Un’affermazione faticosa
Se il rapporto di Pirandello con il pubblico, in particolare per quanto riguarda la produzione teatrale, è stato sempre sostanzialmente positivo, la critica ufficiale, almeno fino agli anni Venti del Novecento, si dimostra indifferente o persino negativa nei confronti della sua opera. L’autore rimane a lungo imprigionato sotto l’etichetta di scrittore umorista che cede volentieri al bozzetto tragicomico tipico del romanzo d’appendice. Anche quando i primi drammi vengono rappresentati sulla scena, con un dilagante successo di pubblico, la critica resta fredda e parla di «astrattezza» e «cerebralità»; i personaggi vengono assimilati a marionette inquiete che agiscono «senza sentimento e umanità».
Principale responsabile di questa incomprensione, volta a liquidare Pirandello come un cattivo «filosofo» e un «poeta» artificioso, è Benedetto Croce, che stronca il saggio L’umorismo all’indomani della sua pubblicazione. Critici di derivazione crociana (Luigi Russo, Attilio Momigliano, Francesco Flora) mostrano di conseguenza una difficoltà pregiudiziale a comprendere la novità dell’opera pirandelliana.