LETTURE critiche

LETTURE critiche

La realtà come pasticcio

di Gian Carlo Roscioni

Nel rinunciare a comunicare al lettore chi sia il colpevole, Gadda ha inteso mostrare in astratto e in termini teorici il caos labirintico del mondo? Uno dei più fini studiosi dell’autore, Gian Carlo Roscioni (1927-2012), nega con decisione questa possibilità: se il Pasticciaccio si conclude senza soluzione è perché non c’era alternativa. Pur volendolo, sbrogliare la realtà non è possibile.

Gadda ha sempre concepito il romanzo come una macchina o, meglio, come un organismo. Le situazioni, le idee, i vocaboli registrati nelle note costruttive sono gli attrezzi necessari a dar vita all’impresa narrativa: anzi, essi sono già fattori essenziali del racconto, e la loro eterogeneità è più apparente che reale, perché, come i macchinari e i materiali che vengono caoticamente affastellati in un cantiere prima dell’inizio dei lavori, essi presuppongono la costruzione futura. [...]

Come è stato sospinto, con il trascorrer degli anni, «a un cinismo che non era affatto in programma», così ha finito, sul piano logico e rappresentativo, per accettare l’aborrita realtà del pasticcio; tanto più che essa si conciliava assai bene con l’idea, che era venuto maturando, dell’onnitravolgente «deformazione», e con la sua vocazione di scrittore anfibologico1 e maccheronizzante.2 Ma, quella realtà, non l’ha mai tradotta in un congegno intellettuale, in una cifra. Sintomatici a questo proposito sono nei suoi libri, l’assenza dei motivi del labirinto e del bivio, fondamentali in scrittori come Kafka o Borges, e il carattere per nulla discorsivo, ma anzi drammaticamente e melodrammaticamente concreto che spesso vi assume il tema del pasticcio. Più filosofo di Kafka e di Borges, Gadda rifugge dalle astrazioni e dalle analogie. Per lui «pasticcio» è il sangue cagliato di Liliana, la coincidenza dei due crimini consumati nello stesso palazzo, il disordine della questura con il suo «odorino sincretico», la confusione che nasce dalle interferenze telefoniche, la città «gremita». Quanto al fattaccio di via Merulana, Gadda ne aveva chiaramente preannunciata la spiegazione: [...] «ci siamo formati un’idea... positiva: un’idea risolutiva... d’ ’o pproblema: e dei moventi del delitto», diceva il dottor Fumi in un capitolo che, pubblicato in Letteratura, è stato poi espunto dalla redazione definitiva del Pasticciaccio proprio perché, rivelando il ricatto di Virginia ai Balducci, avrebbe tolto ogni suspense al romanzo. Gadda infatti, dieci anni dopo, ha alterato, o ha dovuto alterare, il piano del libro. Il quale finisce ora in modo diverso da quello originariamente previsto, e alquanto enigmatico per il lettore; ma, si badi bene, solo per il lettore, perché il commissario Ingravallo e il narratore sanno invece benissimo come sono andate le cose.

Lo snodarsi impreveduto del groviglio è simultaneo col bagliore folgorante che illumina al commissario protagonista la realtà dell’epilogo. Il nodo si scioglie a un tratto, chiude bruscamente il racconto.

Gadda è quindi lungi dal voler insinuare che i nodi non si sciolgono, e che l’opera debba rimanere «aperta». Anche se di fatto non ha voluto o saputo concluderla, anche se chi legge resta con l’impressione che il narratore abbia perso il filo del racconto, come un giocatore di scacchi che, dopo aver cercato di prevedere il maggior numero possibile di mosse, affaticato dal calcolo sposti la prima pedina che lo liberi dal compito di ulteriormente riflettere e decidere. Salvo costruire, a posteriori, una giustificazione per quello che è stato semplicemente l’effetto della propria stanchezza.

Restano due fatti indiscutibili. Il primo è che per Gadda il libro esige una chiusa e il pasticcio deve essere sbrogliato; il secondo è che la chiusa non c’è, e che il pasticcio rimane tale.


Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, Einaudi, Torino 1969

Comprendere il pensiero critico

1 Perché Gadda accetta l’«aborrita realtà del pasticcio»?


2 Perché, secondo Roscioni, Gadda non rivela la soluzione del caso?

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Il Pasticciaccio e lo sguardo sulla realtà

di Pietro Citati

Prima di diventare uno dei più noti critici italiani del Novecento, Pietro Citati (n. 1930) è stato il giovane editor che l’editore Livio Garzanti affiancò a Gadda durante l’ultima stesura del Pasticciaccio. Stabilì con lui un rapporto duraturo di amicizia e fu uno dei primi e più generosi difensori dell’opera gaddiana, attaccata in quegli anni da più parti. Il suo contributo analizza il rapporto dell’autore con la realtà e con il dialetto, rapporto contraddistinto da un sentimento di attrazione e repulsione.

Nell’opera di Gadda, il Pasticciaccio è un libro unico. Mai egli aveva conosciuto come qui, senza requie né interruzioni, una felicità vitale così piena: un simile respiro, un tale abbandono, un tale abbraccio del mondo; una fantasia sempre rinnovata, così ricca, divertente, inesauribile. Non c’è più traccia (o quasi) della nevrosi della Cognizione, come se la confessione e l'espiazione lo avessero liberato: né della bile e del furor, che erano esplosi, pochi mesi prima, in Eros e Priapo, e che nei libri successivi avrebbero continuato ad accompagnarlo, continui come la sua nevrastenia e la sua raffinatissima arte della nevrastenia.

Per lui la realtà era sempre stata qualcosa di turpe. Il dialetto, che rappresentava il lato pittoresco della realtà, suscitava nel suo animo, dice una nota della Cognizione, «un’indicibile repugnanza»: il lombardo con i suoi barbari borborigmi ossitoni,1 il romanesco con la sua bonarietà facilona. Per rappresentare la volgarità della vita, egli doveva vincere una fortissima resistenza interiore. Forse gli sembrava di commettere un’infrazione. Gli pareva di offendere le nobili «idee» platoniche della Natura, quel mondo di miti alberi centenari, di biondi eroi vinti dalla malvagità della sorte, di uomini dediti a compiere silenziosamente il proprio dovere, al quale sentiva di appartenere con tutta l’anima.

Appena un frammento colorato di esistenza, la pronuncia di un contadino brianzolo o di una portiera romana gli giungevano davanti agli occhi o gli colpivano l’orecchio, avveniva in lui un completo capovolgimento: più forte di qualsiasi inibizione, sopraffacendo e spezzando qualsiasi resistenza, irrompeva nell’anima di Gadda un’ondata di caldissima simpatia per le cose. Allora, di colpo, egli entrava nelle case, percorreva le strade, frequentava i mercati, come se questo fosse veramente il suo mondo, invece che un paese occupato da una stirpe nemica. Con un’allegria quasi infantile, con una improvvisa estroversione, fissava l’impagabile foresta di colori e di suoni. Quando cominciò il Pasticciaccio, si accorse che non aveva mai amato tanto la realtà. Non esisteva più, a dividerlo dalle cose, l’elegante e ironica fissazione dall’Adalgisa: veniva posseduto da una specie di esaltante cupidigia, dalla voracità di tutto vedere, ascoltare e divorare. Non aveva più limiti: si adattava a far crescere in sé come una pianta l’enorme bêtise2 della vita, a deformarsi, a fingere di essere sciocco, diventando l’impagabile Manuela Pettacchioni3 di sé stesso. In quel momento, scoppiava in lui il riso: la risata pura, imprevista e imprevedibile, senza più malumori né isterie né furori, la risata infantile e assoluta, che si scioglieva nell’immenso calderone della realtà.

La realtà formicolava. Gadda fissava attentamente il suo occhio avido sopra di lei: dimenticando di dover scrivere un romanzo e di macchinare un intreccio, si soffermava su un piccolo particolare senza funzioni narrative — una pagnottella imbottita, una gallina guercia, gli alluci di due santi in un affresco. Questi dettagli entravano in rapporto tra loro: nel minimo si rifletteva il massimo, la storia antica di Roma, le leggi della natura e il segno di Dio si intravedevano in fondo a un pitale pieno di noci, in una casupola della campagna romana. Ma questa molteplicità non bastava a Gadda. Voleva la contaminazione e la fusione. Davanti al Palazzo degli Ori, o al mercato di piazza Vittorio, nei «vortici della gran fiera magnara», i pesci, le trippe, i capretti, le lattughe, le galline vive, i peperoni secchi, le noci e le massaie simili a «grasse carpie» formavano un impasto unico, un unico inestricabile conglomerato, una sola polpa dove si sciolgono tutte le parti e i regni dell’universo. Così, nel Pasticciaccio, la realtà assunse uno spessore, una densità e un volume enormi, come soltanto in alcune parti della Recherche.4 Mentre leggiamo, ci sentiamo presi, coinvolti e quasi schiacciati, dentro il rilievo del mondo. Penetriamo a fatica, resistendo, riluttando, e poi via via sempre più affascinati ci muoviamo tra la serie dei rapporti, tra gli strati della lingua e delle metafore, come se sempre più profondamente scendessimo tra le falde successive della creazione.

Di fronte alla realtà, si innalza la figura grandiosa del Narratore. La sua voce non è quella di Gadda: ma Gadda la nutre con la sua cultura, i suoi sentimenti, le sensazioni, le rabbie, il senso teatrale, fino a trasformarlo in un personaggio; più grande, forte, nobile, abbietto e pittoresco di tutti i personaggi suscitati dalla sua immaginazione. È sempre lì, davanti ai nostri occhi, come un istrione regale, che commenta intellettualmente, visivamente, fonicamente lo svolgersi dei fatti: ora accusa, ora irride, ora compiange. Forse nessun’altra figura di Narratore, nel romanzo europeo del Novecento, possiede questa trionfale vastità di respiro. Non ha un volto solo, né una voce sola: se la realtà è molteplice, anche il Narratore si trasforma in un corteo molteplice di narratori, ognuno dei quali possiede un'esistenza biologicamente diversa, e critica e schernisce gli altri. È uno straordinario, pittoresco corteo, come in una cavalcata di Re Magi.


Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, Milano 2008

Comprendere il pensiero critico

1 Perché Gadda sceglie di usare il dialetto per il Pasticciaccio, nonostante gli dia «un’indicibile ripugnanza»?


2 Che nuovo rapporto lega Gadda alla realtà nel Pasticciaccio? C’è differenza rispetto a quello dell’Adalgisa e della Cognizione?


3 In che modo Citati descrive il Narratore del Pasticciaccio?

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi