LETTURE critiche

LETTURE critiche

Le forme della poesia di Giorgio Caproni, dalla tradizione alla dissoluzione

di Bruno Falcetto

Lo studioso Bruno Falcetto (n. 1958) indaga in questo contributo la sostanza formale della poesia di Giorgio Caproni, un autore fortemente legato alla tradizione letteraria italiana. Teso nella sua produzione iniziale verso esiti di “cantabilità”, spesso tramite l’utilizzo di versi brevi talora fino all’adozione della canzonetta, negli anni della guerra e in quelli successivi Caproni ha invece preferito adottare forme “chiuse” come il sonetto e la stanza. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un tentativo di resistere, attraverso l’adesione a una forma precisa, alla dissoluzione di tutto un mondo, privato e collettivo, in anni di rivolgimenti radicali. Tuttavia l’evoluzione della lirica caproniana non si è fermata a quelle soluzioni, ma anzi è proseguita, fino alle ultime raccolte, nella direzione di una “scarnificazione metrica” (come si esprime Falcetto) che l’ha portato, dopo aver assunto in un primo momento le forme tradizionali, a metterle in discussione, procedendo a una loro dissoluzione. Un po’ come aveva fatto prima di lui, all’inizio del Novecento, un altro importante poeta, Guido Gozzano.

Nata nell’età dell’Ermetismo, la poesia di Caproni mostra una natura propria, distante da quella scuola. Anche se nelle sue prime raccolte (e soprattutto in Cronistoria, 1943) si trovano elementi riconducibili all’Ermetismo, in particolare all’“impressionismo lirico” e al “melodismo” di Alfonso Gatto (Mengaldo), le sue radici sono altrove, in una cultura poetica precedente e alternativa. Il suo Novecento è semmai quello dell’espressionismo dei poeti della “Voce” (Sbarbaro in primo luogo, ma anche Rebora) e quello delle prime raccolte di Montale e Ungaretti (Ossi di seppia e Allegria). Rilevante inoltre l’influenza della linea ligure, da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi1 a Boine e Firpo,2 alla quale dedica una serie di interventi. Si tratta di relazioni determinate in primo luogo dall’appartenenza a “un pre-mondo comune di ‘cose’, di paesaggio” (Pasolini). Come non senza tracce è la lezione di Betocchi,3 di cui Caproni ammirava la “virtù antica” di “restituire al simbolo (quando lo adotta) il proprio oggetto definito” e la “tanta chiarezza dell’anima” (Realtà vince simbolo, 1956). L’affinità con Saba è invece essenzialmente data da una certa convergenza di percorso (si veda la comune inclinazione al “racconto”), poiché, come egli stesso ha scritto a Luigi Surdich,4 “Saba l’ho letto sempre poco e – mea culpa – tardi”. Ma le scelte letterarie di Caproni sono alimentate anche da una precoce, costante e libera frequentazione della tradizione poetica italiana, da Dante e Cavalcanti a Michelangelo, Tasso, Frugoni,5 Leopardi, Carducci.

Per Caproni “in principio è la rima (o l’assonanza e consonanza)” (Mengaldo). L’evidenza del tessuto sonoro è la caratteristica essenziale del suo stile poetico, un tessuto sonoro nel quale, nei diversi momenti della sua produzione, tende a dominare la musicalità netta e squillante della rima (come nei componimenti In appendice a Il passaggio di Enea e nel Seme del piangere) o quella più sommessa, diffusa e, a volte, dissonante creata dall’intreccio di allitterazioni e assonanze (come nelle prime raccolte o in Il muro della terra), più propensa insomma al canto disteso oppure più ‘prosastica’.

Le scelte metriche delle raccolte giovanili (da Come un’allegoria, 1936, a Finzioni, 1941) si orientano verso composizioni normalmente brevi (fra sei e quindici/venti versi) in cui sono rare le serie di versi della stessa misura. In qualche caso si tratta quasi di vere e proprie canzonette (Sono donne che sanno) per i versi brevi (e l’ammissibilità di tutte le misure), per l’esatta rispondenza delle rime e la possibile presenza di alcuni versi non rimati.

La poesia di Caproni negli anni della guerra e fino ai primi anni cinquanta è caratterizzata invece dall’adozione di forme chiuse, dalla ripresa degli schemi tradizionali del sonetto e della stanza. Sono anni “di bianca e quasi forsennata disperazione” nei quali “l’importance formale della scrittura”, la regolarità e la sostenutezza della forma, valgono come un freno alle inquietudini interiori ed esterne, come “tetto all’intima dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo d’istituzioni e di miti” (Il “Terzo libro” e altre cose, 1968). La manifestazione più evidente di tali tensioni è il “caldo impeto interiettivo”, la materia “esclamativa e patetica” (Pasolini), che detta, per esempio, tanti attacchi memorabili, già a partire da Cronistoria (“Il vento ahi quale tenue sepoltura, /amore, alla tua voce”, Sonetti dell’anniversario IX, “Ahi i nomi per l’eterno abbandonati sui sassi”, Lamento I). [...]

Nei tardi anni Quaranta a fianco di questo lavoro di “reinvenzione delle forme concluse”, Caproni sperimenta una vena poetica più libera e leggera, a iniziare dai componimenti posti In appendice a Stanze della funicolare e Il paesaggio di Enea (L’ascensore, le poesie Su cartolina), quindi con Il seme del piangere. Sono forme poetiche che sembrano in qualche modo echeggiare i generi tradizionali della canzonetta e della ballata. Si tratta di una canzonetta “iperdeterminata ma insieme un po’ sghemba,6 intanto per le strofe diseguali” (Mengaldo), di versi mediobrevi e caratterizzata dall’uso abituale della rima baciata.

Nella poesia dell’ultimo Caproni una “vicenda di spietata semplificazione ed estremizzazione tematica” (Raboni) si combina con un processo di scarnificazione metrica. Caproni alterna due tipi di componimenti, poesie brevi (di solito fra due e sei versi), di carattere epigrammatico, e testi più lunghi, con un andamento più narrativo o distesamente riflessivo e lirico. Comune a entrambi i tipi la tendenza a una costruzione metrica in cui le misure più tradizionalmente caproniane (settenario, ottonario, novenario) vengono segmentate, frante in emistichi disposti “a gradino”. Soprattutto dal Franco Cacciatore in poi, le composizioni assumono così un andamento strofico rarefatto, un aspetto grafico che esalta la discontinuità: distici, singoli versi ed emistichi si alternano con sequenze più lunghe. La sintassi è lineare ma scandita, spezzata. I periodi sono spesso corti, anche di una sola frase o parola, ed è frequente il ricorso a costrutti nominali.


Bruno Falcetto, Giorgio Caproni, Garzanti, Milano 1997

Comprendere il pensiero critico

1 Quali sono i poeti ai quali Caproni si ispira?


2 È corretto affermare che l’ispirazione di Caproni nasce prima dal significato che dal significante?


3 Il sapiente uso del ritmo e della musicalità delle rime è significativo nella poetica caproniana o rimane un espediente retorico? perché?

Vola alta parola - volume 6
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Dal Novecento a oggi