto il giorno. Due ragazze con fili d’erba intrecciati fra i capelli
passavano in mezzo alla folla, riempiendo le tazze di chicha e servendo piatti
di pesce gatto stufato. Agli anziani e agli ospiti offrivano pezzi di una carne bollita
scura come cioccolato. Ma Ana María Santi, la persona più vecchia fra i presenti, 

20    non ne prendeva.

Mentre il resto della razza umana era già proiettato in un nuovo millennio, gli
zápara erano a malapena entrati nell’Età della pietra. Al pari delle scimmie ragno4
da cui ritenevano di discendere, in pratica gli zápara vivevano ancora sugli alberi,
legando insieme i tronchi delle palme con liane di bejuco5 per sostenere tetti fatti 

25    di foglie di palma. Prima dell’arrivo della manioca, la polpa di palma era la loro
verdura principale. Per le proteine pescavano con le reti e cacciavano tapiri, pecari,6
colini e craci7 con cerbottane e giavellotti di bambù.

Lo fanno ancora, ma la selvaggina scarseggia. Quando i nonni di Ana María erano
giovani, dice, la foresta dava facilmente di che vivere, anche se gli zápara erano una 

30    delle tribù più numerose dell’Amazzonia, con circa duecentomila individui distribuiti
in villaggi lungo tutti i fiumi delle vicinanze. Poi, molto lontano, accadde
qualcosa, e nel loro mondo – nonché in quello di chiunque altro – niente fu più lo
stesso.

Accadde che Henry Ford8 scoprì come produrre automobili in serie. La richiesta 

35    di copertoni e camere d’aria spinse presto gli ambiziosi europei a risalire ogni corso
d’acqua navigabile dell’Amazzonia in cerca di alberi della gomma e di manodopera
per spillarli. In Ecuador furono aiutati dagli indi quichua delle colline, già evangelizzati
dai missionari spagnoli e ben lieti di dare una mano ad incatenare agli alberi i
barbari zápara delle pianure per farli lavorare fino allo stremo. Le donne e le ragazze 

40    zápara, tenute come schiave del sesso o riproduttrici di forza lavoro, venivano invece
stuprate a morte.

Negli anni Venti del Novecento le piantagioni del Sudest asiatico avevano ormai
rovinato il mercato alla gomma selvatica sudamericana. Le poche centinaia di
zápara che durante il genocidio erano riuscite a nascondersi restarono nascoste. Alcuni 

45    si fecero passare per quichua, vivendo in mezzo ai nemici che avevano occupato
le loro terre. Altri fuggirono in Perù. Gli zápara dell’Ecuador furono ufficialmente
dichiarati estinti. Poi, nel 1999, quando il Perù e l’Ecuador risolsero una lunga disputa
sui confini, uno sciamano9 zápara peruviano fu trovato mentre camminava
nella giungla ecuadoriana. Era venuto, disse, a incontrare finalmente i suoi parenti. 

50    La riscoperta degli zápara ecuadoriani divenne una cause célèbre10 dell’antropologia.
Il governo ne riconobbe i diritti territoriali, per quanto solo su un brandello della
loro terra ancestrale,11 e l’Unesco elargì una sovvenzione per far rivivere la loro
cultura e salvarne la lingua. A quel punto solo quattro membri della tribù erano
ancora in grado di parlarla, fra cui Ana María Santi. La foresta che essi avevano conosciuto 

55    era quasi scomparsa: gli zápara avevano imparato dagli occupanti quichua
ad abbattere gli alberi con il machete d’acciaio e a bruciare i ceppi per piantare la
manioca. Dopo un singolo raccolto, ogni appezzamento doveva restare a maggese12
per anni; in ogni direzione la torreggiante foresta primaria era stata rimpiazzata da
esili pianticelle secondarie di alloro, magnolia e palma copa. La manioca era adesso 

60    la loro principale fonte di sostentamento, consumata per tutto il giorno sotto forma
di chicha. Gli zápara erano sopravvissuti, ma erano entrati sbronzi nel XXI secolo, e
tali erano rimasti.

Cacciavano ancora, ma adesso gli uomini camminavano per giorni e giorni senza
trovare tapiri e nemmeno colini. Non restava che sparare alle scimmie ragno, la cui 

65    carne in precedenza era tabù. Ancora una volta Ana María respinse la tazza offerta
dalle nipoti, che conteneva carne color cioccolato con una minuscola zampa senza
pollice che penzolava da un lato. Indicò con il mento nodoso la scimmia bollita che
aveva rifiutato.

«Quando ci riduciamo a mangiare i nostri antenati», domandò, «cos’altro ci resta?».

70    Lontani come siamo dalle foreste e dalle savane delle origini, pochi di noi avvertono un
legame con i nostri progenitori animali. Che gli zápara amazzonici lo sentano ancora è
degno di nota, anche perché la divaricazione fra gli umani e i primati13 avvenne su un
altro continente. Ma negli ultimi tempi cominciamo forse a capire ciò che intendeva
Ana María. Anche se non siamo portati al cannibalismo, il futuro cui andiamo pigramente 

75    incontro porrà forse anche noi di fronte a qualche terribile scelta?

Una generazione fa gli umani sono riusciti a scampare all’annientamento nucleare;
con un po’ di fortuna continueremo a schivare quello e altri terrori di massa. Spesso
però temiamo di aver inavvertitamente avvelenato o surriscaldato il pianeta, e anche
noi stessi, oltre un punto di non ritorno. Sappiamo di aver abusato dell’acqua e del 

80    suolo, così che adesso resta ben poco di entrambi, e di aver calpestato migliaia di specie
che probabilmente non riappariranno più. Il nostro mondo, ci avvertono alcune voci
autorevoli, potrebbe un giorno degenerare in una sorta di appezzamento abbandonato,
dove i ratti e i corvi si daranno a vicenda la caccia fra le erbacce. Se le cose stanno
così, com’è accaduto che, con la nostra tanto decantata intelligenza superiore, siamo 

85    diventati una specie talmente poco portata alla sopravvivenza?

La verità è che non lo sappiamo. Ogni congettura è obnubilata14 dalla nostra ostinata
riluttanza ad accettare che il peggio potrebbe davvero accadere. Forse siamo ostacolati
dai nostri stessi istinti di sopravvivenza, affinati nel corso di milioni di anni per
aiutarci a negare, trascurare o ignorare gli eventi catastrofici, nel timore di essere paralizzati 

90    dalla paura.

Se questi istinti ci spingeranno ad aspettare finché sarà troppo tardi, saranno una
maledizione. Se fortificheranno la nostra capacità di resistere nonostante i presagi sempre
più funesti, saranno una benedizione. Più di una volta, speranze folli e ostinate
hanno ispirato mosse creative capaci di strappare le persone alla rovina. Tentiamo allora 

95    un esperimento creativo: immaginiamo che il peggio sia accaduto. L’estinzione degli
umani è un fatto compiuto. Non a causa di una calamità naturale, della collisione con
un asteroide o di una catastrofe capace di radere al suolo anche tutto il resto lasciando
ciò che rimane in uno stato radicalmente alterato e impoverito. E neppure a causa di
qualche cupo ecoscenario in cui ci spegniamo in una lenta agonia, trascinando nel 

100 frattempo con noi molte altre specie.

Immaginiamo invece un mondo in cui tutti noi, e solo noi, scompariamo all’improvviso.
Domani.

Forse è inverosimile, ma a titolo esemplificativo non impossibile. Ipotizziamo, ad
esempio, che un virus colpisca Homo sapiens – un virus naturale oppure prodotto da 

105 una diabolica nanotecnologia – spazzandoci via ma lasciando intatto il resto. O che uno
scienziato pazzo e misantropo prenda di mira quel 3,9 per cento di Dna che ci rende
esseri umani e non scimpanzé, o metta a punto un sistema per sterilizzare lo sperma. O
che Gesù – su di Lui torneremo più avanti – oppure degli alieni ci portino via, o verso
la gloria celeste oppure verso uno zoo in un remoto angolo della galassia.

110 Guardatevi intorno, nel mondo d’oggi. La vostra casa, la vostra città. Il terreno
circostante, con il manto stradale e il suolo nascosto al disotto. Lasciate tutto com’è
ma togliete gli esseri umani. Cancellateci, e osservate ciò che rimane. Come reagirebbe
il resto della natura se all’improvviso si trovasse sollevata dall’incessante pressione
che esercitiamo su di essa e sugli altri organismi? Quanto ci vorrebbe prima 

115 che il clima ritorni quello che era prima che accendessimo tutti i nostri motori? E
potrebbe davvero tornare quello che era?

Quanto ci metterebbe la natura a recuperare il terreno perduto e ristabilire l’Eden
così come doveva risplendere e profumare il giorno prima che Adamo, o Homo habilis,15
facesse la sua apparizione? Riuscirebbe a cancellare le nostre tracce? A disfare 

120 le nostre monumentali città e opere pubbliche, e a ridurre a elementi benigni di
base le nostre miriadi di prodotti plastici e composti tossici? O alcuni di essi sono
talmente innaturali da risultare indistruttibili?

E cosa ne sarebbe delle nostre creazioni più raffinate: la nostra architettura, la
nostra arte, le molteplici manifestazioni del nostro spirito? Alcune di esse sono davvero 

125 senza tempo, capaci di durare almeno fino a quando il sole di espanderà riducendo
la Terra a un tizzone ardente?

E anche dopo, lasceremmo qualche impalpabile ma durevole marchio sull’universo?
Qualche bagliore persistente, qualche eco dell’umanità terrestre? Qualche
segno interplanetario del fatto che una volta c’eravamo?


Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2008

 >> pagina 503 

Laboratorio sul testo

1. Chi è Ana María Santi, la donna che compare all’inizio del saggio?

  • A Una giovane donna che sta festeggiando le sue nozze. 
    B Un’anziana donna appartenente al popolo degli indios zápara. 
  • C La moglie del capo degli indios zápara. 
  • D La proprietaria di una piantagione di manioca. 


2. Perché Ana María osserva con un sentimento misto di rabbia e tristezza (sguardo corrucciato, r. 2) gli altri membri del suo popolo e rimprovera le sue nipoti?


3. Come si chiama la bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione della manioca?

  • A Chicha
    B Quichua
  • C Minga
  • D Mazáraka


4. Quale tra questi alimenti non era consumato dagli zápara prima dell’arrivo della manioca? (sono possibili più risposte)

  • A Polpa di palma. 
    B Pesci. 
  • C Mais. 
  • D Tapiri. 
  • E Scimmie ragno. 
  • F Uccelli. 


5. Ricostruisci la successione degli avvenimenti (qui elencati in maniera non ordinata cronologicamente) che furono le cause, dirette o indirette, del genocidio subito dagli indios zápara.

  • A Aumenta la produzione di automobili. 
    B Gli europei, con la complicità degli indios quichua, sfruttano fino allo stremo la manodopera degli zápara e ne schiavizzano le donne. 
  • C Aumenta la richiesta di copertoni e camere d’aria. 
  • D Henry Ford inventa la catena di montaggio. 
  • E Gli europei vanno in Sudamerica per sfruttare gli alberi della gomma. 


1                                   

2                                   

3                                   

4                                   

5                                   


6. Il governo di quale paese sudamericano riconobbe i diritti territoriali degli zápara, dopo che nel 1999 si scoprì che non si erano estinti?


7. Perché Ana María Santi, durante la festa a cui sta partecipando, rifiuta di mangiare la carne che le viene offerta?


8. Weisman ci ricorda che la divaricazione fra gli umani e i primati avvenne non in Sudamerica, ma su un altro continente (rr. 72-73). Sai qual è il continente in cui sono stati trovati i resti più antichi di quello che, attraverso lunghe e complesse linee evolutive, sarebbe poi diventato l’Homo sapiens?


9. Alla fine del suo saggio, Weisman immagina come sarebbe il mondo se la specie umana si estinguesse improvvisamente e si chiede se la natura riuscirebbe a tornare quella che era prima della comparsa dell’uomo. Tu che cosa ne pensi? Argomenta le tue opinioni in un breve testo di massimo 10 righe.

L’emozione della lettura - edizione gialla - volume A
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Narrativa