LETTURE critiche

LETTURE critiche

Il conflitto e le contraddizioni del mondo e dei personaggi pirandelliani

di Lucio Lugnani

Non solo “vita” e “forma”: come osserva in questo brano critico Lucio Lugnani, la produzione pirandelliana, in particolare quella novellistica, si sviluppa sempre lungo l’asse della contraddizione. I personaggi si muovono agitati da un perenne conflitto, tentando di fuggire da un mondo claustrofobico o di aderirvi bloccando e inibendo pulsioni e ribellioni; il desiderio della vita urta continuamente con la tentazione della morte; un’infinità di altre coppie si scontra vanamente, ora l’anima contro il corpo, ora la follia contro la saggezza, ora la verità contro la finzione e così via.

La contraddizione è la stella doppia che presiede all’universo narrato pirandelliano e che sprigiona l’energia che lo muove. Quel mondo è attraversato da conflitti polari non risolubili, da istanze contrarie non conciliabili, da valori contrapposti che simultaneamente vigono e guidano le azioni dei protagonisti. È perciò un mondo fobico e chiuso, nel quale i personaggi sono tutti reclusi che cercano una via di scampo e di fuga, ora vanamente tentando di sfuggire a un corno della contraddizione col correre ciecamente incontro all’altro polo, ora sottraendosi alla coazione ripetitiva e alla costrizione per la via del nulla e con la morte, ora implacabilmente imponendosi un’autodisciplina di immobilità che li tiene bloccati e sospesi fra le due istanze irriducibilmente contraddittorie. La vita e la morte, del resto, la loro definizione e la loro marca assiologica, sono la più profonda e sommersa, la più fondante delle contraddizioni. Il corpus oscilla tra un inno alla vita e un complementare elogio della morte, tra un desiderio e una paura della vita la cui intensità e ricorrenza è pari al desiderio e alla paura della morte. La vita è ora bene supremo, anelito primario, forza sacra e inesauribile, ora il peggiore e il primo dei mali, anzi il male per antonomasia, rapina irrefrenabile, voglia matta e bestiale, condanna antropologica senza risarcimento né fine. Complementarmente, la morte è ora termine insensato della vita, orrore del vuoto, immobilità fredda, pesante, insensibile, ora è leggerezza, liberazione, emancipazione, evasione, sogno di rinascita e di ricongiungimento all’unità indivisa e indistinta del cosmo. Da questi valori ancipiti della vita e della morte discendono altre coppie di contrari che la riproducono e infinitamente la replicano nell’ordine del reale e del soggettivo: l’anima e il corpo, l’imperturbabilità e la passione, l’illusione e la realtà, la sincerità e la finzione, l’io e i suoi doppi, la follia e la saggezza. Anche il livello antropomorfo dei personaggi riproduce a suo modo questa duplicità ineliminabile e insuperabile, con la enigmatica separazione e contrapposizione dei due sessi: l’uomo e la donna, prosopopea incarnata della contraddizione. La popolazione novellistica combatte e si dibatte in questa tagliola che la fa gemere e urlare oppure la fa ostinatamente, disperatamente ragionare; e sogna mondi mitici che ne siano liberi e immuni, sogna, cioè, contraddittoriamente, di non essere quella che è. 


Lucio Lugnani, Introduzione a Luigi Pirandello, Novelle, Einaudi, Torino 1994

Comprendere il pensiero critico

1 Da che cosa è segnato, secondo Lugnani, l’universo di Pirandello?


2 Quali dicotomie discendono da quella archetipica vita-morte?

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La biblioteca e il cimitero nel Fu Mattia Pascal

di Giancarlo Mazzacurati

Giancarlo Mazzacurati (1936­-1995) svolge in questo saggio del 1993 un articolato confronto tra i due scenari­-simbolo che aprono e chiudono la vicenda del Fu Mattia Pascal: la biblioteca e il cimitero. Attraverso una riflessione ad ampio spettro sul rapporto di Pirandello con la cultura d’inizio Novecento, il critico delinea il quadro di una zona narrativa ai «confini col nulla», «paradossale», «debole e flessibile».

La terza vita di Mattia Pascal, che è poi la prima in cui il lettore si imbatte, nella doppia «premessa», ha due sfondi dominanti: all’inizio la biblioteca; alla fine del romanzo, quan­do la spirale si richiude, il cimitero. Questi luoghi di confine col nulla (o con quell’«oltre» che spesso balena dietro alcuni altri simboli) sono già esemplari di un paradosso che per ora è costitutivo della vicenda del personaggio e dei suoi estremi umori, ma un giorno sarà incarnato dall’autore stesso, specie nei momenti più alti della sua futura carriera teatrale. Si tratta di quella particolare sfida alle rovine del vecchio mondo tolemaico, che qui si manifesta nell’ironico progetto di depositare un’autobiografia proprio nella bibliote­ ca (già tempio austero della memoria) che ora è un deposito donde è stato esiliato ogni culto, compreso quello della memoria; e più tardi si manifesterà, tra i «colloqui coi per­sonaggi» e i Sei personaggi in cerca d’autore, nel rifiuto apparente di mediare tra la vita e la sua rappresentazione, per poi occupare in realtà lo spazio morto della scena teatrale con frammenti tumultuosi di vita, che si sostituiscono all’ordine ormai impraticabile dell’arte. 

La chiesa­-biblioteca, sottratta a ogni rito,1 e il teatro svuotato d’ogni magia mimetica e d’ogni risposta risarcitiva all’enigma delle vicende individuali, sono gli emblemi diver­si di un sogno protagonistico esausto, di una centralità perduta e irrecuperabile dell’eroe, romanzesco e poi scenico. Forse anche per questo il terzo romanzo (dopo l’Esclusa e Il Turno) trasporta le sue vicende lontano dai vecchi fondali del naturalismo regionale sici­liano: là, per quanti strappi si potessero già fare ai «cieli di carta» (M.P., cap. XII), le coor­dinate terrestri dei luoghi e dei loro linguaggi troppo determinati rischiavano di produrre ancora storie di significato concluso, casi riconoscibili attraverso l’equivoco resistente del milieu;2 e dunque, ancora una sorta di centralità, sia pure disperata o comica, per prota­gonisti avvinti da tanti filamenti alla morale circoscritta di un clima sociale, alla fisica so­cialmente colorita di un ambiente. La Liguria sbiadita del primo Mattia Pascal e le metro­poli opache della sua seconda vita come Adriano Meis garantiscono invece al nuovo eroe quella sottrazione al tipico e quell’annegamento simbolico nell’indistinto che dovevano segnare il suo definitivo congedo dai «documenti umani»,3 il suo ingresso in un altro or­dine, più tipicamente novecentesco, della rappresentazione: quello delle vite senza radi­ ci e «senza qualità»,4 per le quali il tempo storico che racchiude e identifica, si tratti del «secondo impero» zoliano,5 dell’apogeo e della caduta musiliana6 degli Asburgo o dell’e­tàgiolittiana da noi, diviene prima o poi un falso ancoraggio, un insostenibile limite.

Mattia Pascal è certo il primo protagonista di romanzo in Italia (e forse tra i primi, in Europa) ad addentrarsi in questo novero di vite, all’apparenza volubili per gioco, per estri balzani o umori mercuriali, in realtà costituzionalmente volatili e predisposte a migrare da uno stadio all’altro della società e della stessa biologia. Alla fine dell’irregolare ciclo di Pirandello romanziere si accamperà infatti Vitangelo Moscarda, con quel suo ultimo mi­ raggio di evaporare e dissolversi senza più alcuna memoria del mondo, come una goccia d’acqua in perenne metamorfosi, tra le nubi e le vene segrete della terra: sarà la forma, ti­pica del nuovo «naturalismo» pirandelliano (cioè, della sua ansia di ritorno al «caos»), di una tensione all’apocalisse che percorse anche altri versanti del romanzo italiano, fino a La coscienza di Zeno. Ma quel disegno che là si farà esplicito, nel Fu Mattia Pascal è già in­scritto, come l’eternità è inscritta nei movimenti di una vita infinita: si tratta solo di con­tinuare a girarla oltre il segno stabilito per la fine della sua corsa convenzionale, perché la filettatura, in sé, non contiene percorsi conclusi né segnali definitivi di arresto. Per avviarsi verso un simile esito, occorrerà tuttavia veder consumato ogni filo di contiguità e di iden­tificazione, per quanto critica, col passato; occorrerà non più soltanto obliterare ma perde­re ogni memoria; e insieme far definitivamente deviare verso le cosmologie dell’«altrove» quella ricerca di felicità (e di identità) che per il primo Mattia Pascal e per Adriano Meis era ancora contenibile entro un’utopia terrena: analoga, in quanto tale, all’«ansiosa speranza del futuro» e di una guarigione possibile abbandonata solo in vecchiaia da Zeno.

Agli antipodi degli eroi dannunziani della vita sublime (e ormai remoti anche da quel­li verghiani dei grandi cicli materiali), si annunciano, col Mattia Pascal, gli eroi della vi­ta interstiziale,7 sopravvissuti a una catastrofe dell’ideologia ottocentesca di cui solo du­rante la Grande Guerra si ascolterà per intero lo schianto. Essi chiedono già di vivere non sopra, né dentro, ma sotto la storia; e mentre gli Andrea Sperelli o i Giorgio Aurispa re­clamavano un’identità più forte del tempo che stavano attraversando e altri (come quelli fogazzariani) un progetto legato al tempo, un’etica correttiva delle sue delusioni, questi cercheranno invece identità più deboli e più flessibili, in cune intemporali o nelle pieghe segrete della società ormai massificata. Contro lo scacco dei grandi miti (da quello del Ri­sorgimento a quello del Progresso), con tutti i loro apparati di propulsione, i loro corteg­gi8 teorici e istituzionali, divenuti insieme ricattatori e ossidati; contro le «forme» che in­ combono dal passato, con la loro retorica opprimente, ormai rapprese come stalattiti da cui non gocciano più linfe vitali, l’«anima» dei primi e già tipici personaggi pirandelliani aspira a una sorta di nuova innocenza, immune dal tempo (e, in particolare, dall’ingan­nevole tempo dell’infanzia e della memoria), a un isolamento silenzioso nel cerchio del loro essere qui e ora, senza più compiti e senza più mandati; cioè, senza più maschere e senza più destini in cui sublimare la sconfitta. 

Per questo, tra i due simboli che appaiono paralleli (ma che in realtà reciprocamente si contengono), quello della biblioteca e quello del cimitero, sceglieremmo ancora il primo, come simbolo­ chiave per un «introibo»9 al Fu Mattia Pascal; perché è quello di più comples­sa risonanza; ed anche perché la morte che racchiude è quella di tutta la cultura occidenta­le, la stessa morte che ha reso impossibile il romanzo e la tragedia, infinitesimale la storia. Tuttavia, se è vero che in entrambi i luoghi si celebrano funzioni che sono finzioni, cerimo­nie votive per corpi scambiati e per religioni defunte, è anche vero che l’«anima» di Mattia Pascal, racchiusa nel suo romanzo autobiografico, non potrà rinunciare a consegnarsi, per un gioco portato all’iperbole o per estrema scommessa, alla forma­simulacro della biblio­teca, alla sua monumentale inutilità; così come il suo corpo presunto era stato consegnato alla memoria assente del cimitero e alla sua esorcistica recitazione del lutto.10 In analogo modo, cioè in un analogo recinto di falsificazioni, la vita autentica dei Sei personaggi dovrà tentare di irrompere e di affidarsi alla mediazione sorda del vecchio teatro d’autore, prima di arrendersi alla dissipazione di ogni possibile ordine, da quello della memoria individua­le a quello delle memorie collettive, alla sconfitta della verità contro le maschere irrigidite dell’arte e i custodi ufficiali d’ogni mimesi. Proprio per questa capacità di farsi anello primo di una catena di sfide simboliche strettamente tessuta di materiali omogenei, quasi sintomo di un vitalismo ironico e disperato che ne attraversa tutto l’arco, fino a I giganti della montagna, la biblioteca di Monsignor Boccamazza figura tra gli ingressi principali alla storia di Pirandello o meglio alla storia dei suoi libri. Qui, inoltre, non solo si placa il tumulto dell’«anima» rassegnata ormai alla paralisi sociale e ai suoi illusori scenari, ma si costruisce per immagini il primo dei molti saggi sull’arte (e non solo sulla propria arte, ovviamente) che Pirandello disseminò, più o meno avvertibili come tali, in tutta la sua narrativa.


Giancarlo Mazzacurati, Prefazione a Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino 1993

Comprendere il pensiero critico

1 Quale significato assume, nell’opera di Pirandello, la biblioteca?


2 Perché Mazzacurati ritiene che il cimitero sia un “introibo” al Fu Mattia Pascal?

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi