16.1 I “rampanti” anni Ottanta

Per riprendere il filo…

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la società italiana era stata trasformata da uno sviluppo che aveva diffuso un benessere senza precedenti, aveva alimentato ampi movimenti migratori e aveva segnato la fine della civiltà rurale e contadina. Si susseguirono diversi cicli politici (dal centrismo, passando per la stagione del centrosinistra e poi per quella della solidarietà nazionale) che rappresentarono un tentativo di risposta ai cambiamenti sociali, politici ed economici che coinvolsero tutto l’Occidente e che avevano contribuito ad animare prima la contestazione studentesca e operaia del 1968-69 e poi il terrorismo “rosso” negli anni Settanta. Pur nel quadro della strategia della tensione, che tentò di destabilizzare le istituzioni democratiche attraverso il terrorismo “nero”, l’Italia repubblicana riuscì a creare le condizioni per un ampio benessere, seppure minato dalla crescita del debito pubblico e dell’inflazione, nonché dalla crisi demografica.

16.1 I “rampanti” anni Ottanta

La quinta economia del mondo
In un quadro in rapido cambiamento globale, nel corso degli anni Ottanta, l’Italia ritrovò slancio e prosperità, anche se il suo sviluppo fu inferiore a quello degli anni Sessanta. Motori del cambiamento globale furono (come vedremo nel prossimo capitolo) la politica di riforme di Deng in Cina, l’ascesa delle “Tigri asiatiche” (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan), oltre all’introduzione di teorie monetariste [▶ cap. 14.1] e di politiche antinflazionistiche negli Stati Uniti di Ronald Reagan e nel Regno Unito di Margaret Thatcher [▶ cap. 14.4]. Nello stesso periodo, l’economia italiana raggiunse l’apice della sua potenza e diventò la quinta nel mondo per reddito pro capite, superando il Regno Unito e guadagnando una posizione all’interno del G7, il gruppo dei paesi più industrializzati [▶ cap. 14.1]. La crescita euforica della Borsa di Milano e dell’intero sistema bancario accompagnò e stimolò la nuova fase di sviluppo italiano tra il 1982 e il 1987, interrotta con la crisi del “martedì nero” (1987), che restituì la finanza italiana a un ruolo periferico.

Nel sistema industriale italiano una posizione particolare era detenuta dalla Fiat, la quale aveva conquistato il monopolio sulla produzione automobilistica nazionale e aveva aperto filiali anche in Est Europa. Intanto, si aprì una grande fase di esportazioni nel mercato internazionale (la meccanica strumentale per l’industria e l’agricoltura, i tessuti, l’abbigliamento, le calzature e l’arredamento), favorita dalla progressiva automazione delle grandi industrie e dalla ristrutturazione complessiva delle relazioni industriali. Infatti, avanzava il declino del modello fordista, incentrato sulla produzione di massa attraverso il sistema complesso della grande fabbrica, aprendo la via all’affermazione del modello Toyota, fondato sulla produzione più snella e flessibile, orientata sulla base della domanda e sperimentata per la prima volta dall’omonima fabbrica giapponese di auto.

Già a partire dalla metà degli anni Settanta [▶ cap. 13.6] era cominciato a emergere, soprattutto nel Nord-Est del paese, un nuovo sistema economico che si sarebbe sviluppato soprattutto negli anni Novanta, costituito da una pluralità di piccole imprese operanti nel settore della produzione specialistica e tese all’esportazione all’estero. Anche grazie all’avanzata meccanizzazione dell’agricoltura, conobbero uno straordinario successo nel campo alimentare, la Ferrero, la Parmalat e la Barilla, ossia aziende di proprietà e di gestione di singole famiglie, che riuscirono ad affermarsi a livello mondiale nel mercato di settore. Tuttavia, nei decenni successivi, la competizione internazionale avrebbe presto ridotto drasticamente le vendite di Fiat, mentre molte aziende alimentari di successo (Perugina, Buitoni) sarebbero state acquisite dalle multinazionali, come Nestlé.

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Crescenti difficoltà
Lo sforzo di stabilizzazione del sistema economico e finanziario, dopo la grave crisi degli anni Settanta, ebbe un successo soltanto parziale. Infatti, nonostante i notevoli tassi di sviluppo dell’economia, il sistema era gravato da enormi problemi che, accumulandosi nel tempo, avrebbero poi creato le premesse per il successivo declino. Grazie anche all’azione della Banca d’Italia, ora separata dal ministero del Tesoro e sempre meno disponibile a stampare carta moneta e a comprare i titoli di Stato, il governo riuscì a riportare sotto controllo l’inflazione, che dal 1983 in poi scese dal 16 al 10% (anche se si manteneva ancora su livelli superiori a quelli degli altri paesi europei). L’aggancio al Sistema monetario europeo [▶ cap. 14.4] consentiva intanto di tenere sotto controllo le oscillazioni del valore della lira, ma il mancato contenimento della spesa pubblica faceva salire vertiginosamente il debito pubblico, anche perché la diminuzione dell’inflazione, incrementando il valore del denaro, spinse all’aumento degli interessi sui titoli di Stato e perciò del costo del debito pubblico.

D’altro canto, nonostante il quadro economico di crescita, persistevano limiti e carenze infrastrutturali in tutta la penisola, soprattutto nel Mezzogiorno. Gli ▶ oligopoli impedivano che si costituissero grandi aziende capaci di reggere la competizione internazionale. Sotto il peso del debito pubblico, inoltre, diminuivano gli stanziamenti statali nelle regioni centromeridionali, fino alla definitiva chiusura della Cassa del Mezzogiorno [▶ cap. 13.2] nel 1984. D’altro canto, cresceva a vista d’occhio il problema dell’evasione fiscale che innescava una perversa dinamica di ammanco nelle entrate dell’erario pubblico e quindi d’innalzamento della pressione fiscale.
Le profonde trasformazioni sociali andavano di pari passo con quelle economiche. Anzitutto, si completò il processo avviato tra anni Cinquanta e Sessanta, per cui la maggioranza della popolazione attiva, tra impiegati e tradizionali ceti medi artigiani, si era trasferita nei centri urbani [▶ cap. 13.3]. Quindi si affermò un’economia di servizi (pubblici e privati) [▶ cap. 13.7] che si articolò essenzialmente in tre gruppi: servizi finanziari, servizi d’informazione o intrattenimento attraverso le reti di telecomunicazione, servizi sociali legati al Welfare State. L’ampliamento del settore terziario, che dal 1980 assunse una posizione dominante (oltre il 50% dei lavoratori), si accompagnò a un aumento della disoccupazione (in particolare quella giovanile), mentre, rispetto ai decenni precedenti, l’impiego femminile aumentò solo parzialmente. Infatti, alla visibilità delle donne che ricoprivano ruoli professionali importanti, a livello complessivo non corrispondeva un reale e sostanziale incremento dell’occupazione femminile, anche per un’insufficiente assistenza statale alla maternità.

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I costi crescenti dei sistemi pensionistico e sanitario erano legati soprattutto al crollo dei tassi di natalità, ormai i più bassi del mondo, e al generale invecchiamento della società italiana: affioravano così le prime crepe nel Welfare State. In questo contesto si avviò una trasformazione della società, con l’arrivo della prima immigrazione dall’Africa, che toccò a fine anni Ottanta circa il milione di immigrati

[ 1]. Erano definiti “extracomunitari” perché provenienti da paesi non appartenenti alla Comunità europea, anche se per lo più si enfatizzava la loro estraneità alla comunità nazionale. Poi, dal 1990 cominciarono ad affluire profughi e immigrati dall’Europa orientale [▶ eventi]. Negli anni successivi, il numero degli arrivi continuò ad aumentare, sollecitando nuove leggi per la regolamentazione dei flussi e alimentando varie forme di intolleranza, su cui cominciarono a speculare le forze politiche.

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  eventi

La nave Vlora e la migrazione albanese

I profondi cambiamenti in Europa centrorientale e nei Balcani, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ebbero ripercussioni anche in Italia. In particolare, si aprì un intenso flusso di migrazione dall’Albania a partire dal 9 febbraio 1991, quando cadde il regime comunista di Henver Hohxa, che inaugurò una fase di caos e instabilità nel paese balcanico. Il 7 marzo si verificò il primo grande arrivo di profughi: più di 25 000 albanesi giunsero nel porto di Brindisi. Cinque mesi dopo, il 7 agosto 1991, la nave mercantile Vlora (nome albanese per Valona, città portuale dell’Albania meridionale) fu presa d’assalto, nel porto di Durazzo, da oltre 20 000 albanesi che costrinsero il capitano a salpare alla volta del­l’Italia. La nave approdò il giorno dopo nel porto di Bari e, con il suo carico straordinario di migranti, colse di sorpresa le istituzioni italiane, prive di strutture e di procedure adeguate all’emergenza. Furono allestite forme improvvisate di assistenza per migliaia di migranti, accampati e detenuti nello Stadio della Vittoria. Seguirono rivolte e rimpatri forzati di quasi tutti, con l’eccezione di circa 2000 albanesi che riuscirono a fuggire e a restare in Italia.

Alla vicenda simbolica della nave Vlora, traboccante di disperati, si ispirò il film di Gianni Amelio, Lamerica (girato nel 1994), che metteva in scena le aspirazioni degli albanesi che volevano approdare in Italia, attratti dal miraggio di un benessere visto in televisione.

Negli anni successivi continuarono gli sbarchi, anche se i due nuovi picchi di arrivi si verificarono in coincidenza con la grave crisi finanziaria albanese del 1997 e con la guerra del Kosovo del 1999. La comunità albanese (oltre 500 000 individui) è oggi la seconda per numero di immigrati in Italia, dopo quella rumena.

I socialisti e il pentapartito
L’arretramento elettorale del Partito comunista nel 1979 e l’ascesa del Partito socialista di Bettino Craxi, insieme al nuovo clima di contrapposizione internazionale tra Est e Ovest, inaugurarono un diverso ciclo politico, che sancì la rottura della solidarietà nazionale [▶ cap. 13.7]. Questa fase fu però scandita da gravi scandali che rivelavano un inquietante intreccio tra il mondo degli affari, la politica e alcune logge massoniche. In particolare, nel 1981 fu portato alla luce il caso della loggia segreta Propaganda 2 (meglio nota come P2), in cui si incontravano vari esponenti della classe dirigente (compresi generali dell’esercito, magistrati e giornalisti), che tentavano di interferire sullo svolgimento della vita pubblica e di realizzare ciò che chiamavano un “piano di rinascita democratica”, in realtà un progetto antiliberale e autoritario.

Nondimeno, la scena politica conosceva significative trasformazioni, come la nomina dei primi presidenti del Consiglio laici, dopo che la Democrazia cristiana aveva dominato i governi dei decenni precedenti. In particolare i socialisti, pur senza superare il 12-13% dei consensi elettorali, diventarono l’ago della bilancia della politica italiana. L’intransigente vocazione autonomista nei confronti del Pci da parte del segretario Bettino Craxi, fondata sul recupero di un socialismo ottocentesco umanitario e al tempo stesso su una condotta politica spregiudicata, esasperò il duello a sinistra con i comunisti.

Il governo Craxi dal 1983 al 1987 rappresentò una delle fasi più stabili della storia repubblicana, ispirata appunto al principio della “▶ governabilità”, anche se la coalizione che sosteneva il governo, il cosiddetto “pentapartito” (liberali, socialdemocratici, repubblicani, socialisti e democristiani), era quanto mai litigiosa. D’altra parte, all’interno dello stesso Psi si moltiplicavano le critiche nei confronti della dirigenza craxiana, sempre più centralistica e autoritaria, segnata dalla personalità spregiudicata del segretario [ 2]. Parte degli intellettuali che avevano creduto nella possibilità di un nuovo socialismo, si schierò contro quella che il filosofo Norberto Bobbio definì la «democrazia dell’applauso», per condannare le modalità demagogiche con cui Craxi si impose all’interno del partito, dove fu eletto per acclamazione e non attraverso una votazione.

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Le trasformazioni di Dc e Pci
In questa fase di sostegno al governo Craxi, il segretario democristiano Ciriaco De Mita cercò di promuovere un rinnovamento delle strutture del partito, temendo che i rapidi mutamenti sociali, riassumibili nell’avvento di una nuova società dello spettacolo e dei consumi, ne compromettessero la tradizionale funzione di mediazione fra tradizione cattolica e politica liberale. Al tempo stesso, cercò di emanciparsi dalle tendenze stataliste che dagli anni Cinquanta si erano affermate nella Dc [▶ cap. 13.4], con l’intenzione di favorire la libera impresa. Tuttavia, le aspirazioni liberiste di De Mita, la cui base elettorale risiedeva nel suo collegio in Irpinia, finirono col rivelarsi in contraddizione con le vaste reti clientelari che si reggevano sull’assistenzialismo statalista e che facevano di Campania e Sicilia le regioni chiavi per il controllo sulla Dc.
Anche il Partito comunista tentò la strada del rinnovamento, animando insieme ai comunisti francesi e spagnoli il progetto dell’eurocomunismo [▶ cap. 14.3] [ 3].
Infatti il segretario del Pci, Berlinguer, dopo il colpo di Stato in Polonia nel dicembre del 1981 [▶ cap. 14.5], aveva ammesso che la “capacità propulsiva” dell’Est europeo si era esaurita. Tuttavia, per quanto si allentassero, i rapporti con Mosca non potevano essere recisi, se non a costo di negare la stessa ragion d’essere del Pci. Berlinguer riscontrò nell’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici (compreso il Pci) il più grave problema del sistema repubblicano: era la cosiddetta “questione morale”. L’attenzione a questi aspetti istituzionali fece sì che il suo linguaggio fu inefficace nel conservare il rapporto con un elettorato in rapida trasformazione, segnato dalla differenziazione delle culture politiche tradizionali di sinistra, dall’emergere dell’ecologismo e dalla disgregazione della tradizionale base operaia.

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16.2 L’asse di governo Dc-Psi

Politiche e strategie di governo
Nonostante i ritmi di crescita ancora notevoli, il governo di Craxi non riuscì a elaborare una coerente strategia economica. La sua battaglia politica più aspra fu combattuta intorno alla scala mobile [▶ cap. 13.2], ossia l’indice di adeguamento automatico dei salari al costo della vita, che fu tagliato in modo significativo nel 1984. L’opposizione intransigente della Cgil e del Partito comunista portò a un referendum nel giugno 1985, che abrogasse i tagli varati dal governo, ma che invece confermò la legge sostenuta dal pentapartito, segnando la netta sconfitta delle forze di opposizione.
In generale, il sistema politico si andava consumando in una serie di gravi contraddizioni, oscillanti tra le pulsioni alla concentrazione del potere e la moltiplicazione dei piccoli partiti, che tendevano a ricattare i governi di coalizione. Da più parti emergevano crescenti accuse verso la “partitocrazia” fondata sulla prassi della lottizzazione, con cui si distribuivano incarichi e spazi di influenza sulla base dell’appartenenza politica. In questo contesto Craxi cercò invano di promuovere una “grande riforma” costituzionale, che aveva come obiettivo principale quello di aumentare i poteri del presidente della Repubblica, indirizzando un processo di trasformazione della Repubblica italiana verso una forma presidenzialista. Dopo le elezioni del 1987 si affermò l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Arnaldo Forlani (nuovo segretario della Dc), il cosiddetto “CAF” [ 4], che cercò di monopolizzare, per rotazione, le più alte cariche pubbliche. Il vero problema era che queste forze di governo erano indisponibili ad adottare misure per riequilibrare la finanza pubblica, misure impopolari perché sarebbero costate rinunce e sacrifici agli elettori e dunque avrebbero comportato una perdita di consenso per i partiti.

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Una politica estera spregiudicata
Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta si riaccese la Guerra fredda, con l’iniziativa militare sovietica in Afghanistan e con la crisi degli euromissili [▶ cap. 14.5]. Anche in questa nuova situazione internazionale incise nella politica estera italiana la rottura della solidarietà nazionale: tra il 1981 e il 1983 il Partito comunista si pose infatti alla testa della campagna pacifista contro i missili americani destinati a essere installati nella base militare di Comiso (in Sicilia).
Fin dagli anni Settanta, dopo la guerra del Kippur (1973) l’Italia, su impulso di Aldo Moro, aveva provato la strada di una politica mediorientale più indipendente dagli Stati Uniti: critica verso le politiche israeliane e favorevole alle istanze arabe e palestinesi. La successiva politica mediterranea del governo Craxi era animata a sua volta da un forte richiamo nazionalpatriottico, ma si concretizzava anche nell’interesse per le risorse energetiche dei paesi arabi, a costo di una certa ambiguità nei confronti del terrorismo dei gruppi oltranzisti palestinesi. Nell’ottobre 1985, il sequestro della nave da crociera italiana Achille Lauro [ 5], effettuato al largo delle coste egiziane da parte di terroristi palestinesi, spinse il governo italiano, favorevole alla trattativa, a sfidare gli Stati Uniti, che erano invece determinati all’azione di forza: fu quindi accordato che in cambio dell’immunità i sequestratori avrebbero rilasciato la nave. Così avvenne, ma a seguito del tentativo da parte degli Usa di far estradare i sequestratori palestinesi, il governo italiano mostrò una decisa opposizione. Tuttavia, i rapporti di amicizia con i paesi arabi, non risparmiarono all’Italia il problema del terrorismo palestinese, che si manifestò con il sanguinoso attentato all’aeroporto romano di Fiumicino nel dicembre del 1985, in cui un commando composto da 4 persone gettò bombe a mano e scaricò raffiche di mitra contro il banco del check-in della compagnia aerea israeliana El Al, uccidendo 19 persone.

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Nella seconda metà del decennio, i governi italiani parteciparono attivamente all’intensificazione del processo di unificazione europea, mentre cercarono di sostenere l’iniziativa riformista di Gorbačev in Unione Sovietica [▶ cap. 15.1]. Di fronte però agli improvvisi e dirompenti cambiamenti del 1989-90 [▶ cap. 15.2] la diplomazia italiana si trovò per lo più impreparata e incapace a reagire.
Le mafie
Fin dai primi anni Ottanta, la criminalità organizzata assunse forme ancora più aggressive, dopo l’affermazione dei Corleonesi di Totò Riina nella guerra di mafia, che insanguinò la Sicilia tra il 1980 e il 1981. In particolare, la mafia siciliana conquistò un capillare controllo territoriale ed economico poiché riuscì ad affermarsi sul mercato globale dell’eroina, che garantì ai boss siciliani una fonte eccezionale di ricchezza. Al tempo stesso, si impadronì della gestione del sistema degli appalti pubblici, influenzando la politica regionale. Cosa nostra ricorse spesso all’eliminazione fisica dei rappresentanti politici e militari che cercavano di ostacolarne l’ascesa, assassinando tra gli altri il democristiano Piersanti Mattarella (1980), il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982[ 6] e il comunista Pio La Torre (1983). Calabria, Campania e Puglia erano colpite dalle attività criminali di altre organizzazioni, come la ‘ndrangheta, la camorra, la Sacra corona unita.

Per fermare l’ascesa delle organizzazioni criminali, lo Stato avviò un’azione tesa a colpire gli appartenenti alla “Cupola” (il vertice dell’organizzazione criminale) sulla base delle rivelazioni dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, che consentirono di sollevare il velo di omertà e complicità che fino ad allora aveva protetto i mafiosi. Un insieme di misure legislative, già sperimentate per combattere il terrorismo, fu adottato per incentivare il “pentitismo”, con la promessa di una riduzione delle pene e di protezione delle proprie famiglie. Fu quindi creato un gruppo di magistrati, il cosiddetto “pool antimafia”, con lo specifico compito di perseguire Cosa nostra. Infatti, dopo l’omicidio Dalla Chiesa, fu approvata una legge che introduceva il reato di associazione mafiosa, per il quale la sola appartenenza a Cosa nostra, alla Sacra corona unita, alla ‘ndrangheta e alla camorra era ormai considerata un reato, a prescindere da ulteriori attività criminali. Il “maxiprocesso” di Palermo, cominciato nel 1986 e svoltosi sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, riguardò oltre 450 imputati di associazione mafiosa. Il procedimento si concluse con le sentenze di condanna per i principali imputati, che furono poi confermate nel gennaio 1992.

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La cultura consumista
L’esaurimento delle passioni politiche radicali, che avevano alimentato l’entusiasmo ma anche la violenza degli anni Settanta [▶ cap. 13.7], lasciò spazio a quello che fu definito “un ritorno al privato”. Sotto la particolare spinta della fine del periodo di austerità, esso si combinò con una nuova disponibilità di beni, nei settori dell’elettronica (videocassette, walkman e console per videogiochi), dell’intrattenimento, dei capi di abbigliamento firmati, e coincise con una nuova cultura dei consumi, che fu riassunta nella formula della “Milano da bere”. La città lombarda diventò capitale delle sfilate di moda, mentre la pubblicità si faceva veicolo dell’americanizzazione dello stile di vita [ 7].
In questo processo di trasformazione della società, un ruolo decisivo fu giocato dalle televisioni commerciali di Silvio Berlusconi, che dette vita a Canale 5 nel 1980 e in seguito a Rete 4 e Italia 1 nel 1985. La concorrenza aperta con le reti della televisione pubblica, sottoposte alla lottizzazione tra i partiti politici, fu affrontata con una programmazione completamente nuova, basata su un palinsesto di quiz, sit-com, varietà, cartoni animati. In particolare, la trasmissione Drive in, spettacolo di intrattenimento leggero condotto da soli comici, catturò e interpretò gli umori diffusi di una cultura edonistica e disimpegnata

L’imprenditore milanese stabilì quindi rapporti privilegiati con Craxi e con i socialisti, assicurandosi così l’approvazione di leggi che gli consentirono di detenere un monopolio pressoché completo sull’emittenza televisiva privata.

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In quegli anni anche il calcio raggiunse una popolarità senza precedenti. La vittoria della nazionale ai Mondiali di Spagna nell’estate 1982, suscitò un momento di euforia collettiva, che sembrava accantonare i drammi politici del passato recente. In una società attraversata da conflitti laceranti, il rito sportivo del calcio [ 8] si confermò uno dei motori trainanti del senso di appartenenza nazionale, anche se per forza di cose funzionava solo in concomitanza con i grandi tornei internazionali (Mondiali ed Europei). Al tempo stesso, però, cominciò a emergere e a dilagare la violenza negli stadi, provocata dai gruppi ultras delle squadre di club: in Italia, come in altri paesi europei, il calcio finì quindi per veicolare ed esasperare latenti tensioni sociali.

L’organizzazione dei Mondiali di calcio di Italia ‘90 doveva rappresentare la vetrina dello sviluppo sociale ed economico raggiunto dall’Italia negli anni Ottanta. Furono spesi ingenti capitali per l’edificazione di nuovi stadi, la ristrutturazione di quelli vecchi e l’organizzazione delle infrastrutture per accogliere l’evento internazionale. Il successo della manifestazione fu però accompagnato dalle pratiche di corruzione e dalla cattiva gestione pubblica, che fecero lievitare i costi dei lavori di preparazione.

16.3 Il collasso del sistema dei partiti

Segnali di crisi
Le grandi trasformazioni nell’Est Europa e la fine della Guerra fredda ebbero un impatto indiretto ma incisivo sul sistema politico italiano; non a caso, all’inizio degli anni Novanta, si cominciò a parlare di una possibile “Seconda Repubblica”. La crisi delle istituzioni, che si sviluppò a diversi livelli, finì col travolgere il sistema dei partiti e col mettere in discussione la stessa legittimità e autorità dello Stato. Anche il comportamento del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, eletto nel 1985, contribuì a incrinare il sistema esistente. Verso la fine del suo mandato, con le sue “esternazioni” schiette e sarcastiche rivolte contro esponenti politici italiani, rivendicò infatti per sé il ruolo di “picconatore” (distruttore) del sistema corrotto dei partiti politici.
In gravi difficoltà versava il comunismo italiano: se infatti il mito di Gorbacˇev aveva per un’ultima volta rinnovato la speranza in una riforma del sistema sovietico, gli eventi dell’autunno del 1989 [▶ cap. 15.2] precipitarono il Pci in un profondo travaglio e in una tardiva revisione. A pochi giorni dalla caduta del Muro di Berlino, avvenne la “svolta della Bolognina” (dal nome del quartiere di Bologna, in cui venne annunciata la svolta): il segretario comunista Achille Occhetto annunciò che il partito avrebbe mutato il nome, suscitando una grave lacerazione con le correnti di sinistra, che non intendevano rinunciare alla tradizione di provenienza e che diedero vita al Partito della rifondazione comunista. La maggioranza dei dirigenti del partito aderì invece a una nuova formazione, battezzata Partito democratico della sinistra (Pds[ 9], che rivendicava un superamento dell’eredità comunista novecentesca, ma che presentava un’identità socialista confusa e contraddittoria.
Proprio alla fine degli anni Ottanta, quando la questione meridionale assumeva una nuova urgenza, prese forma la “questione settentrionale”, sintomo di un profondo disagio sociale e culturale, che si associava a un nuovo impetuoso sviluppo economico. Cominciò ad aumentare il peso elettorale dei movimenti autonomisti regionali, che nel 1989 confluirono all’interno della Lega Nord di Umberto Bossi; questo partito intercettava e interpretava un vasto sentimento di rivolta antistatale, soprattutto antifiscale, potenziato da un primitivo antimeridionalismo. Nei primi anni Novanta, l’invenzione del mito della “Padania”, che faceva della Pianura Padana lo spazio di un inedito progetto politico [▶ fenomeni], alimentò la propaganda leghista, la quale alternava un secessionismo eversivo con soluzioni federaliste, che tendevano a rompere la solidarietà interregionale. Il consenso della Lega Nord si radicò soprattutto nelle ex zone democristiane della Lombardia e del Veneto, dove ora prosperava la piccola e media impresa.

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  fenomeni

Pontida e il mito della Padania

La Lega Lombarda, poi Lega Nord, ha attinto a una simbologia che risaliva all’età dei Comuni e alle loro lotte. In memoria del giuramento di Alberto da Giussano avvenuto a Pontida nel 1167 (atto fondativo della Lega Lombarda per fronteggiare la spedizione punitiva dell’imperatore Federico I Barbarossa), la Lega di Umberto Bossi decise di organizzare proprio a Pontida, in provincia di Bergamo, un ritrovo politico annuale, cui avrebbero partecipato i suoi principali esponenti. Il primo di questi ritrovi si svolse nel maggio 1990. Da Pontida sono state lanciate nel tempo le diverse parole d’ordine politiche della Lega, accomunate dall’aperta contrapposizione alla struttura centralizzata dell’istituzione repubblicana: slogan come “Roma ladrona” denunciavano l’eccessiva tassazione dello Stato.

La Lega infatti nacque come movimento di rivolta fiscale che rivendicava un forte antimeridionalismo, non privo di razzismo. Nei primi anni Novanta assunse una più decisa piega secessionista, volta a promuovere una vera e propria rottura con lo Stato nazionale. A questa retorica sovversiva si accompagnò una lotta politica tesa soprattutto alla riforma federale delle istituzioni, che però non fu mai realizzata negli anni di governo insieme al cen­trodestra di Silvio Berlusconi.

Con le ondate migratorie provenienti dagli altri paesi, la Lega ha gradualmente sostituito la tradizionale polemica contro i meridionali con la lotta radicale contro l’immigrazione (dapprima albanese e rumena, poi soprattutto quella musulmana) adottando lo slogan “Prima gli italiani”, a significare la sua svolta nazionale. Si è così proposta come partito nazionalista italiano, fino a giungere di nuovo al governo, insieme al Movimento 5 stelle, nel 2018.

Tangentopoli
Nel corso degli anni Ottanta, la magistratura, che era riuscita a infliggere colpi decisivi prima al terrorismo e poi alla mafia, aveva acquisito un enorme prestigio di fronte all’opinione pubblica. Il vuoto di potere politico, che si creò all’inizio del decennio successivo con la crisi della classe dirigente al governo, spinse sempre più i giudici a svolgere un ruolo di supplenza della politica stessa.
Nel febbraio del 1992, l’arresto del dirigente socialista milanese Mario Chiesa condusse all’apertura di un’indagine complessa e vastissima, ben presto diventata nota come “Mani pulite”. Si scoprì un diffuso e ramificato sistema di corruzione, fondato sullo scambio di tangenti (da cui il nome di “Tangentopoli”) tra politici e amministratorida un lato, imprenditori, banchieri e dirigenti industriali dall’altro. Il pool di Mani pulite, guidato dai magistrati di Milano, tra i quali spiccava Antonio Di Pietro, assunse l’iniziativa delle inchieste più importanti, che mirarono a indagare e colpire le degenerazioni nel sistema del finanziamento dei partiti.

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Il segretario socialista Craxi fu sempre più coinvolto nelle inchieste, diventando così per certi versi emblema di Tangentopoli. Nel luglio 1992, in un famoso discorso in parlamento, egli espose la natura sistemica del finanziamento illecito quale base del funzionamento di tutti i partiti politici. La situazione continuava a oscillare tra due poli: da un lato, i rischi di una giustizia sommaria che, sull’onda dell’entusiasmo popolare per i giudici, comportasse violazioni delle procedure giuridiche (per esempio considerare gli ▶ avvisi di garanzia come prova di colpevolezza, gli arresti preventivi come forma di pressione o punizione, fino alla spettacolarizzazione mediatica dei processi); dall’altro, i tentativi di trovare una soluzione politica ai casi giudiziari, che però offrivano il fianco all’accusa di voler assolvere i colpevoli, insabbiandone i reati. Nell’estate del 1993 emerse il caso Enimont [ 10]
, il caso di corruzione più grave seguito alla fusione tra l’Eni (Ente nazionale idrocarburi, di proprietà pubblica) e la Montedison (gigante petrolchimico di proprietà privata), che portò al duplice suicidio di due alti dirigenti industriali. Con l’avanzamento delle indagini, Mani pulite si presentava sempre più come un processo che non poteva essere chiuso, malgrado l’attesa per una soluzione definitiva: la corruzione sembrava talmente radicata nel sistema repubblicano da risultare inestirpabile.
La crisi politica e finanziaria
Il sistema politico dei partiti, apparentemente solido prima delle indagini di Mani pulite, affondò improvvisamente e inaspettatamente. Un primo colpo gli fu inferto dal referendum del giugno 1991, che mirava a ridefinire il sistema elettorale, eliminando la preferenza multipla di candidati, che incentivava la corruzione, a favore della preferenza unica. Nonostante Craxi avesse invitato gli elettori «ad andare al mare», per evitare di far raggiungere il quorum rendendo nullo il referendum, i voti favorevoli all’abrogazione della legge superarono il 95% (sul 62% dei votanti). Le successive elezioni politiche del 5-6aprile1992, che si tennero dopo che erano già avviate le inchieste milanesi sulla corruzione, segnarono il tracollo dei partiti tradizionali (la Dc scese sotto il 30% per la prima volta) e l’ascesa della Lega Nord: fu un vero e proprio “terremoto politico”.

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Di fronte a uno scenario del tutto nuovo e quanto mai instabile, l’incarico di primo ministro fu affidato al socialista Giuliano Amato, il quale dovette affrontare una delle fasi più turbolente della vita repubblicana. Sulla scia dell’attentato mafioso contro il giudice Giovanni Falcone, di cui parleremo più avanti, fu quindi eletto presidente della Repubblica il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che cercò di garantire un intransigente rispetto della Costituzione, anche a costo, talvolta, di interpretare il proprio ruolo istituzionale in modo più attivo e dinamico del consueto.

Nel febbraio 1992, in Europa, dopo lunghi anni di gestazione, era avvenuta la firma del Trattato di Maastricht [▶ cap. 15.5]: questo accordo, però, significò l’assunzione di impegni che oltrepassavano le possibilità strutturali dell’Italia, oberata dal debito pubblico. La crisi fiscale, in connessione con la crisi valutaria internazionale nel 1992, fece della lira uno degli obiettivi privilegiati della speculazione finanziaria, mettendone in crisi la stabilità all’interno del Sistema monetario europeo [▶ cap. 14.4]. Infatti, gli operatori sul mercato dubitavano che l’Italia potesse soddisfare i parametri di Maastricht e al tempo stesso ne approfittavano per trarne profitto. La bufera speculativa del settembre 1992 portò alla svalutazione della lira e alla sua uscita dallo Sme.

L’emergenza fu affrontata da Amato con una pesantissima manovra economica e una decisa azione riformatrice, che aprirono un autunno-inverno di scontento e di protesta, mentre si procedeva alla progressiva (spesso sommaria) liquidazione dell’industria pubblica; la crescente sfiducia nell’intervento dello Stato in economia, nutrita dal collasso del “socialismo reale” e diffusa in tutti i paesi europei, era acuita in Italia dalla soverchiante ingerenza dei partiti. La politica del governo si tradusse quindi in un tentativo di disarticolare il rapporto ormai patologico tra politica ed economia attraverso una strategia di privatizzazioni.

In quella fase di transizione incerta, emersero nuovi sforzi riformisti che miravano ad affrontare la crisi fiscale e insieme ad ammortizzarne l’impatto sociale, cercando di porsi il problema di costruire un futuro alle successive generazioni. Con gli accordi del luglio 1992 e quelli del luglio 1993, si definì così una politica di concertazione con le parti sociali (sindacati, imprenditori) volta a controllare le rivendicazioni salariali e a contenere le proteste sociali. Dopo la fine anticipata del governo Amato (aprile 1993), si formò un nuovo esecutivo sotto la guida dell’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, formato alla tradizione risorgimentale, che aveva partecipato alla Resistenza come partigiano del Partito d’azione: il suo governo sviluppò le politiche riformiste del governo precedente.

Intanto, si faceva strada l’idea che il rinnovamento della classe dirigente potesse passare attraverso una nuova legge elettorale. Nell’aprile del 1993 un referendum [ 11] sancì la fine del sistema proporzionale, che attribuiva ai partiti un numero proporzionale di seggi in base alla percentuale di voti ottenuti, e l’avvento di una forma parziale di maggioritario, che, in nome della governabilità, garantiva una maggioranza solida a chi vinceva le elezioni, limitando in maniera decisiva l’azione delle opposizioni. Una parte dei seggi in parlamento era in questo caso assegnata sulla base di ▶ collegi uninominali, in cui il candidato che otteneva il maggior numero di voti conquistava il posto in parlamento.

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D’altro canto, le inchieste milanesi stavano decimando i vertici della Dc e del Psi, portando infine allo scioglimento di entrambi i partiti (rispettivamente nel 1994 e nel 1995), mentre coinvolsero solo marginalmente il Pci, che pure aveva goduto di ampi finanziamenti illegali da parte delle autorità sovietiche. Per questo motivo il suo partito erede, il Pds, poteva nutrire la speranza di candidarsi alla guida del paese, mentre affondava il sistema che per quasi cinquant’anni lo aveva escluso dal governo.
L’emergenza criminale
Alla crisi politica ed economica si aggiunse e si intrecciò l’emergenza criminale. Nel contesto di collasso del sistema dei partiti, Cosa nostra inaugurò una strategia aggressiva, che da un lato fu l’esito della rottura dei delicati equilibri che avevano collegato la mafia a settori della politica locale e nazionale, mentre dall’altro era il modo con cui cercava di costruirne di nuovi. A partire dal secondo dopoguerra, era stata soprattutto la corrente andreottiana della Dc a garantire protezione politica ai mafiosi; questa connivenza, tuttavia, era stata incrinata dal mutamento e dalla radicalizzazione della mafia siciliana a partire dagli Settanta. Le indagini del pool antimafia, nel quale si distinsero i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, riuscirono a colpire i vertici di Cosa nostra, trovando coronamento nelle condanne pronunciate contro i capi mafiosi dalla sentenza finale del maxiprocesso di Palermo nel gennaio 1992. Nel marzo successivo, alla vigilia delle elezioni politiche, come forma di ritorsione per la mancata protezione nel processo, la mafia uccise il capo della corrente andreottiana in Sicilia, Salvatore Lima.
In questo quadro di rottura e ridefinizione dei rapporti con la politica, la mafia, probabilmente con la complicità di segmenti deviati delle istituzioni, cominciò una stagione di attentati, prima in Sicilia e poi sulla penisola. La strage di Capaci, presso Palermo (23 maggio 1992), con cui fu colpito a morte Giovanni Falcone, poi la strage di via d’Amelio, ancora a Palermo (19 luglio 1992), in cui fu ucciso Paolo Borsellino, contribuirono a dare un duro colpo alla lotta giudiziaria contro i vertici di Cosa nostra [ 12]; mentre le bombe del 1993 a Firenze, Milano e Roma destabilizzarono un quadro politico già incerto.

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Nell’estate del 1992 le istituzioni statali sembrarono come non mai scosse e inerti: il governo Amato decise l’intervento dell’esercito contro la criminalità organizzata, per rassicurare l’opinione pubblica e affiancare le operazioni delle forze dell’ordine. Anche la società civile si mobilitò, durante la cosiddetta “primavera palermitana”, contro una mafia vista come minaccia per la vita stessa della Sicilia. A questo rilancio diede un forte impulso il viaggio siciliano del papa Giovanni Paolo II nel maggio del 1993, durante il quale, dalla Valle dei Templi (vicino ad Agrigento), pronunciò un discorso di ferma condanna dei mafiosi. Si trattò di un gesto carico di valore simbolico, poiché le gerarchie locali della Chiesa avevano talvolta mostrato cedimenti o connivenze verso il potere mafioso.

Insieme all’azione coordinata e capillare delle forze dell’ordine, che riuscirono a catturare i principali latitanti mafiosi [▶ protagonisti], le istituzioni cercarono di agire sulle cause sociali più profonde del fenomeno criminale. Nel corso degli anni Novanta si moltiplicarono i tentativi di rilanciare e incentivare le iniziative produttive e gli interventi infrastrutturali nel Mezzogiorno, attraverso l’aiuto pubblico come leva per attivare la società civile; i risultati furono tuttavia in larga misura fallimentari.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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