L’apprezzamento del pubblico e le divisioni della critica
Se è spesso tipico degli scrittori d’origine provinciale e per giunta di formazione autodidattica mantenersi alquanto periferici rispetto alla Storia, nel caso di Grazia Deledda tale marginalità fu forse tra le principali ragioni di un successo che in vita mai le venne meno. I suoi scritti apparvero presto accessibili ai lettori della piccola Italia d’allora, periferici anch’essi rispetto al resto dell’Europa, incontrando un favore che rimase sconosciuto ai contemporanei Luigi Pirandello, Italo Svevo, Federigo Tozzi.
La critica, tuttavia, è stata sempre assai divisa. I giudizi, sin dall’inizio della sua produzione, discordano in maniera netta, come ricordava Natalino Sapegno in un suo saggio del 1947. Lei sembrava curarsene poco. Disse in un’intervista del 1926 (sulla “Fiera letteraria” del 28 marzo di quell’anno): «Leggo poco della critica. La critica non m’interessa gran che, perché anche quando è laudativa nei miei riguardi, mi fa più male che bene. Poi mi disorienta. Uno m’innalza alle stelle, parla di perfezione, di arte greca, di catarsi e di tante altre belle cose; un altro mi tratta da mezza cretina. Come si fa allora ad orientarsi?».
La scrittrice sarda non piacque a Renato Serra, che la riteneva mediocre, né a Pietro Pancrazi e a Benedetto Croce, il quale non riusciva a raccapezzarsi fra i suoi numerosi romanzi: «che non sarebbe agevole differenziare tra loro nel loro merito artistico, essendo a un dipresso tutti del pari plausibili, e nessuno così fatto da imprimersi profondamente nel cuore e nella fantasia dei lettori».