T2 - Stranieri residenti

T2

Stranieri residenti

Donatella Di Cesare, Stranieri residenti, Bollati Boringheri, Torino 2018

Nel paesaggio politico contemporaneo, in cui domina ancora lo Stato-nazione, il migrante è il malvenuto, accusato di essere fuori luogo, di occupare il posto altrui. Eppure non esiste alcun diritto sul territorio che possa giustificare la politica sovranista del respingimento.

Se il migrante smaschera lo Stato

Al suo arrivo il migrante ha di fronte a sé lo Stato che si erge in tutta la sua supremazia. Sono questi i due attori principali, i due protagonisti. I diritti del migrante, a cominciare dalla sua libertà di muoversi, urtano contro la sovranità statuale che si esercita sulla nazione e sul dominio territoriale. È il conflitto tra i diritti umani universali e la spartizione del mondo in Stati-nazione.

Agli occhi dello Stato il migrante costituisce un’anomalia intollerabile, un’anomia [carenza del sistema normativo] nello spazio interno e in quello internazionale, una sfida alla sua sovranità. Non è solo un intruso, né solo un fuorilegge, un illegale. Con la sua stessa esistenza infrange il principio cardine intorno a cui lo Stato si è edificato, mina quel nesso precario tra nazione, suolo e monopolio del potere statuale, che è alla base dell’ordine mondiale. Il migrante accenna alla possibilità di un mondo altrimenti concertato, rappresenta la deterritorializzazione, la fluidità del passaggio, l’attraversamento autonomo, l’ibridazione dell’identità.

Pur di riaffermare il proprio potere sovrano, lo Stato lo ferma alla frontiera, luogo eminente del fronteggiarsi e dello scontro. Può ammetterlo nello spazio che governa, dopo i previsti controlli, oppure respingerlo. A tal fine è disposto a violare palesemente i diritti umani. La frontiera diventa, così, non solo lo scoglio contro cui naufragano tante vite, ma anche l’ostacolo eretto contro ogni diritto di migrare.

Questa contraddizione è tanto più stridente nel caso delle democrazie che, se da un canto sono sorte storicamente proclamando i Diritti dell’uomo e del cittadino, dall’altro fondano la propria sovranità su tre principi: l’idea che il popolo si autodetermini, sia artefice e destinatario delle leggi; il criterio di una omogeneità nazionale; il postulato dell’appartenenza territoriale. Sono in particolare i due ultimi principi a osteggiare la mobilità.

Le migrazioni portano dunque alla luce un dilemma costitutivo che incrina al fondo le democrazie liberali. Il dilemma filosofico sfocia in una tensione politica aperta tra la sovranità statuale e l’adesione ai diritti umani. Nei lacci di questo doppio vincolo si dibatte la democrazia radicata nei confini dello Stato-nazione. L’inconciliabilità tra diritti umani e sovranità statuale affiora paradossalmente anche nelle convenzioni universali e nei documenti giuridici internazionali. Di qui, purtroppo, la loro impotenza.

La migrazione, nelle forme e nei modi in cui si manifesta nel nuovo millennio, è fenomeno della modernità. Perché è strettamente legata allo Stato moderno. Nell’intento di vigilare le proprie frontiere, custodire il territorio, controllare la popolazione, sono gli Stati-nazione a discriminare, a segnare la barriera tra i cittadini e gli stranieri. Questo non vuol dire che imperi, monarchie, repubbliche del passato non difendessero i propri confini, ben più blandi e incerti, tuttavia, di quelli giuridicamente stabiliti e militarmente sorvegliati dallo Stato moderno.

Va quindi al di là dei protagonisti lo scontro tra il migrante e lo Stato. Si intuisce allora perché riflettere sulla migrazione significa anche ripensare lo Stato. Senza quella discriminazione, operata a priori, lo Stato non esisterebbe. Le frontiere assumono un valore quasi sacrale, rinviano a un’origine semimitica, perché sono l’esito e la prova di quel suo compito diacritico, di quella sua missione delimitante. È grazie a questo definire e discriminare che la compagine statuale può costituirsi, può restare ferma e salda, può anzi “stare”, essere Stato. L’esatto opposto della mobilità. Quanto più questo compito è imperativo, come nello Stato-nazione, tanto più tenace si rivela l’aspirazione all’omogeneità e all’integrità. Per i figli della nazione, che fin dalla nascita ne hanno condiviso l’ottica interna, lo Stato ha un’immediatezza ovvia, è un dato eterno, esibisce un’indiscutibile naturalità.

Il migrante smaschera lo Stato. Dal margine esterno ne interroga il fondamento, punta l’indice contro la discriminazione, rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. E perciò spinge a ripensarlo. In tal senso la migrazione porta con sé una carica sovversiva. [...]

L’ordine statocentrico

[...] Questo ordine statocentrico è assunto come norma. Tutto quel che accade viene considerato e giudicato entro i confini di una prospettiva statuale. Dall’interno dello Stato, e della sua stanzialità territoriale, viene vista anche la migrazione, ritenuta perciò un fenomeno contingente e marginale. Se lo Stato è il fulcro essenziale dell’assetto politico, la migrazione è l’accidente.

Questo ordine mondiale ha cominciato a essere profondamente scosso dalla recente migrazione epocale. L’ottica statocentrica resta tuttavia salda e dominante. Ecco perché, quando nel dibattito pubblico si discutono i temi della “crisi migratoria”, tacitamente si assume sempre il punto di vista di chi appartiene a uno Stato e, da quella posizione interna, trincerato dietro barriere e confini, guarda all’esterno. Non per caso gli interrogativi ruotano solo intorno ai modi di governare e regolare i “flussi”. Le differenze sono tutt’al più tra chi negli immigrati vede un’utile chance, un’opportunità, e chi ne denuncia il pericolo. L’ottica statocentrica è sempre anche normativa. Ai cittadini, appartenenti allo Stato, viene riconosciuta a priori la libertà di decidere, la prerogativa di accogliere o escludere lo straniero che bussa alla loro porta.

Il potere sovrano di dire “no” appare indubbio e incontrastato. Gli Stati rivendicano la facoltà di stabilire chi può entrare nei loro confini e chi invece va fermato alla frontiera. In un ordine globale statocentrico, minacciato dalla migrazione, il diritto all’esclusione diventa così la controprova e il segno della sovranità statuale. Perché ne attesta e ne misura la potenza. Gli Stati-nazione avanzano la pretesa di disporre dei propri confini territoriali e politici anche ricorrendo alla forza. Chi li oltrepassa corre il rischio di essere internato, in attesa di venire espulso. Qualora fosse ammesso, spetterebbe di nuovo all’autorità statale decidere se riconoscerlo come nuovo membro della comunità oppure respingerlo.

Il diritto internazionale, con le sue norme, non fa che suffragare e convalidare la pretesa degli Stati. È possibile espatriare, uscire dal territorio nazionale, così come è possibile muoversi al suo interno. Non è invece possibile trasferirsi liberamente da uno Stato all’altro, accedere dunque all’interno di uno Stato o addirittura stabilirsi in permanenza. Il principio di non-refoulement è l’eccezione che conferma la regola: stabilisce che chi chiede asilo non possa essere respinto in quei paesi dove “la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Si tratta, però, di un principio molto limitato, che per di più si applica solo a chi già si trova sul territorio del paese che dovrebbe offrire asilo oppure sotto il suo controllo.

La politica dei confini è dominio riservato agli Stati sovrani. Gelosi dei propri poteri, determinati a non cedere, forti della legislazione internazionale, rivendicano il diritto di precludere l’ingresso sul territorio nazionale. Ma questo diritto, se è legale, può dirsi anche legittimo? Possono gli Stati impedire o limitare l’immigrazione?

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comprensione del testo

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Esplicita, contestualizzando la tesi espressa dall’autrice, l’espressione “ordine statocentrico”? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


b. In che senso l’autrice parla di un’inconciliabilità tra diritti umani e sovranità statuale? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


c. Qual è il ruolo del diritto internazionale nella gestione del fenomeno migratorio? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



d. In che senso l’autrice afferma che «la migrazione porta con sé una carica sovversiva»? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Analisi e riassunto

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


 

Stranieri residenti

Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

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COMMENTO

Confronta le due tesi esposte dall’autrice sul concetto di confine e cerca di far emergere i principali punti di divergenza. Quale delle due descrive nel migliore dei modi, a tuo avviso, la complessità della questione migratoria? Rispondi alla domanda cercando di motivare la tua posizione.

T3

Uno Stato, un popolo: l’eredità avvelenata del 1914-18

Robert Gerwarth, Limes, L’eredità dei grandi imperi, traduzione di Monica Lumachi, 2014

Le cause remote delle recenti crisi europee risalgono agli esiti della Grande guerra: i particolarismi liberati dal crollo degli imperi multinazionali, alimentati dalla paura del bolscevismo e legittimati dal wilsonismo.

Non esiste in Europa un consenso generale sugli avvenimenti del 1914-18 e sul loro peso nella storia del Novecento. Il fatto che ancora oggi quella guerra rivesta un significato molto diverso nella memoria collettiva delle nazioni coinvolte dipende da vari fattori. Nel 1918 ci furono vinti e vincitori, ma mentre per alcuni paesi la Prima guerra mondiale rappresenta un elemento centrale della coscienza nazionale, in altri al contrario si colloca in secondo piano rispetto agli avvenimenti che seguirono.

Soltanto in un punto sembra esistere un consenso globale: lo scoppio della guerra nell’agosto del 1914 rappresentò una svolta epocale, che mutò radicalmente lo scenario politico, economico e sociale. Eric Hobsbawm, il celebre storico inglese da poco scomparso, che era nato in Egitto nel 1917 da padre inglese di origini polacche e madre viennese e che da adolescente aveva assistito a Berlino all’ascesa di Hitler, ha descritto il XX secolo come un’«epoca degli estremi» cominciata nel 1914 con l’attentato all’arciduca Ferdinando. Secondo Hobsbawm, gli avvenimenti dell’estate 1914 aprirono una delle epoche più nere della storia: «Un secolo che ci ha mostrato una volta per tutte il potere della barbarie umana: l’incapacità, l’inadeguatezza, la smisurata tendenza ad autoilludersi da parte dei nostri capi e la stupidità, l’ignoranza, la cecità dei loro popoli».

La lettura in chiave fortemente autobiografica della storia del XX secolo condotta da Hobsbawm è segnata dalla conoscenza degli avvenimenti che seguirono alla Prima guerra mondiale; tuttavia, già ai contemporanei era chiaro il significato epocale rappresentato dallo scoppio della guerra. Ben prima del fatidico 11 novembre 1918, giorno in cui in Europa occidentale tacquero i cannoni, si era cominciato a parlare del conflitto in corso come di una cesura che marcava l’addio all’epoca borghese, nonché a una fase pacifica e relativamente stabile dell’ordine europeo intercorsa tra il 1871 e il 1914. Già all’indomani dei primi scontri alcune delle menti più lucide, quali il ministro degli Esteri britannico Edward Grey, profetizzavano l’avvento di un’inaudita catastrofe: «Sull’intera Europa si spengono le luci; nessuno di noi, nel corso della propria esistenza, potrà più vederle accendersi di nuovo».

La realtà del conflitto, con il suo immenso dispiego di uomini, mezzi e materiali e il conseguente smisurato numero di vittime, sarebbe andata ben oltre la pur pessimistica prognosi di Grey: nei quattro anni a seguire avrebbero perso la vita oltre 17 milioni di persone; altri 20 milioni di soldati sarebbero rimasti feriti, spesso invalidi a vita.

Altrettanto vale per le cifre relative ai profughi e ai deportati, alle vittime della fame e delle epidemie. Anche in rapporto alle conseguenze di lungo termine la Prima guerra mondiale segnò una svolta nella storia dell’Europa moderna: sia la rivoluzione d’Ottobre e l’ascesa al potere di Lenin che le parabole di Mussolini e di Hitler non si possono infatti spiegare senza considerare le reazioni sociali, politiche e culturali provocate dalla guerra. Pur essendo occorsa una Seconda guerra mondiale per vedere nella prima «la madre di tutte le tragedie del XX secolo», come l’ha definita il diplomatico americano George Kennan, a quanti vissero il periodo interbellico era già chiaro che con l’anno 1914 il mondo era radicalmente cambiato.

La particolarità della tragedia della Prima guerra mondiale, che vide progressivamente coinvolte in maniera diretta o indiretta una quarantina di nazioni e in cui furono mobilitati circa 60 milioni di giovani soldati, non deriva solo dai dati statistici, ma anche dalle modalità di conduzione della guerra, che fin da subito infranse i princìpi della Convenzione dell’Aia: il mancato rispetto della neutralità belga (che provocò l’entrata in guerra della Gran Bretagna), il trattamento dei prigionieri, l’impiego di gas venefici e il blocco navale alleato contro i civili tedeschi in risposta alla guerra sottomarina scatenata dalla Germania furono tutti segnali della deflagrazione di una «guerra totale» che coinvolgeva non più solo i soldati, ma l’intera popolazione dei paesi belligeranti e che dunque anticipava molti dei tratti che avrebbero caratterizzato l’ancor più sanguinosa Seconda guerra.

Tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare quest’ultima come necessaria conseguenza della prima. La fortunata quanto semplicistica tesi della “brutalizzazione” – formulata all’inizio degli anni Novanta da George Mosse e ripresa in abbondanza – secondo cui a seguito della violenza esperita nel corso della guerra la società tedesca avrebbe vissuto un processo di imbarbarimento che avrebbe aperto la strada a Hitler e all’Olocausto, è ormai oggetto di critica storiografica in ragione della sua genericità. Se è vero che le stragi e i massacri vissuti al fronte ebbero un effetto psicologico devastante su coloro che vi avevano combattuto, non è possibile trarre da ciò alcuna teoria che spieghi come mai in alcune tra le nazioni coinvolte nella guerra la cultura politica si “brutalizzò”, mentre in altre questo non avvenne. L’esperienza vissuta al fronte dai soldati francesi o britannici non era stata molto diversa da quella dei tedeschi o degli italiani; eppure né in Gran Bretagna né in Francia si ebbe l’ascesa di un partito fascista. Per molti dei futuri fascisti non fu tanto la Prima guerra mondiale a determinare la “brutalizzazione”, quanto piuttosto l’esperienza della sconfitta del 1918 (o la “vittoria mutilata”, nel caso dell’Italia), unita alla minaccia di un’ipotetica rivoluzione mondiale, che dopo il successo di Lenin in Russia appariva reale. Per molti giovani dell’epoca il «secolo degli estremi» di Hobsbawm non cominciò tanto con lo scoppio della guerra, quanto con i problemi che si aprirono al termine di essa e che rimasero irrisolti.

1. Nella prospettiva di molti europei, la presa del potere da parte di una determinata minoranza rivoluzionaria in Russia nell’inverno 1917-18 e il suo rapido consolidamento rappresentarono un elemento determinante. La rivoluzione d’Ottobre (resa possibile proprio dal conflitto mondiale) e la drammatica guerra civile che ne seguì e che costò la vita a oltre tre milioni di persone, ebbero effetti immediati sul resto d’Europa.

Rapidamente si diffuse il timore che con i suoi appelli a una rivoluzione mondiale e alla solidarietà internazionale del proletariato, il primo Stato comunista al mondo potesse riuscire a mobilitare contro i rispettivi governi le masse di soldati ormai stanchi di combattere. In una situazione non molto diversa da quella che aveva caratterizzato l’ultimo scorcio del XVIII secolo – quando le élite europee, terrorizzate dalla Rivoluzione francese, temevano una rapida diffusione del giacobinismo – dopo il 1917 molti in Europa erano preoccupati per la possibilità che il bolscevismo “infettasse” presto tutto il continente.


2. Oltre al pericolo di una rivoluzione mondiale, con la fine della guerra nella percezione dei contemporanei sorsero altri gravi problemi, che in genere vengono messi in relazione alle condizioni stabilite dai trattati di Versailles. All’epoca molti osservatori ebbero l’impressione che gli esiti della Conferenza di pace, cui a differenza di quanto avvenuto al Congresso di Vienna del 1814-15 non era stato invitato alcun rappresentante delle nazioni sconfitte, equivalessero a un vero e proprio diktat dei vincitori e come tali facessero presagire una nuova guerra. Rimostranze di questo tipo non giunsero soltanto da Berlino, Vienna e Istanbul, ma anche dall’interno della stessa Francia e Gran Bretagna. Il francese Anatole France, premio Nobel per la letteratura, scriveva: «La più terribile tra le guerre mai esistite ha prodotto un trattato di pace che non è affatto un trattato per la pace, ma per la prosecuzione della guerra». E l’economista inglese John Maynard Keynes, che aveva preso parte di persona alla conferenza, nel suo Le conseguenze economiche della pace (pubblicato nel 1920) definiva i trattati una «pace cartaginese», la quale con le sue infinite richieste di riparazioni avrebbe ridotto in schiavitù la Germania, provocato la rovina economica dell’Europa e, dunque, precipitato nuovi conflitti armati.

Le critiche di Keynes erano troppo drastiche, oltre che incentrate esclusivamente sulla questione delle riparazioni di guerra. In realtà, il nocciolo del problema dei trattati di pace del 1919 – quello che nei decenni successivi avrebbe alimentato le tensioni politiche – era piuttosto la novità assoluta del nuovo ordine territoriale europeo, nato dallo smembramento di grandi imperi multietnici. Con la fine della Prima guerra mondiale e la vittoria degli alleati nell’autunno del 1918 sparivano infatti dalla carta d’Europa tre imperi di tradizione secolare: ottomano, asburgico e russo. Un quarto impero, quello degli Hohenzollern, perse tutti i suoi domini d’Oltremare e fu trasformato quasi da un giorno all’altro in una democrazia parlamentare. Lo smembramento di vaste compagini imperiali di tradizione secolare in Europa centrale, meridionale e orientale e la costituzione di piccoli Stati dai marcati tratti nazionalistici che nel giro di quattordici anni, ad eccezione della Cecoslovacchia, sarebbero stati governati da regimi totalitari, recavano con sé un alto potenziale di conflitto. Ciò aveva a che fare non da ultimo con la composizione etnica delle nuove nazioni, che pur essendo non meno multietniche degli imperi dai quali traevano origine, aspiravano all’omogeneità.

La promessa del presidente americano Woodrow Wilson di ridisegnare la carta dell’Europa in accordo con il diritto all’autodeterminazione dei popoli era nata dallo spirito degli ideali liberali. Ma di fronte alla molteplicità che caratterizzava l’Europa centrale e orientale la logica del nazionalismo etnico, per la quale solo una nazione omogenea è una nazione sana, sarebbe sfociata in nuove tragedie.

Già nelle due guerre balcaniche del 1912 e del 1913 si era visto come una politica basata sulla divisione etnica – che in questo caso significò la sanguinosa cacciata di migliaia di musulmani dall’Europa meridionale – potesse realizzarsi soltanto con la violenza. Il fatto che poi, durante la Prima guerra mondiale, molti di questi profughi musulmani avrebbero preso parte al genocidio armeno ha a che fare con la logica propria dei cicli di violenza etnica del XX secolo.

3. La terza conseguenza fondamentale di lunga durata della Prima guerra mondiale viene spesso trascurata da molti storici, a causa di una lettura squisitamente concentrata sull’Europa: il conflitto avrebbe infatti avviato un lungo e complicato processo mondiale di decolonizzazione. Non solo gli sconfitti, ma anche gli Stati dell’Europa occidentale usciti vittoriosi subirono le conseguenze degli sconvolgimenti provocati da una guerra che aveva infiammato i sentimenti nazionalistici ed era stata condotta in nome dei diritti delle piccole nazioni. Così, dopo una sanguinosa guerriglia contro le unità regolari e irregolari dell’esercito britannico, l’Irlanda raggiunse l’indipendenza, mentre Londra era contemporaneamente impegnata nella repressione di rivolte anticoloniali in Egitto, Afghanistan, Birmania e India. L’uccisione di centinaia di manifestanti disarmati che nella città di Amritsar, nel Punjab, non avevano rispettato il coprifuoco provocò un’ondata di sdegno internazionale e divenne un punto di riferimento centrale per il partito del Congresso indiano, che dall’originaria richiesta di maggiore autonomia nell’impero passò a sostenere la causa dell’indipendenza. A questo si aggiunsero le tensioni diffuse nei nuovi mandati della Società delle Nazioni.

In Palestina, la promessa di uno Stato indipendente fatta dalla Gran Bretagna sia ai coloni ebrei sia ai rivoltosi arabi gettò i semi di problemi ad oggi irrisolti.

Anche la Francia si trovò a difendere su più fronti la propria egemonia imperiale: in

Indocina, nell’Ecuador francese e in Siria nel corso degli anni Venti scoppiarono massicce rivolte, a fatica sedate, contro il dominio coloniale. Le aspirazioni indipendentiste dei nascenti movimenti anticoloniali ricevettero nuovo impulso dal discorso di Wilson sul diritto all’autodeterminazione dei popoli. Le idee wilsoniane infiammarono il giovane Ho Chi Minh, che all’epoca faceva il lavapiatti a Parigi e che il 18 giugno del 1918 pubblicò una petizione in cui si chiedeva di realizzare anche in Indocina il principio dell’autodeterminazione.

Dall’Irlanda all’India, dunque, l’assetto imperiale venne visto progressivamente come una prevaricazione, mentre il modello nazionale assurgeva a unica forma legittima di organizzazione della convivenza statale. Se è vero che sarebbero occorsi altri decenni e una nuova guerra mondiale per avviare e concludere il processo di dissoluzione degli imperi coloniali, la Prima guerra mondiale e il discorso aperto da Wilson sull’autodeterminazione nazionale rappresentano un vero e proprio spartiacque.


Alla base delle guerre di decolonizzazione, della seconda guerra mondiale e dei conflitti nazionalistici che ancora oggi covano in Europa orientale o nel Vicino Oriente vi è dunque non solo e non tanto la guerra in sé, bensì l’insieme di problemi da questa aperti e rimasti irrisolti: la disgregazione di vasti imperi di tradizione secolare nell’Europa centrale, orientale e meridionale e la costituzione di piccole compagini statuali caratterizzate da un violento nazionalismo, ma al contempo per nulla omogenee dal punto di vista etnico; la promessa, troppo spesso mancata, di realizzare il diritto all’autodeterminazione nazionale e la connessa questione dell’irredentismo; il tutto combinato all’ascesa del bolscevismo e all’ombra lunga della rivoluzione d’Ottobre.

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comprensione del testo

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Quali sono le conseguenze di lunga durata della Prima guerra mondiale? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


b. In che senso lo scoppio della guerra nell’agosto del 1914 rappresentò una svolta epocale? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


c. Commenta la seguente citazione del premio Nobel France: «La più terribile tra le guerre mai esistite ha prodotto un trattato di pace che non è affatto un trattato per la pace, ma per la prosecuzione della guerra». (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 


d. Quale connessione viene stabilita tra la Prima guerra mondiale e la decolonizzazione? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Analisi e riassunto

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


 

Uno Stato, un popolo: l’eredità avvelenata del 1914-18

Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

COMMENTO

Nel testo compare la seguente affermazione: «Alla base delle guerre di decolonizzazione, della Seconda guerra mondiale e dei conflitti nazionalistici che ancora oggi covano in Europa orientale o nel Vicino Oriente vi è dunque non solo e non tanto la guerra in sé, bensì l’insieme di problemi da questa aperti e rimasti irrisolti». Quali conflitti nazionalistici permangono ancora in Europa e nel Vicino Oriente? Sei d’accordo con la tesi che le questioni irrisolte della Prima guerra mondiale, in particolare l’autodeterminazione nazionale e l’irredentismo, continuino a essere all’ordine del giorno nelle rivendicazioni nazionalistiche del nostro tempo?

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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