T13 - La sera del dì di festa

T13

La sera del dì di festa

Canti, 13

Questo idillio, composto a Recanati nella primavera del 1820, affronta, come Il passero solitario ( T11, p. 947), il motivo dell’estraneità del poeta alle gioie della giovinezza e, come L’infinito ( T12, p. 951), il tema della fuga del tempo che porta tutto via con sé.


Metro Endecasillabi sciolti.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna. O donna mia,

5      già tace ogni sentiero, e pei balconi

rara traluce la notturna lampa:

tu dormi, che t’accolse agevol sonno

nelle tue chete stanze; e non ti morde

cura nessuna; e già non sai né pensi

10    quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

appare in vista, a salutar m’affaccio,

e l’antica natura onnipossente,

che mi fece all’affanno. A te la speme

15    nego, mi disse, anche la speme; e d’altro

non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da’ trastulli

prendi riposo; e forse ti rimembra

in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

20    piacquero a te: non io, non già ch’io speri,

al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

quanto a viver mi resti, e qui per terra

mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

in così verde etate! Ahi, per la via

25    odo non lunge il solitario canto

dell’artigian, che riede a tarda notte,

dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

e fieramente mi si stringe il core,

a pensar come tutto al mondo passa,

30    e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

il dì festivo, ed al festivo il giorno

volgar succede, e se ne porta il tempo

ogni umano accidente. Or dov’è il suono

di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

35    de’ nostri avi famosi, e il grande impero

di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

che n’andò per la terra e l’oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

il mondo, e più di lor non si ragiona.

40    Nella mia prima età, quando s’aspetta

bramosamente il dì festivo, or poscia

ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

premea le piume; ed alla tarda notte

un canto che s’udia per li sentieri

45    lontanando morire a poco a poco,

già similmente mi stringeva il core.

 >> pagina 955

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La visione di un notturno dominato dalla luce lunare è improvvisamente interrotta dal pensiero di una figura femminile, invocata con il possessivo mia (v. 4) e dunque implicitamente oggetto d’amore. A lei, che dorme serena, ignara di aver aperto nel cuore del poeta una ferita dolorosa, si contrappone l’io lirico, portato crudelmente dalla natura a provare il desiderio amoroso ma reso, dalla stessa natura, incapace di realizzarlo. Il confronto accentua la drammatica consapevolezza del proprio destino esistenziale: a differenza della donna, che sta sognando gli svaghi e gli incontri con gli altri giovani come lei (vv. 18-20), egli si trova irrimediabilmente escluso dal novero di quei fortunati (non io, non già ch’io speri / al pensier ti ricorro, vv. 20-21), «dove la ripetizione del pronome personale e della negazione, e le pause nel verso, sottolineano il sentimento di esclusione provato dal soggetto» (Bazzocchi). Come nell’Ultimo canto di Saffo ( T10, p. 943), il disinganno amoroso e la convinzione di essere perseguitati dalla natura si trovano dunque sullo stesso piano.

 >> pagina 956

Tuttavia lo sfogo emotivo del poeta passa presto dalla sfera personale e dalla condizione individuale a una riflessione più ampia sul mondo e sulla vita umana in generale. Come nell’Infinito ( T12, p. 951), una percezione sonora (Odo non lunge il solitario canto / dell’artigian…, vv. 25-26), una di quelle che vengono definite «vaghe» nello Zibaldone, acuisce in Leopardi il dolore per lo scorrere del tempo che non lascia traccia.

Il giorno di festa è destinato a finire come tutti gli altri nel grigiore dell’oblio: allo stesso modo perfino le imprese degli antichi e la loro fama vengono cancellate dal silenzio del presente (Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di loro non si ragiona, vv. 38-39).

Registro filosofico e registro soggettivo paiono intrecciarsi fino alla fine in un discorso senza soluzione di continuità. L’esperienza più intima del poeta si inserisce nella riflessione sulla caducità universale delle cose, sull’esito della Storia umana e sull’inevitabile decadere di ogni civiltà. Così non appare incongruo il fatto che, in conclusione dell’idillio, Leopardi torna a illuminare il proprio io, aprendo lo spazio della memoria. Rievocando il passato e la prima età, quando attendeva con l’urgenza dell’infanzia il giorno festivo, egli ricorda il dolore provato di notte dinanzi all’impietoso tramonto delle illusioni e delle speranze. In quel tempo remoto della fanciullezza, un secondo canto, lontano e indistinto (ed alla tarda notte / un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core, vv. 43-46), suggellava ed enfatizzava, con perfetta circolarità, la coscienza dell’illusione e dell’infelicità: la sensazione dell’indefinito, che per Leopardi fa scattare la sensazione del piacere, si rovescia qui nel tragico presagio di un irreparabile destino di sofferenza.

Le scelte stilistiche

La stesura del canto avviene in un’epoca in cui il poeta è ancora convinto della superiorità del mondo antico, nobile ed eroico, su quello presente, caratterizzato dalla noia e dalla viltà. Le virtù del passato appaiono infatti morte ai suoi occhi, come attestano le canzoni civili, composte negli stessi anni della Sera del dì di festa, nelle quali domina il tema morale della decadenza contemporanea.

Alcune spie stilistiche rivelano il rimpianto per la gloria del popolo romano: in primo luogo, compaiono nel lessico del componimento diversi latinismi (cura, v. 9; solenne, v. 17; quella, v. 36, nel senso di “quella grande”, ossia Roma). Nei vv. 33-37, riferiti proprio alla grandezza antica, Leopardi accresce l’intensità retorica con una serie di interrogative, che per contrasto esprimono il senso di vuoto nel quale sono state inghiottite le imprese di un tempo e perfino il loro ricordo. A quelle gesta è subentrato oggi il deserto di un mondo fermo e impassibile, che fa sprofondare nel silenzio il valoroso fragorio dell’età antica.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Fai la parafrasi dell’intero componimento.


2 A partire dal v. 13 la natura viene personificata. Quali caratteristiche assume e in che cosa consiste l’argomentazione del poeta?


3 Quale dei seguenti temi non è presente nella lirica?

  • a L’inappagato desiderio di partecipare della bellezza della natura.
  • b L’esclusione dall’esperienza amorosa.
  • c L’angoscia per il dileguarsi della vita nel nulla.
  • d La gelosia e il risentimento nei confronti della donna.

 >> pagina 957

Analizzare

4 Come descriveresti la struttura sintattica dei primi 5 versi? Quale figura si evidenzia?


5 Quale figura di significato troviamo al v. 10? Che cosa indica?


6 Individua, ai vv. 13-16, alcune assonanze, spiegandone la funzione semantica.


7 Anche questo componimento si basa sulla poetica del vago. Individua i vocaboli che si riferiscono alle aree semantiche dell’oscurità, dell’indeterminatezza e della lontananza e riportali nella tabella.


Aree semantiche

Vocaboli

oscurità

 

indeterminatezza

 

lontananza

 

interpretare

8 All’inizio del componimento quale tipo di descrizione offre il poeta del paesaggio? Rasserenante o angosciante? In quale rapporto si pone tale raffigurazione con quanto l’autore affermerà più avanti (dal v. 13 in poi) a proposito della natura? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti testuali.


9 L’espressione Tu dormi, al v. 11, quali caratteristiche della donna sembra suggerire?

COMPETENZE LINGUISTICHE

10 Individua nel testo i termini la cui grafia è differente rispetto a quella dell’italiano contemporaneo e rifletti sul mutamento intercorso tra le due
diverse forme.

Produrre

11 Scrivere per confrontare. Confronta in un testo espositivo di circa 30 righe La sera del dì di festa con L’infinito ( T12, p. 951), evidenziando eventuali tematiche comuni ma anche le differenze nell’impostazione del discorso poetico. 

T14

Alla luna

Canti, 14

Il testo, probabilmente del 1819 (lo stesso anno dell’Infinito T12, p. 951), è un doloroso monologo del poeta di fronte alla luna, eletta a confidente della propria angoscia.


Metro Endecasillabi sciolti.

 Asset ID: 117140 (let-altvoc-alla-luna-canti40.mp3

Audiolettura

O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l’anno, sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

5      siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

10    o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

15    il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri!

 >> pagina 958 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il motivo principale dell’idillio è il ricordo, che percorre tutto il testo (il cui titolo originario era, non a caso, La ricordanza), come dimostra la ricorrenza di termini a esso connessi: io mi rammento (v. 1), la ricordanza (v. 11), il rimembrar (v. 15). Allo stesso modo che nella Sera del dì di festa ( T13, p. 954), la riflessione prende origine dalla vista di un notturno: in particolare, dalla sommità del colle il poeta si rivolge alla luna con un’apostrofe* (O graziosa luna) collocata all’inizio del primo verso. Egli ricorda di essere stato nello stesso luogo, esattamente un anno prima, nella medesima condizione di disagio esistenziale. Eppure tornare con la mente al passato (nell’età giovanile, quando la speranza è ancora molta, come indicano i vv. 12-14, aggiunti successivamente dal poeta) produce una sensazione di dolcezza, anche se il dolore e lo stato di infelicità non sono cambiati: è come se la memoria avesse un valore lenitivo, suggerendo la presenza illusoria di un altro tempo – diverso e alternativo a quello uniforme della Storia – in cui sopravvivono i momenti della vita, altrimenti destinati a essere dimenticati.

Le scelte stilistiche

Il lessico della poesia è caratterizzato da termini che presentano una chiara componente sentimentale ed emotiva, nella quale assume risalto l’elemento personale, evidenziato dalla frequenza di pronomi personali e aggettivi possessivi quali io (vv. 1 e 3), mi (vv. 7 e 10), mie (v. 7), mia (vv. 9 e 10), mio (v. 12).

Nel verbo “rimirare” (v. 3) c’è l’idea di una dolce consuetudine, quella di recarsi spesso sul colle (il monte Tabor, lo stesso dell’Infinito), di sera, per contemplare la luna, definita con gli attributi affettuosi graziosa (v. 1) e diletta (v. 10), e renderla partecipe del proprio dolore. Come si espresse Francesco De Sanctis, il poeta «entra in colloquio con la luna e, come un amante, le ricorda con precisione dov’era lei, dov’era lui, e come la guardava; e le confida che era triste, con una rassegnazione piena di grazia, sciolta la lacrima in un sorriso tenero: la graziosa luna diventa la sua luna, la sua diletta luna».

 >> pagina 959 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Fai la parafrasi della lirica.

Analizzare

2 Individua tutti i termini che afferiscono alle aree semantiche del dolore e del ricordo. Commenta poi in un breve testo queste scelte lessicali dell’autore in relazione all’argomento di questa poesia.

interpretare

3 A quale scopo il poeta presenta due volte un complemento vocativo (O graziosa luna, v. 1; o mia diletta luna, v. 10)?


4 Come già nell’Infinito (il naufragar, v. 15), anche qui Leopardi ricorre all’infinito sostantivato (il noverar, v. 11; il rimembrar, v. 15). È una scelta espressiva efficace? Perché, a tuo giudizio?

COMPETENZE LINGUISTICHE

5 Il termine noverar è ormai percepito come aulico e desueto: da quale suo derivato è stato sostituito? Hanno lo stesso identico significato? E quale altra espressione di uso comune ha la stessa origine?

Produrre

6 Scrivere per raccontare. Sei d’accordo con la tesi prospettata da Leopardi negli ultimi cinque versi della poesia, secondo cui da giovani, avendo molte speranze e pochi ricordi, la memoria, per quanto dolorosa, è comunque piacevole? Basandoti sulle tue esperienze personali, dirette e indirette, argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

T15

A Silvia

Canti, 21

Composta a Pisa nel 1828, questa canzone inaugura la serie dei cinque componimenti pisano-recanatesi o “grandi idilli”, nei quali dal quadro d’ambiente si passa alla nostalgica rie­vocazione di quelle dolci illusioni poi perdute a contatto con l’«arido vero».


Metro Canzone libera composta da 6 strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.

 Asset ID: 117138 (let-altvoc-a-silvia-canti20.mp3

Audiolettura

Silvia, rimembri ancora

quel tempo della tua vita mortale,

quando beltà splendea

negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

5      e tu, lieta e pensosa, il limitare

di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

stanze, e le vie dintorno,

al tuo perpetuo canto,

10    allor che all’opre femminili intenta

sedevi, assai contenta

di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

così menare il giorno.

15    Io gli studi leggiadri

talor lasciando e le sudate carte,

ove il tempo mio primo

e di me si spendea la miglior parte,

d’in su i veroni del paterno ostello

20    porgea gli orecchi al suon della tua voce,

ed alla man veloce

che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

25    e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!

30    Quale allor ci apparia

la vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato,

35    e tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?


40    Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi;

non ti molceva il core

45    la dolce lode or delle negre chiome,

or degli sguardi innamorati e schivi;

né teco le compagne ai dì festivi

ragionavan d’amore.

Anche peria fra poco

50    la speranza mia dolce: agli anni miei

anche negaro i fati

la giovanezza. Ahi come,

come passata sei,

cara compagna dell’età mia nova,

55    mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi

onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell’umane genti?

60    All’apparir del vero

tu, misera, cadesti: e con la mano

la fredda morte ed una tomba ignuda

mostravi di lontano.

 >> pagina 961

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il poeta rievoca la figura di Silvia, una giovane coetanea di Recanati: egli ripensa a quando lei lavorava al telaio e faceva risuonare del suo canto tutte le case intorno; contemporaneamente egli studiava e faticava sui libri, ed entrambi erano accomunati dal sogno di un dolce avvenire, quando ancora, nella primavera della vita (non a caso siamo nel maggio odoroso, v. 13) è possibile nutrire un’aspettativa di felicità. Il sopraggiungere del vero (v. 60) ha spento però i comuni sogni della giovinezza: per la ragazza è giunta presto la morte, a troncare ogni illusione di felicità; al poeta la natura ha invece consentito di continuare a vivere, ma vedendo cadere a una a una le promesse da lei ricevute (O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?, vv. 36-39), senza conforto e senz’altra certezza che quella della fine incombente.

 >> pagina 962 

Nonostante la costruzione poetica del canto sia condotta intorno alla figura femminile, invocata in apertura come se fosse presente, il suo ruolo, ben oltre ogni riferimento autobiografico, acquista progressivamente un significato universale. Anche gli accenni alla realtà della vita vissuta presenti nelle prime strofe (Sonavan le quiete / stanze, vv. 7-8; Io gli studi leggiadri / talor lasciando, vv. 15-16), che sembrano conferire al componimento l’atmosfera dell’idillio, trascendono in una dimensione allegorica.

Allo stesso tempo, però, la morte prematura di Silvia le conferisce anche un altro valore simbolico: la vicenda esemplare della ragazza simboleggia la separazione dell’uomo moderno dalla vita della natura, non più benigna ma «matrigna», secondo la visione cosmica del pessimismo elaborata da Leopardi. In tal modo, il destino della giovane prematuramente scomparsa riassume quello di tutte le umane genti (v. 59): Silvia diventa una sorta di allegoria della morte stessa, non solo di quella fisica, ma anche di quella delle speranze e delle illusioni.

Le scelte stilistiche

Le sei strofe, di diversa lunghezza, si focalizzano su particolari aspetti o motivi, essendo alternativamente dedicate ora a Silvia ora al poeta stesso, ma con sottili richiami dall’una all’altra, in modo che il discorso lirico fluisca con un efficace sviluppo parallelo.

La prima strofa è interamente occupata da un’apostrofe* a Silvia, che il poeta invita a ricordare il tempo felice della giovinezza. Con pochi aggettivi, distribuiti in due coppie, la seconda delle quali costituisce un ossimoro* (ridenti e fuggitivi, v. 4; lieta e pensosa, v. 5), Leopardi offre un ritratto psicologico concentrato di una fanciulla che si affaccia alla vita con gioia e insieme con trepidazione. L’idealizzazione delle speranze giovanili avviene mediante l’uso del lessico tipico della tradizione lirica, specialmente petrarchesca (rimembri, v. 1; beltà, v. 3; mentre gli occhi ridenti, v. 4, richiamano un’immagine tipica dello Stilnovo) e una accentuata musicalità, ottenuta dalle allitterazioni* in v e s (Silvia, vita, splendea, fuggitivi, pensosa, salivi), oltre che dal gioco anagrammatico tra Silvia e salivi (v. 1 e v. 6).
Nella seconda e nella terza strofa il poeta rievoca il contesto quotidiano della vita di Silvia e della propria. Il filtro della memoria suggerisce la messa in pratica della poetica del vago e dell’indefinito grazie ad aggettivi o espressioni quali perpetuo, vago, odoroso, da lungi ecc., tramite cui viene espressa la piacevole sensazione di una realtà trasfigurata. Le promesse della giovinezza affiorano grazie alle immagini di un repertorio solare, quasi idillico: oltre al maggio odoroso (v. 13), abbiamo il ciel sereno, / le vie dorate e gli orti (vv. 23-24).
Nella quarta strofa le speranze coltivate dai due ragazzi si capovolgono in una realtà di sventura: si manifesta così l’inganno perpetrato dalla natura, oggetto di una dura apostrofe (vv. 36-39), in cui il ritmo, in una poesia dalla sintassi piana e dal periodare ampio e musicale, diventa più incalzante, quasi a rendere l’angoscia dell’autore. Il mutamento dei tempi verbali, che abbandonano l’imperfetto iniziale, suggella la verità del presente, spietatamente incaricato di rivelare le illusorie mistificazioni del passato.
Le strofe finali istituiscono apertamente il parallelismo* tra la vicenda di Silvia e quella dell’io lirico, già precipitata o destinata a precipitare verso la morte. Lo svanire nel nulla è introdotto dalla sequenza delle negazioni non (v. 42), non (v. 44), (v. 47); il passato remoto cadesti (v. 61) accomuna Silvia e la speranza, la cara compagna (v. 54) lacrimata (v. 55) come una presenza fisica reale. La gelida presenza della tomba ignuda (v. 62) conferma in conclusione l’unico fine della vita, anzi di tutte le vite.

 >> pagina 963 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Fai la parafrasi del componimento.


2 Traccia un breve ritratto di Silvia, soffermandoti sul suo aspetto fisico (per quanto esso si possa desumere dal testo), sulle caratteristiche psicologiche e sugli altri aspetti ricavabili dal componimento.

Analizzare

3 Ai versi 15-16 (studi leggiadri sudate carte) e 21-22 (man veloce faticosa tela) troviamo ripetuta la stessa figura retorica. Quale?


4 Ai versi 20-21 il poeta scrive: porgea gli orecchi alla man veloce. Si può “ascoltare una mano”? Di quale figura si tratta?

interpretare

Ripercorrendo i punti del testo dove il poeta si sofferma sulle stagioni, sulla natura, sul paesaggio, spiega in che modo tale rappresentazione si lega ai temi del componimento.


6 A quali caratteristiche di Silvia allude secondo te il vocativo del v. 42 (o tenerella)?

Produrre

7 Scrivere per raccontare. Ripercorrendo con il pensiero la tua esperienza, hai conosciuto solo brevemente una persona che poi non hai più visto, la cui immagine si è però fissata nella tua mente? A distanza di tempo in che modo e per quali ragioni il suo ricordo riaffiora ancora oggi? 

Dibattito in classe

8 La giovinezza di Silvia termina improvvisamente all’apparir del vero (r. 60): quali eventi, oggi, possono essere considerati conclusivi del “fior degli anni”, cioè indicativi di una nuova condizione esistenziale, quella della maturità? Discutine con i tuoi compagni.

T16

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Canti, 23

Scritto tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, è l’ultimo canto pisano-recanatese a essere composto (benché sia collocato nei Canti prima della Quiete dopo la tempesta e del Sabato del villaggio, scritti in precedenza) e approfondisce la meditazione leopardiana sull’essenza della vita umana, facendo parlare in prima persona il personaggio fittizio di un pastore nomade.


Metro Canzone libera di 6 strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

5      Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

10    la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore;

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

15    altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

20    il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

25    per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l’ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

30    cade, risorge, e più e più s’affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch’arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu volto:

35    abisso orrido, immenso,

ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,

40    ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato.

45    Poi che crescendo viene,

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core,

e consolarlo dell’umano stato:

50    altro ufficio più grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

55    Se la vita è sventura

perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

60    e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sì pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

65    che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

70    il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera,

75    a chi giovi l’ardore, e che procacci

il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

80    star così muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

85    dico fra me pensando:

a che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?

90    Così meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

95    girando senza posa,

per tornar sempre là donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

100 Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male.

105 O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d’affanno

quasi libera vai;

110 ch’ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor subito scordi;

ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ queta e contenta;

115 e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

e un fastidio m’ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

120 sì che, sedendo, più che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

125 non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

dimmi: perché giacendo

130 a bell’agio, ozioso,

s’appaga ogni animale;

me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi,

135 e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo,

più felice sarei, dolce mia greggia,

più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

140 mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale.

 >> pagina 968 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Nello Zibaldone Leopardi narra di aver letto nel settembre del 1826 sulla rivista scientifica francese “Journal des Savants” il resoconto di un viaggiatore russo nelle steppe dell’Asia centrale, nel quale si raccontava che i pastori kirghisi abitanti in quelle regioni «trascorrono la notte seduti su un sasso a contemplare la luna, e a improvvisare parole molto tristi su arie che non lo sono meno». Da qui deriva con ogni probabilità lo spunto per il componimento, che segna il passaggio dai canti incentrati sul ricordo (come A Silvia) a quelli che si svolgono direttamente attorno a un nucleo di meditazione filosofica, affrontando il tema di un’infelicità esistenziale vista ormai come legge universale.

La tragedia di questa condizione si abbatte così a prescindere dalle sovrastrutture della civiltà e della cultura, essendo incombente sul destino di tutti gli uomini. Per questo il poeta sceglie di affidare il proprio pensiero a un pastore, cioè a un alter ego immerso in un tempo indefinibile, in uno spazio desertico e sterminato, figura estranea ai meccanismi del progresso, testimone di un dolore eterno, cosmico e senza eccezioni, connaturato all’esistenza in quanto tale: anche l’illusione di un armonico e primitivo stato di natura lontano dalla corruzione dei tempi moderni si rivela ormai come un’irrealizzabile utopia.


1 Individua nel testo i riferimenti alla vita nomade del pastore.


2 Quale finale desiderio di felicità viene espresso dal pastore?

Dando la propria voce a un pastore nomade dell’Asia, il poeta rivolge alla luna ansiose domande sul senso della vita umana e sul mistero dell’universo, interrogativi che gli individui si pongono da sempre. L’interrogazione presenta da subito una contraddizione rivelatrice: il dimmi del v. 1, replicato nei vv. 16 e 18, si scontra infatti con il primo attributo conferito alla luna, silenziosa (v. 2); ciò tuttavia non induce al silenzio il pastore, che presuppone nella reticente interlocutrice un sapere a lui ignoto; anzi, tale convinzione si accentua nel corso del canto, in un climax che parte in forma dubitativa per poi giungere a una assoluta certezza: tu forse intendi, v. 62; E tu certo comprendi, v. 69; Tu sai, tu certo, v. 73; Mille cose sai tu, mille discopri, v. 77; Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto, vv. 98-99.

Successivamente (vv. 105-132) il pastore si rivolge con la stessa supplica (dimmi, v. 129) al gregge, che ritiene più felice dell’uomo, poiché inconsapevole e dunque libero dal tedio che opprime gli esseri umani raziocinanti quando vengono meno le sensazioni, tanto piacevoli quanto dolorose, e l’animo si ritrova come svuotato dinanzi alla vanità e all’insignificanza dell’esistenza. Infine, nell’ultima strofa, egli immagina una felicità che potrebbe essere possibile se solo la sua condizione fosse diversa (come, per esempio, quella di un astro o di un tuono, che spaziano nel cielo). Ma subito dopo la constatazione della realtà lo porta a concludere che, con ogni probabilità, la vita è funesta per ogni essere, sia esso un individuo o un animale.


3 Quali sono le domande esistenziali che il pastore rivolge alla luna?


4 Quali sono le somiglianze e le differenze che il pastore individua tra la sua vita e quella della luna?


5 Qual è l’atteggiamento del pastore verso la sua greggia?

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Le scelte stilistiche

La pretesa del pastore di comunicare con la luna, interpellandola sui grandi quesiti che turbano il suo animo, si rivela ingenua, in quanto irrealizzabile. Quello che, nella sua innocenza, vorrebbe essere un dialogo non è che un monologo, uno sconsolato interrogarsi su sé stesso, situazione di cui peraltro lo stesso pastore sembra a un certo punto prendere coscienza (dico fra me pensando, v. 85; Così meco ragiono, v. 90). Tuttavia il suo canto rimane semplice, quasi monotono sia nel linguaggio sia nella sintassi: per suscitare la reazione della luna, la sollecita in modo infantile ripetendo le domande nel vano tentativo di comprendere (si notino le anafore di Che fai?, due volte al v. 1, e dimmi, ai vv. 1, 16 e 18) e omaggiandola con epiteti diversi (Vergine, v. 37; Intatta, v. 57; solinga, eterna peregrina, v. 61; giovinetta immortal, v. 99). A dispetto della drammaticità dei contenuti, anche la rima in -ale che chiude ogni strofa conferisce al testo l’inflessione di una cantilena.


6 È possibile affermare che la luna abbia alcune caratteristiche tipiche di una divinità? Quali e perché?


7 Scegli una strofa e individua rime, assonanze, enjambement. Rifletti sul ritmo complessivo del componimento.

Per esprimere il carattere assoluto della sofferenza esistenziale, Leopardi insiste in tutto il componimento sulla rappresentazione del cammino come metafora di un disperato tentativo di sfuggire alla natura. Al pastore errante (nell’aggettivo si fondono l’idea del suo nomadismo e l’errore del suo pensiero: O forse erra dal vero, v. 139) si aggiunge l’immagine allegorica del vecchierel bianco (v. 21), destinato a chiudere il proprio faticoso e frenetico viaggio nell’abisso orrido (v. 35) del nulla. Né d’altra parte un movimento fittizio, creato dall’immaginazione, è in grado di produrre un esito diverso da quello reale: se anche il pastore, e con lui tutta l’umanità, potesse volare come un uccello sulle nubi o dilagare come un tuono da una cima all’altra dei monti, non potrebbe comunque sottrarsi alla condanna decretata dalla natura e fissata dal poeta con un’ultima, lapidaria e inequivocabile sentenza: È funesto a chi nasce il dì natale (v. 143).


8 Individua nel testo i punti in cui vi sono riferimenti al viaggio della luna e a quello del pastore.


9 Spiega il significato della similitudine che si instaura nella seconda strofa: in particolare, che cos’è l’abisso orrido, immenso (v. 35)?


10 Scrivere per confrontare. Il motivo del viaggio collega questo canto al Dialogo della Natura e di un Islandese ( T7, p. 914). Confronta il passo delle Operette morali con questo canto in un testo argomentativo di circa 20 righe.


11 Scrivere per raccontare. Leopardi esprime il tedio e il profondo disagio interiore che esso determina. Hai mai provato direttamente questa sensazione oppure conosci qualcuno che ne soffre e te ne ha parlato? Anche se non hai sperimentato direttamente tale stato d’animo, quale ritieni possa essere un modo per liberarsi dalla cappa di malessere che esso provoca? Motiva la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

Il tesoro della letteratura - volume 2
Il tesoro della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento