15.3 Gli Stati Uniti e il “nuovo ordine mondiale”

15.3 Gli Stati Uniti e il “nuovo ordine mondiale”

Da Reagan a Bush
Dal 1985, in seguito all’ascesa politica di Michail Gorbačev, l’amministrazione Reagan fu capace di archiviare la retorica e le parole d’ordine incendiarie della prima metà del decennio, di fronte alla disponibilità a negoziare la riduzione degli armamenti del nuovo segretario del Pcus, avviando una fase distensiva nelle relazioni internazionali. Si inaugurò una serie di incontri fra Reagan e Gorbačev, che, non senza difficoltà e ripensamenti, gettarono le basi per un dialogo che mirava a neutralizzare la minaccia atomica e a porre termine alla Guerra fredda.
Fu poi George Bush, presidente dal 1988 al 1992, ad accompagnare le fasi finali della Guerra fredda e sostenere lo sforzo riformatore di Gorbačev, nonostante la crescente debolezza interna di quest’ultimo e l’ascesa di Eltsin.

La collaborazione fra Stati Uniti e Unione Sovietica e la conseguente fine della Guerra fredda indussero Bush e Gorbačev a immaginare la creazione di un “nuovo ordine mondiale”, fondato sul disarmo nucleare, sulla comune gestione dei problemi della sicurezza internazionale e sulla cooperazione per ridefinire i rapporti fra Nord e Sud del mondo. In particolare, durante la Conferenza di Malta del dicembre 1989, le due superpotenze assunsero un impegno nuovo per l’affermazione globale della pace e dei diritti umani, che passava anche attraverso il riconoscimento di un più attivo ruolo delle Nazioni Unite.

Proprio nel 1989, ancor prima della caduta del Muro di Berlino, commentando le trasformazioni in corso nel blocco sovietico e la conclusione del ciclo storico che era cominciato nel 1945, il filosofo americano Francis Fukuyama parlò di “fine della storia”. Con questa espressione, che coglieva uno stato d’animo diffuso nell’opinione pubblica statunitense, si alludeva al fatto che era difficile intravvedere all’orizzonte minacce mortali per la democrazia liberale e capitalista. Allora infatti si celebrava il trionfo del cosiddetto “consenso di Washington”, fondato sul sistema del libero mercato, considerato senza alternative.

Di conseguenza, la crisi e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel corso del 1991, si tradussero in un nuovo ordine unipolare, egemonizzato dagli Stati Uniti. Infatti, sul piano ideologico, lo scioglimento dell’Urss da parte di Gorbačev nel dicembre di quell’anno, fu interpretata da Bush come una vittoria degli Stati Uniti e della democrazia [▶ FONTI].

In un periodo di distensione internazionale, nell’agosto 1990 l’Iraq di Saddam Hussein invase il piccolo emirato del Kuwait. L’amministrazione Bush vide in questo conflitto una possibilità di rafforzare l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ottenuto un esplicito mandato delle Nazioni Unite, fra gennaio e marzo 1991 gli Usa guidarono una coalizione di 34 nazioni nella Guerra del Golfo [ 11], in seguito alla quale riuscirono a respingere l’invasione irachena del Kuwait e a consolidare la loro presenza in Medio Oriente. Al tempo stesso, l’accettazione da parte di Gorbačev della scelta di Bush di attaccare l’Iraq, pur sotto l’egida dell’Onu, e la spettacolare esibizione di forza dell’esercito statunitense in Medio Oriente provocarono, negli ambienti conservatori sovietici, un forte risentimento che non fu estraneo al tentato colpo di Stato dell’agosto 1991.

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Clinton e la New Economy
Nonostante i successi in politica estera, sul piano interno la politica statunitense era segnata dall’instabilità, causata dal diverso orientamento del Congresso rispetto a quello della presidenza soprattutto in materia di scelte economiche: come avvenne durante i mandati di Reagan e Bush, in cui fecero da contrappeso le maggioranze democratiche al Congresso. Nel 1992, nonostante la rapida vittoria nella Guerra del Golfo, Bush non fu riconfermato presidente, a causa della pur breve recessione economica provocata dalla diminuzione delle spese militari dopo la fine della Guerra fredda, dall’innalzamento del prezzo del petrolio e dalle politiche di controllo di prezzi e di compressione dei consumi. Fu quindi eletto presidente il democratico Bill Clinton, già governatore dell’Arkansas. Insieme alla moglie Hillary, da sempre impegnata nelle lotte femministe per l’emancipazione della donna, Clinton rappresentò una significativa novità alla Casa Bianca, espressione di un profondo ricambio generazionale [ 12]. Negli anni successivi, uno scandalo sessuale che portò il presidente vicino all’impeachment (la messa in stato d’accusa del presidente) per falsa testimonianza, non sembrò scalfirne la popolarità.
Clinton non impresse però una radicale svolta alle linee politiche ed economiche degli Stati Uniti: il suo maggior successo interno fu la cancellazione del debito pubblico, un obiettivo tradizionalmente repubblicano, che si sommò alla ripresa economica. Quest’ultima si avvantaggiò tra l’altro della E-economy o New Economy, incoraggiata sotto la presidenza Clinton: si trattava di un’economia che, attraverso il ricorso sistematico alle reti informatiche (come Internet) [▶ fenomeni], accelerava e moltiplicava esponenzialmente il volume degli scambi finanziari e commerciali. Essa offrì un impulso decisivo per la diffusione globale delle merci e dei marchi aziendali, nonché per gli investimenti dei capitali in tutto il mondo. Questo generò un incremento vertiginoso delle esportazioni, che fin dal 1993 portò a una forte ripresa economica degli Stati Uniti. Per coordinare questa nuova fase della globalizzazione, avviata sotto forte impulso statunitense, nel 1995 fu ufficialmente istituito il World Trade Organization (l’”Organizzazione mondiale del commercio”) che sostituì il General Agreement on Tariffs and Trade (“Accordo generale sulle tariffe e sul commercio”), in vigore dal 1947.

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D’altro canto, nonostante la fase di crescita economica e di espansione commerciale, sotto la presidenza Clinton si acutizzarono le tensioni sociali a causa della  deindustrializzazione, che era conseguenza della delocalizzazione di molte attività produttive in aree del mondo dove il costo della manodopera era inferiore. Inoltre, si aggravarono i problemi legati all’emarginazione razziale nei quartieri periferici delle metropoli come Los Angeles, dove nel maggio 1992 una rivolta della popolazione di colore, provocata dagli abusi della polizia, mise a ferro e fuoco la città. Nell’ultimo scorcio del secolo si moltiplicarono le iniziative di protesta contro le nuove istituzioni della globalizzazionecome i vertici dei G7 (i Sette Grandi) e del Wto. Particolarmente significative, a Seattle, nel novembre 1999, furono le manifestazioni degli attivisti no global, che aprirono una stagione di vasta mobilitazione contro la globalizzazione “neoliberale” [ 13].

  fenomeni

Internet

Le sue origini risalgono al sistema Arpanet, una rete di computer creata nel 1969 dall’agenzia governativa statunitense Arpa (Advanced Research Project Agency), la quale era stata costituita nel 1958 per rispondere alla sfida tecnologica e spaziale sovietica. Il presidente americano Eisenhower voleva disporre di un sistema di comunicazione efficiente anche in tempo di guerra. Questa iniziativa era perciò gestita dal dipartimento della Difesa, ma presto fu preso in carico dalla Nasa (National Aeronautics and Space Administration), e successivamente sviluppato da centri di ricerca universitari fra gli anni Settanta e Ottanta. Lo scopo della rete Arpanet era quello di mettere in relazione i computer di grandi istituzioni consentendo di condividere fra loro le unità di archiviazione (files). Nel 1990 il Cern (Conseil européen pour la recherche nucléaire) di Ginevra brevettò il World Wide Web in una forma molto simile a quella oggi nota, un sistema di pagine in cui era ed è tuttora possibile navigare visualizzando tutte le risorse digitali presenti all’interno del sistema. Fino al 1995 il sistema fu usato prevalentemente nel mondo accademico e in quello governativo; poi, intorno alla svolta del secolo, si sono moltiplicati gli accessi attraverso computer per uso privato.
Internet costituisce una rete di pubblico accesso, che consente di collegare terminali informatici. Questa “rete delle reti” ha rivoluzionato il modo di comunicare su scala globale, offrendo un eccezionale strumento per la circolazione di informazioni e per l’attivazione di reti di connessione, soprattutto a partire dagli anni Novanta, con la diffusione dei telefoni cellulari e del Gps (Global Positioning System), il sistema di posizionamento tramite i satelliti spaziali. Così Internet è diventato specchio e veicolo della globalizzazione.

Nonostante gli indubbi vantaggi comunicativi della “rete”, intorno a Internet si è sviluppato un acceso dibattito pubblico che riguarda la possibilità di disciplinarne l’uso in nome della pubblica sicurezza. In particolare, negli Stati democratici si è posto il problema di sorvegliare o chiudere siti che mettano in circolazione materiale propagandistico finalizzato al terrorismo, o che fungano addirittura da base organizzativa di atti criminali. La censura esercitata dai regimi dittatoriali si è spinta a limitare la libertà “in rete”, ostacolando l’accesso a tutta una serie di siti ritenuti ostili o potenzialmente eversivi. Infine, si è cominciato ad affrontare il problema della estrema facilità con cui in rete si trovano e si diffondono le cosiddette “fake news” (false notizie), che nei casi più gravi possono condizionare importanti scelte personali, orientamenti politici e comportamenti elettorali.

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L’interventismo “umanitario”
In politica estera la presidenza Clinton si distinse per il suo attivismo, volto a disinnescare i focolai di conflitto, come il Medio Oriente e l’ex Iugoslavia. Sul piano diplomatico, questo nuovo indirizzo politico produsse alcuni importanti risultati: l’avvio del processo di pace fra palestinesi e israeliani e la firma di un accordo fra Israele e Giordania. Al tempo stesso il presidente statunitense si ispirò al cosiddetto interventismo umanitario, all’idea cioè che la forza militare potesse essere funzionale a risolvere conflitti in cui erano direttamente esposte le popolazioni civili e a separare i contendenti attraverso truppe di interposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali. Nonostante spesso richiedessero vere e proprie azioni di guerra, le missioni così concepite erano presentate come operazioni di “polizia internazionale”.
Nel dicembre 1992 un contingente di marines, alla guida di una missione approvata dall’Onu e poi rafforzata da altri contingenti internazionali, fu inviato in Somalia, allo scopo di contenere la situazione di anarchia venutasi a creare dopo la fine violenta della dittatura di Siad Barre. Ma le unità dell’Onu non riuscirono ad assumere il controllo di un paese che era dilaniato dalle scorribande di varie fazioni che si combattevano reciprocamente e fra le quali cominciava a spiccare la guerriglia di ispirazione integralista islamica. La battaglia di Mogadiscio [ 14], che nell’ottobre 1993 provocò la morte di 18 marines nei violenti scontri con le forze del generale Mohammed Farah Aidid (uno dei signori della guerra locali), indusse le truppe internazionali a ritirarsi. Il fallimento somalo trattenne Clinton dall’intervenire l’anno successivo, quando si scatenò il genocidio in Ruanda, dove, durante il conflitto fra i due principali gruppi tribali presenti nel paese (hutu e tutsi), furono uccise un milione di persone. Fu invece nell’ex Iugoslavia che il presidente statunitense, nonostante forti esitazioni, decise di assumere una politica attiva di intervento militare.

15.4 Le guerre nell’ex Iugoslavia e la Russia postsovietica

Una nuova mappa di Stati
La caduta dei regimi comunisti trascinò con sé le formazioni statali di tipo federale e multinazionale che essi avevano tenuto insieme, causando una radicale ristrutturazione della mappa geopolitica dell’Europa centrorientale e provocando una frammentazione politica che si riallacciava a quella seguita alla caduta degli imperi continentali nel primo dopoguerra [▶ cap. 4.2]. A differenza di quanto accadde nel periodo 1917-23, quando furono ridisegnati i confini fra gli Stati, nel 1991-93 i processi di secessione lasciarono invariate le frontiere delle diverse repubbliche che ora si consideravano nazionali e che fino ad allora avevano fatto parte di Stati federali come l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia.
Durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la formazione dei nuovi Stati, sorti in corrispondenza delle ex repubbliche sovietiche, fu meno catastrofica di quanto si potesse temere. Ciò avvenne soprattutto grazie al fatto che la Federazione russa di Eltsin ne assunse i poteri e le risorse, oltre alla responsabilità nella gestione degli arsenali atomici. D’altro canto, la disgregazione dell’Urss aprì la strada a numerosi conflitti locali soprattutto nelle zone periferiche del Caucaso e del Baltico e lasciò al di fuori dei confini russi circa 25 milioni di appartenenti alla minoranza russofona, presenti nelle altre repubbliche ex sovietiche, che avrebbero alimentato tensioni e scontri armati nei decenni successivi.

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Il processo di dissoluzione della Cecoslovacchia si distinse, in sintonia con la rivoluzione di velluto del 1989, per il suo carattere rapido e pacifico, che portò alla formazione di due nuovi Stati: la Repubblica Ceca e la Slovacchia [ 15]. Più che le differenze nazionali, contarono le disparità sociali ed economiche fra le più moderne e industrializzate regioni di Boemia e Moravia (componenti la Repubblica Ceca) e la più arretrata e rurale Slovacchia. A essere decisiva fu soprattutto la rottura nei negoziati del 1992 tra i leader dei due partiti principali, il ceco Vaclav Klaus e lo slovacco Vladimir Mečiar: riguardo al futuro della Cecoslovacchia il primo era favorevole a una politica di centralizzazione federale e di radicale liberalizzazione, entrambe opzioni alle quali il secondo si opponeva. Fu così decisa la scissione, che fu ufficializzata il 1° gennaio 1993.

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La guerra in Slovenia e Croazia
La dissoluzione dello Stato iugoslavo avvenne invece sotto il segno della violenza e degli scontri in nome delle diverse appartenenze nazionali e religiose [ 16]: una guerra civile fu combattuta a più riprese, fra il 1991 e il 2001, sui territori delle sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia), provocando oltre 100 000 morti e lo spostamento forzato di milioni di civili.
In un quadro di grave crisi istituzionale ed economica della Federazione iugoslava [▶ cap. 14.5], nel corso degli anni Ottanta, il movimento per la riforma “democratica” del sistema comunista fu soffocato dalla mobilitazione nazionalista serba guidata dal leader della Lega dei comunisti Slobodan Milošević. In contrapposizione al nazionalismo serbo, che si rifaceva all’esempio dei cetnici (guerriglieri monarchici), si costituirono i movimenti nazionalisti che erano diffusi in tutte le repubbliche e che avevano origini che precedevano la fondazione della Iugoslavia (come gli Ustascia croati [▶ cap. 8.4]): il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiararono la loro indipendenza.
Mentre in Slovenia, culturalmente compatta ed economicamente avanzata, la crisi si risolse in pochi giorni con il ritiro dell’Armata federale, ben diversa era la situazione in Croazia. Come Milošević in Serbia, il presidente croato Franjo Tudjman aveva imboccato la strada di un nazionalismo radicale, non privo di rimandi all’esperienza collaborazionista della Seconda guerra mondiale [▶ cap. 9.3]. Si crearono così le condizioni per uno scontro con la popolazione serba residente in Croazia che fu ridotta a essere una minoranza, privata dei diritti garantiti dalla Costituzione iugoslava, all’interno di un nuovo Stato nazionale croato. La rivolta dei serbi, concentrati nel retroterra della Dalmazia e in Slavonia (la regione nordorientale della Croazia, confinante con la Serbia) e organizzatisi nell’autoproclamata Repubblica serba di ▶ Krajina, scatenò la risposta armata dell’improvvisato esercito croato.

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Fin dalla tarda estate 1991, l’intervento dell’esercito federale, egemonizzato da ufficiali serbi, fece precipitare la situazione: l’assedio di Vukovar [ 17], piccola città lungo il Danubio a 70 chilometri dal confine con la Serbia, durò quasi due mesi e si concluse nel novembre 1991, con la distruzione della città e l’eliminazione di oltre 200 prigionieri di guerra e civili. Tra l’autunno e l’inverno del 1991, quindi, le forze paramilitari serbe, con l’appoggio politico e militare di Belgrado, occuparono quasi un terzo del territorio croato, abitato prevalentemente da popolazione serba, creando di fatto delle zone fuori dal controllo del governo di Zagabria.
Al termine di un conflitto che provocò oltre 10 000 morti, nel gennaio 1992 il riconoscimento dell’indipendenza croata da parte della Germania e del Vaticano, seguiti poi dal resto della comunità internazionale, creò una situazione di stallo, poiché la maggior parte delle Krajine restava sotto il controllo delle milizie serbe. Solo nell’agosto del 1995, con una fulminea operazione militare sostenuta dagli Stati Uniti, la Croazia riuscì a riconquistare i territori occupati, innescando l’esodo della popolazione di origine serba, di cui la nuova Croazia intendeva liberarsi.
La guerra in Bosnia-Erzegovina

Proprio mentre si stava concludendo la fase più cruenta della guerra in Croazia, si aprì un altro fronte in Bosnia-Erzegovina, dove la maggioranza musulmana della popolazione (dal 1995 bosgnacchi) si opponeva alle minoranze serba e croata (44 % di musulmani di Bosnia, 32% di serbi e 17% di croati). Nel febbraio del 1992, il presidente bosniaco Alija Izetbegović, sostenitore della convivenza pacifica in Bosnia dei tre gruppi nazionali e religiosi, indisse un referendum per l’indipendenza della Bosnia dalla Federazione iugoslava (ormai controllata dalla Serbia), fortemente voluto dalla maggioranza musulmana: la vittoria del fronte indipendentista aprì la strada allo scoppio della guerra civile. Infatti, i serbi di Bosnia, che boicottarono il referendum, si organizzarono nella Repubblica serba di Bosnia, che pretendeva di restare all’interno della Iugoslavia.

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Dall’aprile 1992 le forze serbe sottoposero la capitale Sarajevo a un assedio che si protrasse per oltre due anni e provocò la morte di oltre 12 000 civili, sotto lo sguardo impotente della comunità internazionale. Accanto all’azione dell’esercito regolare serbo, in Bosnia agirono anche gruppi di paramilitari serbi, che contavano sull’appoggio logistico e militare di Belgrado ed erano comandati da Radovan Karadzić e Ratko Mladić. Questi gruppi condussero, con il beneplacito della Serbia, operazioni di “pulizia etnica” volte a “ripulire” il territorio dell’autoproclamata Repubblica serba dai musulmani [▶ fenomeni]. Furono aperti campi di concentramento e compiuti massacri di migliaia di civili, nonostante un intervento tardivo e inefficace di forze internazionali sotto l’egida delle Nazioni Unite cercasse di interporsi tra i gruppi armati. In uno scenario confuso, in cui si produssero vari rovesciamenti di fronte, i croati (in una prima fase alleati dei musulmani) dal marzo 1993 cercarono di conquistare il controllo dell’Erzegovina, in vista di una sua annessione alla Croazia [ 18].
Un episodio che divenne l’emblema delle guerre nell’ex Iugoslavia fu la sistematica eliminazione, nel luglio 1995, di oltre 8000 uomini nella cittadina bosniaca di Srebrenica, malgrado questa si trovasse sotto la protezione della missione di pace delle Nazioni Unite. Dopo aver conquistato Srebrenica al termine di un lungo assedio, le truppe serbe al comando di Mladić rastrellarono e uccisero sommariamente nei boschi circostanti tutta la popolazione musulmana maschile in età di combattimento.
Nell’agosto successivo, le forze aeree della Nato decisero di colpire le postazioni dei serbo-bosniaci intorno alla città assediate. Solo l’intervento armato americano costrinse Milošević, Tudjman e Izetbegović ad avviare trattative che, nel novembre successivo, a Dayton (Stati Uniti) sfociarono in un accordo che divideva la Bosnia-Erzegovina in due entità confederate, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba, sancendo di fatto i risultati della “pulizia etnica”.

  fenomeni

La pulizia etnica

Questo neologismo si è affermato in seguito alle guerre nell’ex Iugoslavia degli anni Novanta, anche se resta altamente controverso. Esso indica un insieme di pratiche coercitive e di forme di pressione violenta, materiale e psicologica, finalizzate a rimuovere un gruppo nazionale da un dato territorio per “ripulirlo”. Essa si distingue dal genocidio perché quest’ultimo mira all’eliminazione sistematica di tutti i componenti di un dato gruppo (sociale, nazionale, razziale, o definito sulla base di altri criteri). Tuttavia, alcuni storici tendono a definire il genocidio come una forma estrema di pulizia etnica.

Sulla base dell’esempio iugoslavo, gli studiosi hanno poi ripensato e ricostruito tutta una serie di altri fenomeni ed episodi che possono essere interpretati all’interno della categoria “pulizia etnica”. Per esempio, si è scoperto che espressioni analoghe come “epurazione etnica” o “pulizia del terreno” furono utilizzate dai fascisti rumeni e da quelli croati nel corso della Seconda guerra mondiale. I primi casi di pulizia etnica sono fatti risalire indietro nel tempo, addirittura fino agli assiri (IX-VIII secolo a.C.), o all’espulsione in età medievale degli ebrei dalla penisola spagnola (XV secolo). Tuttavia, i fenomeni moderni di pulizia etnica, volti alla formazione violenta di comunità omogenee, sono riconducibili alla costruzione degli Stati nazionali a partire dai territori dell’Impero ottomano tra Balcani e Anatolia, fra la seconda metà dell’Ottocento e il corso del Novecento, e sono poi stati esportati e adottati anche in Asia e in Africa.

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La guerra per il Kosovo e la giustizia internazionale
L’ultimo capitolo delle guerre di dissoluzione iugoslave si consumò nel 1998-99 in Kosovo, la provincia meridionale della Repubblica serba, caratterizzata da una fortissima presenza albanese (musulmana) che aspirava all’indipendenza. Nell’inverno del 1998 le ricorrenti notizie di discriminazioni, quando non di veri e propri massacri, compiuti da unità regolari e paramilitari serbe a danno della popolazione kosovara suscitarono l’allarme internazionale. Il fallimento delle trattative, che si svolsero nel castello parigino di Rambouillet, condusse ai bombardamenti della Nato contro le forze serbe in Kosovo nel marzo 1999, pur senza un esplicito mandato dell’Onu, per l’opposizione di Russia e Cina. Di fronte al tentativo da parte delle unità serbe in Kosovo di compiere la pulizia etnica nei confronti degli albanesi locali, le forze aeree e missilistiche occidentali colpirono i centri del potere di Belgrado, con l’intento di sgretolare il regime di Milošević, ma provocando anche vittime tra la popolazione civile.
In giugno fu quindi siglato un accordo per cui le forze serbe sgomberavano il Kosovo, che di fatto diventava una sorta di protettorato della Nato e che avrebbe proclamato l’indipendenza nel 2008, nonostante la ferma contrarietà della Serbia e di una parte della comunità internazionale. Alle elezioni presidenziali del settembre 2000, Milošević fu sconfitto dal candidato nazionalista moderato Vojislav Koštunica e, dopo una vasta mobilitazione della piazza, fu costretto ad ammettere la sconfitta e ad abbandonare il potere in ottobre.
I conflitti che si susseguirono nella penisola balcanica fra il 1991 e il 2000 segnarono generazioni di persone e scatenarono una spirale di violenza in nome di diverse appartenenze nazionali e religiose. A partire dal 1993 fu aperto all’Aja un Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Iugoslavia, che sottopose a processo alcuni dei principali responsabili della guerra, tra i quali Milošević (arrestato nel 2001 e poi morto in carcere nel 2006), Karadzić e Mladić [ 19], entrambi condannati nel 2016 e 2017, mentre Izetbegović e Tudjman morirono prima di un’eventuale messa in stato d’accusa.

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Tensioni e conflitti nell’Europa postcomunista
Nei primi anni Novanta, in molti paesi ex comunisti dell’Europa orientale e nella Russia di Eltsin furono adottate politiche liberiste, che da un lato liquidavano il precedente sistema statalista attraverso massicci provvedimenti di privatizzazioni e liberalizzazioni delle proprietà collettive, dall’altro miravano a creare le condizioni per uno sviluppo sostenuto dell’economia. Questa “terapia shock”, soprattutto a causa della liberalizzazione dei prezzi e dunque dell’inflazione, ebbe l’effetto di acutizzare le diseguaglianze ereditate dai regimi precedenti e aggravate dalla loro crisi. I programmi di riforme elaborate attraverso la mediazione di consiglieri del Fondo monetario internazionale e di altre istituzioni mondiali erano ispirati alle ricette economiche adottate nei paesi dell’America Latina negli anni Ottanta. La fine dei regimi comunisti metteva a disposizione un enorme patrimonio di proprietà statale, di cui si appropriarono rapidamente le nuove élite economiche.
In Russia, gli anni successivi furono caratterizzati dal conflitto tra Eltsin e l’opposizione nazionalista e veterocomunista, che aveva una significativa rappresentanza in parlamento e criticava le riforme liberiste del presidente, che stavano impoverendo la popolazione russa. Lo scontro finale avvenne fra settembre e ottobre 1993, quando le forze di opposizione tentarono di impadronirsi dei centri di potere e occuparono il Palazzo del parlamento, ma il tentativo fu represso dall’intervento dei militari leali al Cremlino, che non esitarono a bombardare l’edificio [ 20].
Tuttavia, il potere di Eltsin, malato e soggetto all’abuso di alcool, era sempre più incerto, stretto fra le pressioni internazionali e le interferenze delle oligarchie economiche interne, arricchitesi con la privatizzazione del patrimonio statale. La crisi economica del 1998 fece sprofondare il valore del rublo, esasperando la condizione di indigenza di vaste masse popolari, che guardavano con crescente avversione alla politica delle riforme. Eltsin scelse allora come successore Vladimir Putin, un ex agente del servizio segreto sovietico (Kgb), il quale riuscì a emergere come figura forte e a garantirsi così la vittoria alle elezioni del 1999.

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Dalla dissoluzione dell’Urss, la zona caucasica della Federazione russa fu caratterizzata da spinte secessioniste dove le aspirazioni all’indipendenza nazionale e il richiamo all’islamismo militante si intrecciavano. In particolare la Cecenia, la regione nel Caucaso russo confinante a sud con la Georgia, nel 1991 si dichiarò indipendente, senza il consenso della Federazione russa. Dopo alcune trattative politiche fallite, nel dicembre del 1994 l’esercito russo cominciò una guerra sanguinosa che si sarebbe svolta in due tempi: 1994-96 e 1999-2003. La dura repressione russa (che provocò decine di migliaia di morti, anche tra i civili) alimentò la radicalizzazione islamica dei ribelli, che non esitarono a ricorrere all’arma del terrorismo e che furono soffocati, a fatica, negli anni successivi soprattutto durante la presidenza Putin.

15.5 La nuova integrazione europea

Dal Trattato di Maastricht all’euro
Nel contesto della fine della Guerra fredda, il processo di integrazione europea [ 21] e quello di unificazione tedesca si incrociarono e si rafforzarono a vicenda. La Francia del presidente Mitterrand infatti accettava a malincuore l’idea di una nuova Germania unita e, per distogliere il cancelliere tedesco Kohl dalla tentazione di imporre una nuova egemonia sull’Europa centrale, lo impegnò in un processo di integrazione sempre più vincolante, a partire dalla costruzione di una moneta comune. Gli alti costi dell’unificazione della Germania furono sostenuti con un aumento dei tassi di interesse, che era funzionale a contenere l’inflazione e a garantire nuovi investimenti: perciò il marco tedesco continuò a essere la moneta nazionale più solida nel panorama europeo e costituì il modello per l’euro, la futura valuta comune europea.

Nella città olandese di Maastricht, nel febbraio 1992, dodici paesi della Comunità economica europea firmarono un trattato che sancì l’obbligo di convergere su una serie di parametri economici e finanziari ispirati dalla politica di rigore delle istituzioni bancarie tedesche: bassa inflazione, valuta stabile, deficit ridotto al minimo. Questo atto decretò anche la fine della Cee e la nascita dell’Unione Europea. Non aderirono invece al Trattato di Maastricht Regno Unito e Danimarca. Nel 1995 entrò in vigore il Trattato di Schengen [▶ cap. 14.4], che abolì i controlli presso le frontiere e consentì la libera circolazione di persone, merci e capitali tra i paesi membri. La Norvegia e l’Islanda diventarono parte dell’area Schengen, pur senza aderire all’Unione Europea, mentre Irlanda e Regno Unito non vi aderirono, nonostante facessero parte della Ue. Il successivo Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997) cercò di dare maggiore sostanza al processo di definizione di una politica estera comunitaria e di una cittadinanza sociale e politica europea. Dal 1° gennaio 2001 entrò in vigore l’euro, che sostituì le valute nazionali realizzando lo spazio monetario comune dei paesi che vi avevano aderito.

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L’adozione di una moneta europea forte ha avuto conseguenze diversificate a seconda dei paesi aderenti: da un lato, dando maggior competitività al sistema produttivo e commerciale europeo, ha favorito l’economia più dinamica e flessibile del vecchio continente, ossia quella della Germania unita; dall’altro, abbattendo gli interessi sui debiti pubblici, ha garantito la stabilità dei paesi con le finanze più fragili (in particolare quelli mediterranei), i quali hanno così potuto rimandare riforme strutturali difficili ma indispensabili per mantenere gli equilibri di bilancio, come i tagli nel settore pensionistico.
Nel 2004 una commissione di esperti redasse un lungo trattato costituzionale, che doveva consolidare la dimensione politica dell’Unione e sottoporre le principali linee di indirizzo politico a un maggior controllo democratico. Tuttavia il trattato, che per entrare in vigore doveva essere approvato attraverso un referendum in ciascuno Stato, venne bocciato dalle consultazioni che si svolsero in Francia e in Olanda nel 2005; questa battuta d’arresto affossò le prospettive di una più stretta integrazione politica.
I paesi ex comunisti furono in un primo tempo esclusi dal processo di integrazione, anche se furono avviate complicate procedure di allargamento dell’Unione verso est. Intanto, però, furono accelerate le operazioni per l’ammissione di Polonia, paesi baltici e Repubblica Ceca nelle strutture militari della Nato, nonostante la contrarietà della Russia. Fu solo nel 2004, con l’ingresso della Polonia, della Slovacchia e della Slovenia, che paesi dell’ex blocco sovietico per la prima volta entrarono a far parte dell’Unione europea. A questi seguirono Bulgaria e Romania nel 2007 [ 22].

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Tony Blair e la “terza via”
Nel corso degli anni Novanta si aggravò la crisi dei modelli di Stato sociale iniziata nel decennio precedente, che scaturiva dal declino demografico e dal rallentamento economico del vecchio continente [▶ cap. 14.4]. Al tempo stesso, la caduta dei regimi comunisti fu intesa come la sconfitta storica del “socialismo” e dell’idea di Stato che ne conseguiva, per cui sembrò incrinata la legittimità di ogni progetto politico fondato sull’intervento statale in economia. Risultava così sollecitata la ricerca di una “terza via”, tra il socialismo ormai sconfitto e la pura e semplice accettazione del “neoliberismo”. In un contesto internazionale in cui l’elezione del democratico Bill Clinton alla Casa Bianca conferì slancio a questa ricerca, si collocò l’azione di Tony Blair, eletto leader del Partito laburista nel 1994. Blair si propose di rinnovare il partito, accantonando ogni vincolo ideologico con la tradizione socialista e cancellando la clausola della nazionalizzazione dell’economia che dal 1918 contraddistingueva il programma laburista.
Dopo aver vinto le elezioni politiche nel 1997, Blair dette vita a un governo più di centro che sinistra, che si limitò a correggere, senza alterare sostanzialmente, la politica economica dei precedenti governi conservatori: da una parte innalzò le tasse e adottò il salario minimo nazionale, oltre a introdurre nuovi incentivi per l’occupazione; dall’altra confermò l’introduzione di forme di mercato nel Welfare State, la privatizzazione delle ferrovie e i provvedimenti contro i sindacati, realizzando importanti investimenti per rilanciare Londra come grande centro finanziario globale.
Sul piano dei rapporti interni al Regno Unito, Blair concesse la devoluzione dei poteri alla Scozia, per stemperarne le tentazioni separatiste, mentre nel 1998 siglò un accordo di pace con la Repubblica d’Irlanda che confermò l’appartenenza dell’Irlanda del Nord al Regno Unito e che stabilì un processo di riconoscimento della sovranità, dei diritti civili e culturali fra le due Irlande [ 23]. A garantire il successo di questa pace contribuì un precedente accordo raggiunto fra Blair e il Sinn Fein (il gruppo indipendentista irlandese [▶ cap. 1.1] divenuto braccio politico dell’Ira), che prevedeva lo smantellamento delle armi e dei gruppi armati. In politica estera, pur rafforzando i legami con l’Unione Europea, egli strinse una forte alleanza con gli Stati Uniti, collaborando tanto con Clinton quanto con il suo successore, il repubblicano George W. Bush (figlio di George Bush), ma la partecipazione britannica alla guerra in Iraq nel 2003 fece crollare la sua popolarità (come vedremo in seguito).

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi