LETTURE critiche

LETTURE critiche

I dilemmi morali di Grazia Deledda tra mondo contadino e civiltà borghese

di Vittorio Spinazzola

Il critico Vittorio Spinazzola (n. 1930) individua nel periodo compreso tra il trasferimento a Roma e l’assegnazione del Nobel (1900-1926) la fase della migliore produzione narrativa della Deledda, che definisce nel suo complesso con la felice formula di «realismo coscienziale»: vale a dire uno spiccato interesse per le problematiche morali, della coscienza appunto, ma senza «un’organica concezione ideologica o fideistica», bensì con una costante adesione ai dati di realtà. Sullo sfondo delle trame deleddiane possiamo cogliere sempre «un urto fra vecchio e nuovo», nella rappresentazione «del travaglio di un popolo sospeso e incerto tra l’arcaismo oppressivo di una civiltà contadina-feudale non ancora dissolta e la modernità di un mondo borghese incapace di assolvere una funzione davvero liberatoria nei confronti dell'individuo, immettendolo in una collettività saldamente rinnovata».

La miglior stagione creativa della Deledda si apre nel 1900, con la pubblicazione di Elias Portolu e annovera nei due decenni successivi, tra gli altri titoli, Cenere, L’edera, Canne al vento, Marianna Sirca, L’incendio nell’uliveto, La madre. In questi romanzi appare messo in disparte il sentimento dell’economicità, la lotta fra opposti egoismi utilitari che informava la narrativa verista. L’attenzione resta tuttavia aderente alla realtà del costume contemporaneo, concentrandosi su un motivo che i veristi appunto avevano fortemente sentito: la crisi dell’istituto familiare, nel tramonto delle norme etiche che tradizionalmente informavano gli affetti privati. Le lacerazioni interiori di cui l’individuo soffre al venir meno dei rapporti di coesione tra genitori e figli, tra coniugi, tra amanti acquistano più dolorosa evidenza dal particolare sfondo ambientale: una terra, la Sardegna, in cui il retaggio morale degli avi è saldamente insediato nelle coscienze, assumendo sostanza di tabù religioso. Chi contravviene alla legge è dunque tutto pervaso d’orrore per il peccato che sente crescere dentro di sé a cui tuttavia non sa né vuole resistere. Perciò gli eroi della Deledda non hanno mai alcun tratto superomistico: la passione da cui sono sospinti non conosce i compiacimenti orgogliosi che esaltano sopra se stesse le creature dannunziane. D’altronde la scrittrice non sottopone il loro turbamento ad alcun esame analitico: si limita a riviverne intensamente la genuinità emotiva. Condivide l’ottica mentale dei personaggi; assieme a loro attende il funesto approssimarsi della tempesta; la affronta tendendo disperatamente ogni energia: ma lascia al destino decidere le sorti dello scontro.

Il metodo narrativo della Deledda consiste in una adesione immediata alla realtà vitale, sentita come il luogo di un eterno contrasto fra opposte forze, che ponendo a prova tutte le doti dell’uomo ne impegnano e ne realizzano al più alto grado l’umanità. Una forma di realismo coscienziale, insomma, in cui la materialità dell’esistenza appare fortemente spiritualizzata. Nondimeno, i fatti oggettivi riluttano ad assumere un valore di simbolo, così come ad accettare una motivazione metafisica. Le occasioni della vita non rimandano ad altro che alla vita stessa, la quale è incapace di fornir loro un significato logico e di ordinarli a un fine di progresso storico.

Il vitalismo della Deledda ha una sostanza tormentosamente antiidillica che induce la scrittrice ad affaticarsi di romanzo in romanzo sui termini di una contraddizione destinata a rimanere insolubile, in quanto non illuminata da una organica concezione ideologica o fideistica.

Alla base dei suoi libri c’è sempre un urto fra vecchio e nuovo: l’impulso a contravvenire alla legge deriva da un mutamento di stato sociale o di condizione morale, comunque da un arricchimento di esperienza che induce il protagonista a guardare con occhi diversi il mondo di cui ha sino allora condiviso l’ordine. Egli appare dunque l’oggettivo portatore di una esigenza di rinnovamento, che tuttavia lo urge in modo del tutto irriflesso e proprio perciò non acquista il valore di verità necessario per dare morte alle antiche concezioni: il tabù non incombe mai tanto pauroso come sull’animo di chi è fatalmente trascinato ad infrangerlo. Si spiegano così le incertezze strutturali e le ineguaglianze stilistiche che spesso viziano questi libri: le effusioni liriche, le insistenze patetiche, le divagazioni descrittive. Tuttavia il senso della miglior narrativa deleddiana sta proprio nella sua irresolutezza, poiché da essa nasce la forza drammatica degli episodi in cui la crisi delle coscienze esplode, portando finalmente in luce l’unico principio etico cui vada riconosciuto un valore integralmente positivo: il sacrificio di sé.

Certo, la presenza di Dio aleggia ancora sul mondo umano. Ma rappresenta piuttosto il limite dei nostri sforzi che non una certezza, verificabile giorno per giorno, dalla quale attingere fiducia per operare e combattere. Nessuna provvidenza soccorre gli uomini nei loro faticosi erramenti: ma essi non si rassegnano a sentirsene abbandonati. Solo nell’ultima fase della narrativa deleddiana l’ambiguità tende a risolversi. Subentra la volontà di acquistare una maggior compostezza rappresentativa e nitore di scrittura, sorretti da un più saldo equilibrio di ragioni morali. A sanzionare questa svolta interviene, nel 1926, il premio Nobel: il primo assegnato all’Italia dopo l’ormai lontano caso del Carducci. Ma il miglior decoro formale cui la scrittrice perviene rappresenta una perdita, non un acquisto, in quanto ha luogo sotto il segno di un rientro nell’ordine dei valori costituiti, che indica un diminuito fervore etico e una accentuata stanchezza della fantasia.

Così nei romanzi della vecchiaia – Annalena Bilsini, Il paese del vento, La chiesa della solitudine – si attenua fortemente l’interesse di testimonianza offerto dalla rappresentazione del lungo travaglio di un popolo sospeso e incerto tra l’arcaismo oppressivo di una civiltà contadina-feudale non ancora dissolta e la modernità di un mondo borghese incapace di assolvere una funzione davvero liberatoria nei confronti dell’individuo, immettendolo in una collettività solidamente rinnovata. Sub specie Sardiniae1 è dell’intera Italia che la Deledda parla, riflettendo stati d’animo largamente diffusi, nei primi tormentati decenni del secolo. Qui sta il motivo essenziale della sua non immeritata fortuna di pubblico.


Vittorio Spinazzola, Introduzione, in Grazia Deledda, Cosima, Mondadori, Milano 1975

Comprendere il pensiero critico

1 In che senso si può parlare di “verismo” per le opere di Grazia Deledda?


2 Credi che l’ambiente e la cultura sardi abbiano influito sulla caratterizzazione psicologica dei personaggi deleddiani? Se sì, in che modo?


3 Nei romanzi della Deledda, qual è il rapporto dei protagonisti con la Provvidenza divina?

Vola alta parola - volume 5
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Il secondo Ottocento