La vita

La vita

Carlo Emilio Gadda è il figlio primogenito di Francesco Ippolito, un industriale tessile attento al buon nome della casa (il fratello era stato ministro dei Lavori pubblici) ma poco capace negli affari, e Adele Lehr, insegnante di origini ungheresi. Nato a Milano nel 1893, trascorre nella città lombarda «un’infanzia tormentata e un’adolescenza anche più dolorosa», a causa delle condizioni economiche della famiglia, rese precarie dai pessimi investimenti del padre, rovinatosi con la coltivazione del baco da seta in un momento di crisi della sericoltura italiana dovuto alla concorrenza giapponese.

Ad aggravare la situazione concorre inoltre la costruzione di una casa di campagna in Brianza, presso Longone al Segrino, che la madre non vorrà mai vendere nonostante le difficoltà, accresciutesi in seguito alla morte del marito avvenuta nel 1909. Carlo Emilio sconta le conseguenze di queste ristrettezze, poiché vorrebbe approfondire gli studi letterari, ma la madre glielo impedisce, imponendogli di iscriversi alla facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, che a suo giudizio offre maggiori opportunità di lavoro.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Gadda si arruola volontario negli alpini, con l’intento dichiarato di dare un senso alla sua vita. Tuttavia l’esperienza della guerra si rivela subito durissima: «vita fangosa», «squallore spirituale», «paralisi della volontà e del desiderio», una realtà insomma molto lontana dalla visione idealizzata con cui era partito per il fronte. Partecipa in prima linea alla disastrosa battaglia di Caporetto e nell’ottobre del 1917 viene fatto prigioniero e trasferito in Germania.

Rientrato a casa nel 1919, apprende della morte dell’amato fratello Enrico, precipitato con il suo velivolo durante uno scontro aereo. È un altro trauma, che si aggiunge ai sacrifici patiti fino ad allora e che lo getta in uno stato di depressione profonda, da cui non si riprenderà mai del tutto: «Orrore nelle ore di sera e di notte, nel sole, e sempre. Nessuna sosta al dolore. Nessuna emozione per l’Italia e le cose. Nessun sogno per il futuro».

Il ritorno alla vita normale non si rivela dunque semplice; ciononostante, Gadda riesce a riprendere gli studi interrotti e a laurearsi in Ingegneria elettrotecnica nel 1920, oltre a intraprendere studi filosofici. Per gli impegni legati alla sua professione, viaggia molto,sia in Italia sia all’estero. L’esperienza più lunga e significativa è rappresentata dal periodo vissuto in Argentina, dal 1922 al 1924, nel corso della quale Gadda matura il convincimento che la carriera da ingegnere non faccia per lui, e cerca in tutti i modi di liberarsi dalla «schiavitù» di un lavoro che considera arido e impersonale.

Al rientro in Italia si dedica perciò agli studi di filosofia e decide di tentare l’avventura letteraria, impiegandosi contemporaneamente come docente di matematica e fisica al liceo classico Parini di Milano, dove lui stesso aveva studiato. Le necessità economiche lo costringono però a proseguire la professione di ingegnere, che svolgerà fino al 1931.

Trasferitosi nel 1925 a Roma, dove lavora anche per conto del Vaticano, Gadda assiste con crescente disgusto alle cerimonie e ai riti del fascismo trionfante, a cui pure aveva inizialmente aderito. Sono anni fondamentali per l’ispirazione dello scrittore: a questo periodo risalgono infatti la stesura della Meditazione milanese e della Meccanica e la pubblicazione delle prime raccolte di racconti.

Nell’aprile del 1936 muore la madre Adele, un evento traumatico che lo lascia «in un grande dolore e in una disperata solitudine». Nel 1937 Gadda vende la villa in Brianza ma, nonostante la volontà di liberarsi del passato, non riesce ad affrancarsi dalla disperazione. Si alimenta anzi in lui il senso di colpa verso la madre: «La nevrosi che ho dominato (come ho potuto) per anni e anni è nuovamente esplosa: il ricordo di mia madre è diventato una ossessione. Tutti i nodi vengono al pettine, e, orribile fra tutti, il rimorso». Queste sensazioni saranno il tema portante del romanzo La cognizione del dolore, pubblicato a puntate sulla rivista “Letteratura” fra il 1938 e il 1941.

Abbandonata la professione di ingegnere per dedicarsi totalmente alla letteratura, Gadda si trasferisce nel 1940 a Firenze, dove infittisce la sua attività editoriale, pubblicando la prima versione del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uscito in cinque puntate sulla rivista “Letteratura” (1946).

Nel 1950 Gadda torna a Roma, assunto alla Rai: qui lavora come giornalista fino al 1955, quando si licenzia per potersi dedicare interamente alla stesura definitiva del Pasticciaccio, che esce in volume nel 1957 riscuotendo un grande successo di critica e di pubblico.

Ormai famoso, ma stanco e infastidito dalla notorietà, lo scrittore si chiude in uno scontroso e angosciato isolamento, occupandosi della riedizione di romanzi e scritti pubblicati in precedenza. Muore a Roma nel 1973, a ottant’anni.

il CARATTERE

  Un signore educato ma umorale

Riservato fino alla misantropia, ma al tempo stesso ricco di humour e sarcastica giovialità, Gadda è noto in tutte le sue eccentriche stravaganze grazie agli aneddoti e ai ricordi lasciati dai suoi amici.

Umorale e nevrotico

La qualità del suo carattere che più risalta è l’umoralità che lo faceva repentinamente passare da violentissimi attacchi d’ira a stati di depressione e infelicità profonda. A questi stati d’animo alternava però momenti di ilarità altrettanto intensi, che lo rendevano una compagnia ricercata e apprezzata dalle persone che ebbero modo di frequentarlo.

Un curioso e “antico” signore

Altri aspetti del suo carattere che contrastavano con quelli più cupi e sofferti erano da un lato la sua irrefrenabile curiosità, essendo egli interessato ai fatti altrui (era un lettore quasi morboso di cronaca); dall’altro un comportamento sociale basato su una leggendaria «oltranza di buoneducazione» (termine usato dai suoi amici fiorentini), un esempio di «urbanità» d’altri tempi, come scrisse il suo amico e critico Gianfranco Contini. Si comportava, quasi, da signore borghese dell’Ottocento, vestito in modo impeccabile e «poco meno che austero», rispettoso della conversazione altrui, prodigo di complimenti e di «saluti ai cari» o di «ossequi alla Signora», come immancabilmente chiudeva le sue lettere ad amici e conoscenti.

CRONACHE dal PASSATO

 L’ingegnere e lo scrittore

Una professione ideale… per la madre


Lo scrittore Goffredo Parise (1929-1986) definì Gadda «l’ingegnere aneddotico». La vita timida, riservata e molto privata dell’autore dispensa, infatti, quasi paradossalmente, una serie infinita di situazioni, episodi, nomi, tipi e personaggi. Disinteressato - almeno a parole - alla politica, alla sociologia, alla religione, egli riversava nella battuta pungente il proprio temperamento da «inchiostratore maligno e pettegolo» (come si autodefiniva), finendo poi, per vendetta o per divertimento, al centro di storie, dicerie e narrazioni vere o false.

«Ingegnere, non scrittore!»

L’aneddoto più noto ed emblematico che riguarda la vita di Gadda è senza dubbio quello raccontato dal giornalista e critico Giancarlo Vigorelli che, recatosi un giorno a casa sua per un’intervista e avendone incontrato la madre, le chiese se fosse in casa lo scrittore Gadda. La madre rispose che forse stava cercando l’ingegnere Gadda e, all’insistenza del visitatore, che ne ribadì la qualifica di scrittore, gli si avventò contro prendendolo per la cravatta e gridando: «Ah, lei è uno di quelli che montano la testa a mio figlio…».

L’invadenza della figura materna

In questo episodio emerge, in maniera tragicomica, un tratto che con­trad­distingue la biografia e alcune tematiche narrative dello scrittore lombardo: la carenza affettiva e la durezza della madre, che pretende dal figlio una carriera e una vita diverse da quelle a cui lui aspira. Come lo stesso Gadda rivelò in un’intervista, uno dei peggiori momenti della sua vita era stato provocato dalla madre: era colpa sua se al liceo aveva studiato la matematica e non il greco; egli voleva diventare filosofo, mica ingegnere!

Le opere

I romanzi

La suddivisione e la catalogazione dell’opera gaddiana risultano per molti versi convenzioni editoriali e critiche, in quanto il continuo riutilizzo fatto dall’autore di interi brani o capitoli fa sì che le stesse pagine compaiano sia in romanzi sia in raccolte di racconti o all’interno di scritti di altro genere. Sebbene si tratti di opere mai pienamente compiute, è comunque tra i romanzi che si trovano le creazioni più originali di Gadda.

La meccanica

La stesura dell’opera risale agli anni compresi tra il 1924 e il 1929. Alcuni brani escono prima sulla rivista “Solaria”, quindi vengono inseriti nella raccolta di racconti Novelle dal Ducato in Fiamme, ma il romanzo esce in volume solo nel 1970, con l’aggiunta di tre capitoli, solo abbozzati.

La trama si incentra sul triangolo amoroso tra la popolana Zoraide, suo marito Luigi e l’amante Franco. Le vite dei due uomini si incrociano al fronte, durante la Grande guerra, quando Franco salva Luigi, malato di tisi, dal fuoco dell’artiglieria nemica. Questi, durante una licenza per far visita alla moglie, la scopre in compagnia dell’amante. Sconvolto, l’uomo muore, e poco dopo il suo funerale Franco viene insignito della medaglia d’argento al valor militare.

Il pretesto narrativo dell’adulterio, tipico di molti romanzi e drammi borghesi, serve a Gadda per descrivere la società milanese di quel tempo, concentrandosi sul contrasto tra due classi sociali: il proletariato, rappresentato dal falegname socialista Luigi, e l’alta borghesia, rappresentata da Franco e della quale l’autore denuncia l’ipocrisia e l’angusta mentalità. Pur con una lingua semplice, non ancora “espressionista”, Gadda impiega qui una molteplicità di registri stilistici, tra inserti dialettali e squarci lirici.

La cognizione del dolore

Il romanzo, la cui prima composizione risale alla fine degli anni Trenta (subito dopo la morte della madre), esce in prima edizione sulla rivista “Letteratura” tra il 1938 e il 1941. È però solo dopo una vera e propria avventura editoriale, durata più di trent’anni, che esso trova la forma che conosciamo e leggiamo oggi: il 1963 è infatti la data dell’uscita in volume, ma solo nel 1970 Gadda aggiunge gli ultimi due capitoli, che tuttavia non presentano un finale compiuto.

Il titolo già dichiara il senso e la sostanza del romanzo. Il termine «cognizione», infatti, non indica un dato acquisito per via teorica o una conoscenza appresa una volta per tutte, ma piuttosto un processo, un percorso conoscitivo interiore doloroso e amaro, che può avvenire anche attraverso le esperienze di vita più strazianti.

 >> pagina 920 
Il testo è diviso in due parti. La prima, a sua volta ripartita in quattro capitoli o «tratti», si concentra su una sorta di introduzione sociale, geografica e antropologica del contesto in cui si dipana la linea narrativa, un contesto rappresentato da un immaginario stato latinoamericano, il Maradagàl, che richiama la Lombardia e, ancor di più, la Brianza degli anni Trenta. La seconda parte, suddivisa in cinque «tratti», è incentrata sulla figura della mamma (dietro la quale non è difficile scorgere la figura reale della madre dell’autore) che vive, insieme al figlio, l’ingegnere quarantenne Don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino (alter ego di Gadda, con le sue stesse manie e fobie), nella villa di Lukones, il luogo irreale che corrisponde però alla località di Longone, dove la famiglia Gadda trascorreva le vacanze.

Profondamente autobiografico, la Cognizione rappresenta un angoscioso ritratto familiare, drammaticamente travolto da un vortice di ire e di nevrosi, di depressioni e di inquietudini incomunicabili. Il romanzo racconta infatti lo scontro quotidiano tra l’anziana donna, insensatamente prodiga di aiuti ed elemosine per la folla di questuanti che ogni giorno l’assedia, e il figlio, insofferente di questa generosità esagerata, del degrado, non solo economico, della vita familiare, dell’opportunismo di quanti frequentano una casa sempre più povera, spacciandosi per servitori fedeli.

L’azione inizia con la descrizione del Maradagàl e della villa di Lukones, proseguendo con la rassegna delle guardie del «Nistitúo provincial de vigilancia para la noche» (“Istituto provinciale di vigilanza notturna”, in spagnolo), che allude neanche troppo velatamente all’autoritarismo oppressivo del regime fascista: a questa fosca organizzazione è affidato il compito di garantire protezione armata agli abitanti. Unico a non volersi servire della sorveglianza di questi vigilantes, Don Gonzalo è guardato con sospetto dall’umanità che lo circonda, una volgare accozzaglia di arricchiti, arrampicatori sociali e sciocchi contadini, che lo fa oggetto di chiacchiere e insinuazioni a causa del suo carattere delirante e misantropo, facile agli attacchi d’ira e a sfoghi violentissimi. Proprio intorno alla villa si susseguono da tempo furti notturni: una notte, mentre Gonzalo è fuori per lavoro, vengono avvertiti rumori inquietanti provenire dalla sua proprietà. Quando i vicini entrano in casa, trovano sul letto il corpo della madre, moribonda in seguito dell’aggressione da parte di uno sconosciuto.

 >> pagina 921
Chi ha colpito a morte la donna? Una guardia del Nistitúo? Uno dei falsi collaboratori di cui essa si circondava, oppure lo stesso Gonzalo? Il romanzo si interrompe qui, chiudendosi senza risposta: una qualunque soluzione non spiegherebbe la natura più profonda dei fatti, che prescinde da singole responsabilità e dipende invece, secondo Gadda, dalla complessità dei rapporti umani. L’unica certezza sono il rimorso e il senso di colpa che attanagliano il protagonista e lo obbligano ad analizzare i più inconfessabili desideri e stati d’animo che dominano la sua esistenza, ma anche quella del prossimo. La conoscenza di sé lo porta a cercare le radici delle proprie nevrosi e dell’odio per una società ottusa e crudele, senza tuttavia riuscire a comprendere i propri rancori (soprattutto quelli riversati sulla madre), a sintonizzarsi con il mondo che lo circonda e a dare una spiegazione razionale al «male oscuro», a quel misterioso disagio interiore, cioè, che si traduce per lui in un’insopprimibile angoscia esistenziale.
L’abilità stilistica di Gadda trova nella Cognizione una delle sue vette più elevate: pur nella sostanza drammatica del romanzo, l’autore non rinuncia a un registro comico, deformante e parodico, con punte ferocemente grottesche (come quando descrive la dilagante stupidità della classe borghese o allude alla violenza del potere fascista), bilanciata sapientemente da squarci di altissimo e tragico lirismo, soprattutto nelle parti dedicate alla figura materna e al ricordo del fratello del protagonista, caduto in guerra.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Al capolavoro di Gadda, pubblicato in rivista nel 1946 e in volume nel 1957, è dedicata la seconda parte dell’Unità ( p. 940).

Racconto italiano di ignoto del Novecento

Scritto tra il 1924 e il 1925 e pubblicato postumo nel 1983, è un romanzo incompiuto: delle tre «sinfonie», ovvero parti, previste dallo scrittore, solo la prima assume un aspetto definito. Il racconto degli intrecci amorosi tra alcune coppie di giovani serve all’autore per descrivere l’Italia che sta per scivolare nella dittatura: un paese in crisi, lacerato dagli scontri tra socialisti e fascisti.

I racconti e gli scritti vari

La tormentosa incapacità di portare a compimento opere di ampio respiro ha fatto sì che la gran parte degli scritti di Gadda sia costituita da brevi prose e racconti, a cui si aggiungono diari, saggi e altri scritti, difficilmente classificabili. Presentiamo le prove più significative, in ordine di pubblicazione.

La Madonna dei filosofi

Il volume, pubblicato nel 1931, comprende 4 racconti veri e propri e 8 frammenti descrittivi (chiamati dall’autore «studi imperfetti»). Già in quest’opera, che segna l’esordio letterario ufficiale di Gadda, si riconosce la sua tendenza a soffermarsi sui particolari della realtà più che a costruire intrecci narrativi coerenti e organici.

Il castello di Udine

Edita nel 1934, questa seconda raccolta presenta 16 prose, tra racconti e frammenti autobiografici, divise in tre parti. Gadda rievoca i giorni di guerra e i viaggi in qualità di ingegnere, concentrando l’attenzione su vicende ambientate a Roma.

 >> pagina 922 
L’Adalgisa

Si tratta di 10 racconti usciti in rivista tra il 1938 e il 1943, poi raccolti nel 1944. Il sottotitolo «Disegni milanesi» già introduce il contenuto: con l’eccezione di due prose che confluiranno nella Cognizione del dolore, sono affreschi sulla città natale dell’autore, soprattutto ritratti spietatamente satirici di personaggi della media e alta borghesia. Con ogni probabilità i racconti dovevano comporre un romanzo, in quanto ben sei di essi presentano tratti omogenei e, in alcuni casi, gli stessi personaggi, a partire da Adalgisa, popolana che ha coronato il sogno di diventare una “signora” sposando un ricco ragioniere.

Giornale di guerra e di prigionia

Pubblicato prima nel 1955 e poi nel 1965, è un diario scritto da Gadda con costanza durante la Prima guerra mondiale, nel tentativo di ricomporre la razionalità e l’ordine in un mondo interiore sconvolto dal caos e dalla distruzione. È una testimonianza di grande importanza sia sul piano letterario sia su quello storico, che descrive l’incapacità, l’irresponsabilità e il cinismo dei comandi militari italiani durante il conflitto.

Accoppiamenti giudiziosi

Questa raccolta, edita nel 1963, comprende 19 racconti, di cui 14 già pubblicati nel 1953 sotto il titolo Novelle dal Ducato in Fiamme (riferimento all’Italia negli anni della Seconda guerra mondiale).

Tra questi ne segnaliamo in particolare due. Nel primo, intitolato San Giorgio in casa Brocchi, Gadda descrive le attenzioni “pedagogiche” che una famiglia conservatrice della Milano degli anni Venti rivolge al giovane rampollo, il quale però è più interessato a una bella cameriera che non alle dissertazioni di etica e filosofia. L’insofferenza dell’autore verso il perbenismo borghese trova qui una forma di grande efficacia.

Un’altra prosa, scritta nei primi anni Trenta, è L’incendio di via Keplero ( T1, p. 924), racconto significativo soprattutto per l’aspetto stilistico: Gadda introduce qui per la prima volta in modo sistematico il suo tipico stile espressionistico, ricco di dialetti, di voci, di neologismi onomatopeici, allestendo una struttura accumulatoria dal notevole effetto comico.

Eros e Priapo (Da furore a cenere)

Scritto tra il 1944 e il 1945 e pubblicato nel 1967, dopo una lunga opera di revisione, è un testo difficile da classificare: libello? satira? saggio psicanalitico? Sicuramente è l’ultima opera di rilievo a cui Gadda rimette mano. Con questo scritto egli fa i conti – dal punto di vista storico e personale – con Mussolini e con il fascismo, un’ideologia alla quale inizialmente aveva aderito e che verso la fine degli anni Trenta era stata da lui avversata in modo rabbioso e iconoclasta.

Il libro offre un’analisi del rapporto squallidamente «erotico» (l’aggettivo è dell’autore) che si instaura tra la figura del duce e il popolo italiano, cioè tra la maschera vitalistica di un potere spietato e al tempo stesso da operetta e una società appiattita e resa passiva dalla propaganda martellante e dall’indottrinamento culturale.

L’invettiva costituisce una prova magistrale di invenzione linguistica, assemblando un lessico insieme classicheggiante e scurrile, ricco di giochi verbali, inserti dialettali dal romanesco al lombardo, neologismi e tecnicismi.

 >> pagina 923 

La vita

 

Le opere

• Nasce a Milano

1893

 

• Muore il padre

1909

 

• Si arruola volontario nella Prima guerra mondiale

1915

 
• A Caporetto è fatto prigioniero e trasferito in Germania 1917  

• Torna in Italia e apprende della morte in guerra del fratello Enrico

1919

 

• Si laurea in Ingegneria

1920

 

• Lavora come ingegnere in Argentina

1922-1924

 
  1924-1929 La meccanica (pubblicata in volume nel 1970)

• Si trasferisce a Roma

1925

 

• Abbandona definitivamente la professione di ingegnere

1931

La Madonna dei filosofi

  1934 Il castello di Udine

• Muore la madre

1936

 
  1938-1941 La cognizione del dolore (pubblicato in volume nel 1963)
  1938-1943 L’Adalgisa (pubblicata in volume nel 1944)

• Si trasferisce a Firenze

1940

 
  1944-1945 Eros e Priapo (pubblicato nel 1967)
  1946 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato in volume nel 1957)

• Si sposta a Roma con un impiego alla Rai

1950

 
  1955 Giornale di guerra e di prigionia

• Muore a Roma

1973

 

I grandi temi

1 Lo stile espressionistico

Quando ci si accosta a Gadda per la prima volta, ciò che colpisce è una certa difficoltà di lettura, sostanzialmente a causa di due fattori di ordine stilistico. Dal punto di vista sintattico, la costruzione della frase è spesso stravolta, con soggetto, predicato e complemento collocati in posizioni diverse da quelle consuete, e con la frequente presenza di incisi, digressioni, commenti. Dal punto di vista lessicale, la scrittura offre un’impressionante varietà di elementi linguistici: tecnicismi di diverse discipline (ingegneria, filosofia, matematica, medicina ecc.), arcaismi e vocaboli presi dai diversi repertori letterari del passato, inserti in lingua straniera, citazioni latine e greche, lemmi dialettali e neologismi.

La lingua di Gadda mescola aulico e comico, alternando momenti lirici a espressioni sconce e oscene: per tale contaminazione essa si inserisce all’interno della tradizione maccheronica, che annovera autori come Folengo e Rabelais, e in quella più ampia linea espressionistica che si fa risalire fino a Dante. Attraverso questo filtro linguistico Gadda intende rappresentare la realtà in modo deformato, osservandola da punti di vista molteplici e spesso contraddittori, perché la complessità del mondo si può rendere solo con pari complessità di stili e registri. Egli stesso, parlando in terza persona, scrive che la sua scrittura è la riproduzione del ridondante disordine della realtà: «Barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».

 >> pagina 924 

La forma più efficace per esprimere il caos e la molteplicità del reale è – agli occhi dello scrittore lombardo – quella dell’elenco. Egli procede infatti per accumulazione, giustapponendo nomi, aggettivi, verbi. Questo impulso alla catalogazione può talvolta risultare eccessivo e forzato, ma Gadda non intende rinunciare mai all’obiettivo di cogliere “enciclopedicamente” la totalità degli aspetti, convinto che la comprensione delle cose possa avvenire solo all’interno di una sintesi ideale di tutto il sapere. La sua scrittura tende in tal modo a procedere dall’enumerazione all’onnicomprensività o, per usare i termini del critico Gian Carlo Roscioni, dal singula enumerare (enumerare i singoli elementi uno per uno) all’omnia circumspicere (abbracciare tutte le cose con lo sguardo): la smania di registrare e inventariare i segni, anche minimi, del mondo significa impossessarsene linguisticamente, accatastando tutte le possibili forme nelle quali esso si manifesta. In questo contesto, assume un significato profondo la propensione ai dettagli, alle digressioni, alle note, a tutto ciò che a una prima lettura appare come secondario e poco rilevante.

Al contrario, l’attenzione ossessiva per il particolare significa per Gadda cercare di sbrogliare un groviglio di relazioni, di contatti, di somiglianze, nella convinzione che un qualsiasi fatto non sia conoscibile nella sua interezza se non dopo averlo scomposto negli elementi che lo costituiscono e averlo messo in rapporto con altri fatti, altri contesti, altre realtà.

T1

L’incendio di via Keplero

Accoppiamenti giudiziosi

Uscito per la prima volta nel 1940 sulla rivista “Il Tesoretto”, ma scritto tra il 1930 e il 1935, questo racconto – di cui riportiamo una parte – offre il primo esempio, dal punto di vista cronologico, della straordinaria creatività linguistica gaddiana.

Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che

neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare 1

quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli

riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano

5       seminude nel ferragosto e la lor prole globale,2 fuor dal tanfo e dallo spavento

repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir

d’ognuno alquanto malandate in gamba,3 che apparvero ossute e bianche e spettinate,

in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la

chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta

10    italoamericano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano,

poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in

braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse

dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti

urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e

15    fagotti di roba buttati a salvazione4 giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare

i pompieri a tutta carriera5 e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di

guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce

Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto,

il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto

20    attese!, e lingue, a tratti subitanei,6 serpigne7 e rosse, celerissime nel manifestarsi

e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso8 come d’un

arrosto infernale, e libidinoso9 solo di morularsi10 a globi e riglobi o intrefolarsi11

come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri

barbagli;12 e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa

25    o pegamoide13 bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da

quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate,14 alcune a piè nudi nella polvere

della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette15 di

cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli,

vanamente ondulati,16 avvampare in un’orrida, vivente face.17

30    Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto:18

e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati

dell’angoscia.19 Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie20 delle autopompe

fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito

male delle fiamme,21 nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato

35    un salto, gli riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala

di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva

ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio.

La sonnolenza impomatata22 dei guidatori d’automobili che falciano via con il

parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte23 e, svaccati dentro macchina,

40    ma saette pazze di fuori,24 stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti25 marciapiedi

della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente

ai cantoni, poi, subito, l’avvento delle trasvolanti sirene. Inchiodati i

tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa:26 i cavalli col carro

contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore. […]

45    «L’incendio», dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia». Ed è vero: fra

la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro:27 fra cataratte28 d’acqua potabile sopra

le ottomane pisciose e verdi,29 ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e,

sopra i cifoni30 e i credenzoni, custodi magari d’un mezz’etto di gorgonzola sudato,31

ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi,

50    dai serpi inturgiditi32 e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie33 dagli

idranti d’ottone, che finiscono in bianche zazzere34 e nube nel cielo dell’agosto

torrido: e isolatori di porcellana semiusti35 cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto

contro il marciapiede patatràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera

dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere

55    di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili,

anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti

nella mota36 della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali37

di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli

stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri,38 dei carabinieri, degli ingegneri comandanti

60    dei pompieri: e il protervo e indefesso39 cicciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte 

femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette

di San Vincenzo de’ Liguori40 dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia.41

 >> pagina 926

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

L’incipit cala il lettore in una sorta di aura mitica: Se ne raccontavano di cotte e di crude (r. 1). Subito dopo il richiamo ironico alle tecniche futuriste, incapaci di descrivere il fulmineo precipitare degli eventi, si entra direttamente e bruscamente nell’azione. Lo sconvolgimento provocato dall’improvviso incendio viene reso con la fuga caotica e terrorizzata dall’ululante topaia (r. 3) da parte degli inquilini, presentati genericamente o esplicitamente (nome e/o cognome), per dare il senso del simultaneo accavallarsi delle persone spinte all’esterno e in qualche modo rese simili dall’infuriare del fuoco.

Sul finire della prima parte antologizzata entrano in scena i pompieri, che – anch’essi frettolosamente – si dirigono verso il luogo del disastro. La loro azione viene poi riportata nella seconda parte, nella quale si descrivono la lotta dell’acqua contro il fuoco e il palazzo avvolto dal fumo e immerso in una enorme pozza di fango.

All’interno di questa rappresentazione frenetica non mancano gli attacchi comici al perbenismo borghese e alle sue ipocrisie: la prole globale (r. 5), che sta sottilmente a indicare i figli legittimi e illegittimi; le signore che, normalmente ben vestite e ordinate nell’atto di dirigersi in chiesa, vengono raffigurate in frivole sottane bianche di pizzo (r. 8); il riferimento alla pegamoide (r. 25), sorta di succedaneo più economico del cuoio (fatto di una sostanza a base di celluloide); l’elemento scatologico degli escrementi di cavallo; l’accenno fugace ai capelli che sono vanamente ondulati (r. 29), vanamente sia perché segno di civetteria femminile, sia perché ormai l’acconciatura è rovinata dalla fretta e dalla paura; l’accorrere protervo e indefesso (r. 60) per cercare di salvare da quella catastrofe oggetti che mescolano il profano (la vanità di pettini e di specchi) al sacro (l’immagine votiva del santo).

Le scelte stilistiche

L’aspetto più interessante del racconto non sta però nello sviluppo della trama, di per sé molto semplice, bensì nello stile utilizzato dall’autore. Già dalle prime righe si possono cogliere appieno alcuni degli aspetti caratteristici dell’espressionismo gaddiano: la frenesia e la confusione sono rese da una inesauribile elencazione di persone, cose, azioni, con una tecnica paratattica che accosta elementi diversi in lunghissime sequenze, da leggersi tutte d’un fiato. Il periodo che va da che ne disprigionò fuori (r. 4) a la strillava anche lei (r. 13) si interrompe per un breve attimo con il punto fermo, per riprendere subito in un altro lunghissimo elenco, da Poi, finalmente, fra persistenti urla (rr. 13-14) fino a i pianti dei loro mille nati (r. 28); lo stesso procedimento si trova anche in seguito. Se nella prima sequenza la tecnica dell’accumulo si basa sull’uso dell’avverbio poi, nella seconda viene utilizzata la congiunzione e. La differenza è sottile, ma in grado di rendere nel primo caso l’impressione di una velocissima catena di azioni, nel secondo la contemporaneità di un confuso e ingarbugliato quadro d’insieme: tutta la seconda parte del brano è infatti racchiusa in un periodo lungo e articolato, da Ed è vero (r. 45) a catastrofica lavanderia (r. 62), interrotto solo da virgole e due punti.

La punteggiatura è, come sempre accade in Gadda, usata senza risparmio, a volte sovvertendo le regole. Peculiare della sua scrittura è per esempio l’uso dei due punti, allo scopo non solo di introdurre un elenco, ma anche di segnare una pausa nel lungo periodo, assumendo così il valore della virgola o del punto e virgola (come si vede dalla r. 45 alla r. 60).

Di rilievo sono anche gli elementi linguistici più tipici del pastiche, come il frequente ricorso a vocaboli fuori dal comune. Gadda non disdegna né il prestito di termini tecnici da altre discipline (il morularsi, r. 22, che deriva dalla genetica), né la variante aulica di alcuni vocaboli (intrefolarsi per “avvolgersi”, r. 22; capegli per “capelli”, r. 28; semi-usti per “bruciacchiati”, r. 52), né ancora il ricorso a dialettismi (cifoni per “comodini”, r. 48), neologismi e invenzioni linguistiche: il simultanare ironico verso i Futuristi (r. 2), il malandate in gamba (r. 7) che richiama la locuzione “essere (male) in gamba”, i riglobi (r. 22) come ripetizione di globi, i marciapiedi garibaldofrusti (r. 40).

Non meno ricca è la presenza di figure retoriche, dalle metafore (le lingue di fuoco che sono serpigne, r. 20), alle similitudini (il fumo che si attorciglia come un pitone nero su di se stesso, r. 23), alle iperboli (i pianti dei mille nati, r. 28), alle onomatopee che rendono la dimensione auditiva del brano: il patatràf! (r. 53) che riproduce il rumore degli isolatori di porcellana caduti a terra, e il cic-ciàc, e cicìc e ciciàc (r. 60) che descrive il ciabattare delle donne. A volte ne viene utilizzata più d’una nello stesso sintagma: ululante topaia (r. 3), per esempio, ha sia aspetti metonimici (a ululare non è il palazzo, ovviamente, ma chi vi abita) che metaforici (gli inquilini vengono assimilati a tanti topi che fuggono dalla propria tana), rendendo efficacemente, a livello uditivo e visivo, la concitazione di quegli attimi.

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 In quante scene è suddiviso il brano? Prova a riassumerle brevemente e dai a ciascuna un titolo.

Analizzare

2 Le sequenze di questo brano hanno come protagonisti prima il fuoco e poi l’acqua. Evidenzia le frasi in cui ci si riferisce all’uno e all’altra.


3 Riporta nella tabella i termini che ritieni più significativi per ogni registro linguistico.


Registro basso

Registro medio

Registro alto

     
     
     
     
     


4 Nel brano sono presenti diverse parole composte. Rintracciale e spiegane la funzione espressiva.

Interpretare

5 Perché l’autore esordisce citando il futurista Filippo Tommaso Marinetti (r. 2)?


6 A quale scopo, secondo la tua opinione, Gadda si sofferma sull’ultimo pompiere del quinto drappello (r. 34)?

COMPETENZE LINGUISTICHE

7 Dei seguenti neologismi gaddiani, prima individua l’origine, poi prova a darne una definizione, come se fossero dei lemmi di dizionario.


simultanare  morularsi  intrefolarsi  trasvolante

Produrre

8 Scrivere per raccontare. Sull’esempio di Gadda prova a creare 10 neologismi relativi alla vita a scuola. Danne la definizione e spiegane brevemente l’origine.

2 Il groviglio psicanalitico

Come si è visto, Gadda è stato un autore molto prolifico, avendo scritto tanto, al limite della grafomania, sia per la pubblicazione della sua produzione narrativa e saggistica sia per motivi privati (i diari e i moltissimi carteggi). Ancor prima della letteratura, si può affermare che sia l’atto dello scrivere in sé ad assumere per lui un ruolo particolare. Già prima di comprendere la propria natura di letterato, per esempio, durante l’esperienza della Prima guerra mondiale, egli sembra utilizzare la scrittura per cercare di ritrovare un ordine nella realtà che lo circonda, o meglio per opporre al caos dominante sequenze razionali di pensieri, descrizioni, concetti o persino operazioni di analisi matematica che egli traccia sulla pagina. Il rapporto di Gadda con il mondo è dettato infatti da un’esigenza conoscitiva finalizzata a restituire razionalità al groviglio delle cose e a dare loro un senso. Tale tentativo di ricostruzione concettuale viene applicato dall’autore sia alla sfera dell’esteriorità sia a quella dell’interiorità, e – per quanto concerne quest’ultima – all’essere umano in generale e a sé stesso.

La critica ha sottolineato, a più riprese, come l’irrefrenabile impulso di Gadda all’autobiografismo si traduca nei suoi scritti nella proiezione costante delle proprie nevrosi e ossessioni: tale processo svela i suoi sforzi di psicanalizzare, spiegare, comprendere la propria vita e dare un senso ai traumi che l’hanno così fortemente condizionata. È in questo impegno gnoseologico che la sua scrittura prova a farsi terapia, in quanto si pone l’obiettivo di scavare a fondo nei disturbi psicologici del proprio io (l’autore allude a un «male oscuro» che lo attanaglia) e nel labirinto di un mondo degenerato e insensato.

In particolare, il centro di gravità della nevrosi dello scrittore è rappresentato dal conflitto con la madre, a sua volta tristemente condizionato dalla morte del fratello Enrico. Gadda percepisce in lei una “carenza affettiva”, un’incapacità a donarsi a lui che è il figlio sopravvissuto, quello meno bello, meno energico, meno vitale; ciò lo induce a considerare sé stesso una «prova difettiva di natura», come se egli non fosse idoneo a meritare l’amore e le carezze della madre. Parla a più riprese, in molti saggi e articoli dedicati ad altre figure emblematiche della Storia o della letteratura (Baudelaire, Leopardi, Rimbaud ecc.), di esempi di «delusione filiale», di madri che verso i figli mostrano una «certa ritenutezza»; e legge in questo rapporto la base di «quell’aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche e mentali che Freud ha tentato appunto di sgrovigliare» (Psicanalisi e letteratura). Un verso virgiliano, tratto dalla IV egloga, torna con frequenza nelle sue dissertazioni a suggellare e dare forza a questo discorso: Cui non risere parentes, tradotto da lui stesso come «colui a cui i genitori non hanno potuto sorridere».

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Dalla negazione affettiva deriva un sentimento aspramente conflittuale verso quella figura che viene vista come «madre sbagliata», «castrante». Durante tutta la vita, l’immagine di questa donna austera e severa permane nell’immaginario dello scrittore lombardo; anche se nel periodo successivo alla sua morte si scatena in lui un assillo diverso ma altrettanto doloroso: il rimorso. La distanza e l’odio provati in vita vengono trasfigurati in colpa, come se le ragioni di quella negazione e di quella morte fossero da addossarsi a lui, alla sua imperfezione, alle sue incapacità. Gadda si sente allora completamente solo; ed è anche per questo, per provare a lenire quella ferita, che dedica alla madre un capolavoro assoluto come La cognizione del dolore.

T2

La mamma

La cognizione del dolore, II, cap. 5

Il luogo in cui trova migliore espressione il complesso rapporto tra Gadda e la madre è il romanzo La cognizione del dolore, che somiglia molto a un processo in cui l’autore interpreta «tutte le parti: di pubblico accusatore, di colpevole, di innocente, di difensore e di giudice» (Citati), esagerando le proprie colpe fino al punto di calunniarsi e descriversi come patricida e matricida. Tra queste pagine di disperata violenza, ad apertura della seconda parte del romanzo, emerge proprio la figura sulla quale si appunta tutta la rabbia dello scrittore: la madre.

Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame,1 tutto ciò che le era rimasto?

di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto:

e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso,2 col

volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il

5      figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, passionatamente,

l’aveva carezzata, baciata. Dopo un anno, a Pastrufazio,3 un sottufficiale d’arma4 le

si era presentato con un diploma, le aveva consegnato un libercolo, pregandola di

voler apporre la sua firma su di un altro brogliaccio:5 e in così dire le aveva porto

una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?».6

10    Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio,7 aveva

risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire8 d’una condanna. A cui,

dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare.

Avanti che se ne andasse,9 quando con un tintinnare della catenella raccolse a

sé, dopo il registro, anche la spada luccicante, ella gli aveva detto come a trattenerlo:

15    «posso offrirle un bicchiere di Nevado?»:10 stringendo l’una nell’altra le mani

scarne. Ma quello non volle accettare. Le era parso che somigliasse stranamente a

chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del

cuore glie lo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito dei labbri, la riapparita

presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna.

20    Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie11 d’una finestra, che12 il sole

entrasse, nella grande stanza. La luce allora incontrava le sue vesti dimesse, quasi

povere: i piccoli ripieghi di cui aveva potuto medicare, resistendo al pianto, l’abito

umiliato della vecchiezza. Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i

latrati del buio.13 Ella ne14 conosceva le dimensioni e l’intrinseco,15 la distanza dalla

25    terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere;16 molte cose aveva

imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero17 che perseguono nella

vacuità degli spazî senza senso18 l’ellisse del nostro disperato dolore.19

Vagava, nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta

ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e d’ogni

30    imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche

mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole.

Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto,20 si adombrava talora delle sue cupe

nuvole;21 che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate

ad un tratto22 parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente.

35    Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi

di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine:

trascorsi una diecina di giorni da quando aveva fatto chiamare la custode, con le

chiavi: e, da lei accompagnata, era voluta discendere al Cimitero. Quella minaccia23

la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o di esseri non conosciuti,

40    e tuttavia inesorabili alla24 persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e

sempre, dopo i chiari mattini della speranza. Ciò che più la soleva sgomentare fu

sempre il malanimo impreveduto di chi non avesse cagione25 alcuna da odiarla, o

da offenderla: di quelli a cui la sua fiducia così pura si era così trasportatamente26

rivolta, come ad eguali e a fratelli in una superiore società delle anime. Allora ogni

45    soccorrevole esperienza e memoria, valore e lavoro, e soccorso della città e della

gente, si scancellava a un tratto dalla desolazione dell’istinto mortificato, l’intimo

vigore della consapevolezza si smarriva:27 come di bimba urtata dalla folla, travolta.

La folla imbarbarita degli evi persi,28 la tenebra delle cose e delle anime erano

un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita

50    bimba) – perché, perché.

L’uragano, e anche quel giorno, soleva percorrere con lunghi ululati le gole paurose

delle montagne, e sfociava poi nell’aperto contro le case e gli opifici29 degli

uomini. Dopo ogni tetro accumulo di sua rancura, per tutto il cielo si disfrenava alle

folgori, come nel guasto e nelle rapine un capitanaccio dei lanzi a gozzovigliare tra

55    sinistre luci e spari.30 Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi,31

ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa. Dalla finestretta delle

scale, una raffica, irrompendo, l’aveva ghermita32 per i capegli:33 scricchiolavano da

parer istiantare i pianciti e le loro intravature di legno:34 come fasciame, come di nave

in fortuna:35 e gli infissi chiusi, barrati, gonfiati da quel furore del di fuori. Ed ella,

60    simile ad animale di già ferito, se avverta36 sopra di sé ancora ed ancora le trombe efferate

della caccia,37 si raccolse come poteva nella sua stremata condizione a ritrovare

un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto.38 Vincendo

paurosamente quel vuoto d’ogni gradino, tentandoli uno dopo l’altro, col piede, aggrappandosi

alla ringhiera con le mani che non sapevano più prendere, scendendo,

65    scendendo, giù, giù, verso il buio e l’umidore39 del fondo.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

In questo capitolo la madre entra per la prima volta direttamente sulla scena del romanzo: in precedenza era stata soltanto evocata nei discorsi degli abitanti di Lukones o nelle parole di Gonzalo. Le prime due sequenze sono incentrate sulla rievocazione accorata della perdita del figlio in guerra, un ricordo che sembra tormentare senza requie la povera donna, incapace di trovare altra ragione di vita. Il dolore è così devastante da essere ormai indissolubilmente racchiuso in semplici nomi: quello del monte su cui l’aereo del soldato è precipitato e quello del luogo in cui è stato seppellito il corpo (rr. 2-3). È sufficiente ascoltare quei nomi perché essa ripiombi nell’abisso dell’assenza del figlio prediletto e perché si scatenino in lei il pianto e lo strazio.

La donna si muove nella casa senza sapere dove andare o cosa fare: il termine vagava viene usato ben tre volte, nel primo, terzo e quarto capoverso, a esprimere la mancanza di scopo e di direzione. Sia le cose sia i gesti denotano una quotidianità ormai privata, per sempre, di senso: le pentole di rame appese al muro (tutto ciò che le era rimasto? di una vita, rr. 1-2), le persiane aperte per far entrare il sole (Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio, rr. 23-24), la cucina vuota (senza più fuoco alle stanze, senza più voci, r. 30), regno ormai soltanto delle mosche, sinistre presenze che Gadda evoca molto spesso come simbolo di morte.

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Nel secondo capoverso compare un elemento che cela un significato psicanalitico profondo. La donna sembra riconoscere nel sottufficiale il figlio perduto, tanto che risorge in lei il desiderio di amare. Si tratta però di un’illusione, in quanto non soltanto quel figlio non tornerà più (rapito dal vento verso smemoranti cipressi, r. 55), ma anche l’altro – Gonzalo – è ormai lontano, terribilmente lontano (rr. 34-35). I due figli, per ragioni diverse, sono sullo stesso piano, ormai irraggiungibili, e nel suo destino di madre perduta, nel suo sentiero misterioso (r. 28) ci sono esclusivamente tristezza e abbandono. Non a caso, mentre un uragano si avvicina, la donna viene descritta come una bimba indifesa e sgomenta davanti all’infuriare della tempesta che incombe drammaticamente, emblema di una vita straziata e agonizzante. È rimasta sola ad affrontare la vita, perché il figlio sopravvissuto non è che un estraneo, un misantropo incapace di affetto, a sua volta vittima disgraziata di un oscuro e incomunicabile rovello interiore.

Le scelte stilistiche

La figura tragica della donna viene avvolta da un linguaggio dolente ed evocativo, fatto di avverbi e termini rari e preziosi (dimenticanza, r. 4; riapparita, rr. 18-19; imagine, r. 30; vaporavano, r. 33; trasportatamente, r. 43; umidore, r. 65), sintagmi di lirica bellezza che prediligono la struttura aggettivo-nome-complemento (feroce rincrudire d’una condanna, r. 11; buia voce dell’eternità, r. 12) o nome-aggettivo-complemento (fulgore breve del tempo, r. 17; abito umiliato della vecchiezza, rr. 22-23). La prosa tende al verso poetico, con la ripetizione di alcuni vocaboli a rafforzare l’ineluttabilità della perdita (nessuno, nessuno mai, ritorna, r. 19; il male che risorge ancora, ancora e sempre, rr. 40-41) e l’impiego anaforico di quel vagava posto a inizio di tre capoversi per richiamare l’ossessiva ripetizione dei gesti e dei comportamenti in cui la donna è piombata dopo la tragedia, incapace di uscire dall’orbita di quella sofferenza (l’ellisse del nostro disperato dolore, r. 27).

È uno stile che si mantiene alto e che lascia poco spazio al pastiche: uno stile che al tempo stesso omaggia la madre, i suoi gusti di donna colta e di insegnante, e la immerge in un tessuto lessicale ricchissimo, in una cadenza ritmica che sembra ripeterne il pianto, con l’uso intenso della punteggiatura che spezza continuamente la frase come in un continuo singhiozzo: Vagava, / sola, / nella casa. / Ed erano quei muri, / quel rame, / tutto ciò che le era rimasto? / di una vita (rr. 1-2). Soltanto dopo queste prime sequenze, e poi nel resto del capitolo, i periodi diventano più lunghi, dando di nuovo spazio al racconto.
Da notare è anche il tempo verbale scelto. L’imperfetto infatti, specialmente nei primi capoversi, rende l’azione in movimento e confonde i momenti temporali in un fluire continuo di passato, presente e futuro, restituendo il senso del non finito e il groviglio di sensazioni e dolore che segna la madre nella sua progressiva «cognizione del dolore» della vita.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Suddividi il brano in sequenze e riassumilo.

Analizzare

2 Il testo è ricco di ripetizioni e di anafore. Individuane almeno cinque e specificane il significato.


3 Quali sono gli elementi stilistici che accentuano il tono poetico e struggente del brano? Fai qualche esempio.

Interpretare

4 Quali sono gli elementi autobiografici che Gadda inserisce in queste pagine?


5 A un certo punto Gadda parla di tempo dissolto (r. 32): perché? Che significato ha il tempo all’interno del brano?


6 Come descriveresti la figura della madre dal punto di vista emotivo e psicologico?

Vola alta parola - volume 6
Vola alta parola - volume 6
Dal Novecento a oggi