15.3 Gli Stati Uniti e il “nuovo ordine mondiale”
Da Reagan a Bush
Dal 1985, in seguito all’ascesa politica di Michail Gorbačev, l’amministrazione Reagan fu capace di archiviare la retorica e le parole d’ordine incendiarie della prima metà del decennio, di fronte alla disponibilità a negoziare la riduzione degli armamenti del nuovo segretario del Pcus, avviando una fase distensiva nelle relazioni internazionali. Si inaugurò una serie di incontri fra Reagan e Gorbačev, che, non senza difficoltà e ripensamenti, gettarono le basi per un dialogo che mirava a neutralizzare la minaccia atomica e a porre termine alla Guerra fredda.La collaborazione fra Stati Uniti e Unione Sovietica e la conseguente fine della Guerra fredda indussero Bush e Gorbačev a immaginare la creazione di un “nuovo ordine mondiale”, fondato sul disarmo nucleare, sulla comune gestione dei problemi della sicurezza internazionale e sulla cooperazione per ridefinire i rapporti fra Nord e Sud del mondo. In particolare, durante la Conferenza di Malta del dicembre 1989, le due superpotenze assunsero un impegno nuovo per l’affermazione globale della pace e dei diritti umani, che passava anche attraverso il riconoscimento di un più attivo ruolo delle Nazioni Unite.
Proprio nel 1989, ancor prima della caduta del Muro di Berlino, commentando le trasformazioni in corso nel blocco sovietico e la conclusione del ciclo storico che era cominciato nel 1945, il filosofo americano Francis Fukuyama parlò di “fine della storia”. Con questa espressione, che coglieva uno stato d’animo diffuso nell’opinione pubblica statunitense, si alludeva al fatto che era difficile intravvedere all’orizzonte minacce mortali per la democrazia liberale e capitalista. Allora infatti si celebrava il trionfo del cosiddetto “consenso di Washington”, fondato sul sistema del libero mercato, considerato senza alternative.
Di conseguenza, la crisi e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel corso del 1991, si tradussero in un nuovo ordine unipolare, egemonizzato dagli Stati Uniti. Infatti, sul piano ideologico, lo scioglimento dell’Urss da parte di Gorbačev nel dicembre di quell’anno, fu interpretata da Bush come una vittoria degli Stati Uniti e della democrazia [▶ FONTI].
In un periodo di distensione internazionale, nell’agosto 1990 l’Iraq di Saddam Hussein invase il piccolo emirato del Kuwait. L’amministrazione Bush vide in questo conflitto una possibilità di rafforzare l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ottenuto un esplicito mandato delle Nazioni Unite, fra gennaio e marzo 1991 gli Usa guidarono una coalizione di 34 nazioni nella Guerra del Golfo [ 11], in seguito alla quale riuscirono a respingere l’invasione irachena del Kuwait e a consolidare la loro presenza in Medio Oriente. Al tempo stesso, l’accettazione da parte di Gorbačev della scelta di Bush di attaccare l’Iraq, pur sotto l’egida dell’Onu, e la spettacolare esibizione di forza dell’esercito statunitense in Medio Oriente provocarono, negli ambienti conservatori sovietici, un forte risentimento che non fu estraneo al tentato colpo di Stato dell’agosto 1991.
Clinton e la New Economy
Nonostante i successi in politica estera, sul piano interno la politica statunitense era segnata dall’instabilità, causata dal diverso orientamento del Congresso rispetto a quello della presidenza soprattutto in materia di scelte economiche: come avvenne durante i mandati di Reagan e Bush, in cui fecero da contrappeso le maggioranze democratiche al Congresso. Nel 1992, nonostante la rapida vittoria nella Guerra del Golfo, Bush non fu riconfermato presidente, a causa della pur breve recessione economica provocata dalla diminuzione delle spese militari dopo la fine della Guerra fredda, dall’innalzamento del prezzo del petrolio e dalle politiche di controllo di prezzi e di compressione dei consumi. Fu quindi eletto presidente il democratico Bill Clinton, già governatore dell’Arkansas. Insieme alla moglie Hillary, da sempre impegnata nelle lotte femministe per l’emancipazione della donna, Clinton rappresentò una significativa novità alla Casa Bianca, espressione di un profondo ricambio generazionale [ 12]. Negli anni successivi, uno scandalo sessuale che portò il presidente vicino all’impeachment (la messa in stato d’accusa del presidente) per falsa testimonianza, non sembrò scalfirne la popolarità.fenomeni
Internet
Le sue origini risalgono al sistema Arpanet, una rete di computer creata nel 1969 dall’agenzia governativa statunitense Arpa (Advanced Research Project Agency), la quale era stata costituita nel 1958 per rispondere alla sfida tecnologica e spaziale sovietica. Il presidente americano Eisenhower voleva disporre di un sistema di comunicazione efficiente anche in tempo di guerra. Questa iniziativa era perciò gestita dal dipartimento della Difesa, ma presto fu preso in carico dalla Nasa (National Aeronautics and Space Administration), e successivamente sviluppato da centri di ricerca universitari fra gli anni Settanta e Ottanta. Lo scopo della rete Arpanet era quello di mettere in relazione i computer di grandi istituzioni consentendo di condividere fra loro le unità di archiviazione (files). Nel 1990 il Cern (Conseil européen pour la recherche nucléaire) di Ginevra brevettò il World Wide Web in una forma molto simile a quella oggi nota, un sistema di pagine in cui era ed è tuttora possibile navigare visualizzando tutte le risorse digitali presenti all’interno del sistema. Fino al 1995 il sistema fu usato prevalentemente nel mondo accademico e in quello governativo; poi, intorno alla svolta del secolo, si sono moltiplicati gli accessi attraverso computer per uso privato.
Internet costituisce una rete di pubblico accesso, che consente di collegare terminali informatici. Questa “rete delle reti” ha rivoluzionato il modo di comunicare su scala globale, offrendo un eccezionale strumento per la circolazione di informazioni e per l’attivazione di reti di connessione, soprattutto a partire dagli anni Novanta, con la diffusione dei telefoni cellulari e del Gps (Global Positioning System), il sistema di posizionamento tramite i satelliti spaziali. Così Internet è diventato specchio e veicolo della globalizzazione.
Nonostante gli indubbi vantaggi comunicativi della “rete”, intorno a Internet si è sviluppato un acceso dibattito pubblico che riguarda la possibilità di disciplinarne l’uso in nome della pubblica sicurezza. In particolare, negli Stati democratici si è posto il problema di sorvegliare o chiudere siti che mettano in circolazione materiale propagandistico finalizzato al terrorismo, o che fungano addirittura da base organizzativa di atti criminali. La censura esercitata dai regimi dittatoriali si è spinta a limitare la libertà “in rete”, ostacolando l’accesso a tutta una serie di siti ritenuti ostili o potenzialmente eversivi. Infine, si è cominciato ad affrontare il problema della estrema facilità con cui in rete si trovano e si diffondono le cosiddette “fake news” (false notizie), che nei casi più gravi possono condizionare importanti scelte personali, orientamenti politici e comportamenti elettorali.
L’interventismo “umanitario”
In politica estera la presidenza Clinton si distinse per il suo attivismo, volto a disinnescare i focolai di conflitto, come il Medio Oriente e l’ex Iugoslavia. Sul piano diplomatico, questo nuovo indirizzo politico produsse alcuni importanti risultati: l’avvio del processo di pace fra palestinesi e israeliani e la firma di un accordo fra Israele e Giordania. Al tempo stesso il presidente statunitense si ispirò al cosiddetto interventismo umanitario, all’idea cioè che la forza militare potesse essere funzionale a risolvere conflitti in cui erano direttamente esposte le popolazioni civili e a separare i contendenti attraverso truppe di interposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali. Nonostante spesso richiedessero vere e proprie azioni di guerra, le missioni così concepite erano presentate come operazioni di “polizia internazionale”.15.4 Le guerre nell’ex Iugoslavia e la Russia postsovietica
Una nuova mappa di Stati
La caduta dei regimi comunisti trascinò con sé le formazioni statali di tipo federale e multinazionale che essi avevano tenuto insieme, causando una radicale ristrutturazione della mappa geopolitica dell’Europa centrorientale e provocando una frammentazione politica che si riallacciava a quella seguita alla caduta degli imperi continentali nel primo dopoguerra [▶ cap. 4.2]. A differenza di quanto accadde nel periodo 1917-23, quando furono ridisegnati i confini fra gli Stati, nel 1991-93 i processi di secessione lasciarono invariate le frontiere delle diverse repubbliche che ora si consideravano nazionali e che fino ad allora avevano fatto parte di Stati federali come l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia.La guerra in Slovenia e Croazia
La dissoluzione dello Stato iugoslavo avvenne invece sotto il segno della violenza e degli scontri in nome delle diverse appartenenze nazionali e religiose [ 16]: una guerra civile fu combattuta a più riprese, fra il 1991 e il 2001, sui territori delle sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia), provocando oltre 100 000 morti e lo spostamento forzato di milioni di civili.La guerra in Bosnia-Erzegovina
Proprio mentre si stava concludendo la fase più cruenta della guerra in Croazia, si aprì un altro fronte in Bosnia-Erzegovina, dove la maggioranza musulmana della popolazione (dal 1995 bosgnacchi) si opponeva alle minoranze serba e croata (44 % di musulmani di Bosnia, 32% di serbi e 17% di croati). Nel febbraio del 1992, il presidente bosniaco Alija Izetbegović, sostenitore della convivenza pacifica in Bosnia dei tre gruppi nazionali e religiosi, indisse un referendum per l’indipendenza della Bosnia dalla Federazione iugoslava (ormai controllata dalla Serbia), fortemente voluto dalla maggioranza musulmana: la vittoria del fronte indipendentista aprì la strada allo scoppio della guerra civile. Infatti, i serbi di Bosnia, che boicottarono il referendum, si organizzarono nella Repubblica serba di Bosnia, che pretendeva di restare all’interno della Iugoslavia.
fenomeni
La pulizia etnica
Questo neologismo si è affermato in seguito alle guerre nell’ex Iugoslavia degli anni Novanta, anche se resta altamente controverso. Esso indica un insieme di pratiche coercitive e di forme di pressione violenta, materiale e psicologica, finalizzate a rimuovere un gruppo nazionale da un dato territorio per “ripulirlo”. Essa si distingue dal genocidio perché quest’ultimo mira all’eliminazione sistematica di tutti i componenti di un dato gruppo (sociale, nazionale, razziale, o definito sulla base di altri criteri). Tuttavia, alcuni storici tendono a definire il genocidio come una forma estrema di pulizia etnica.
Sulla base dell’esempio iugoslavo, gli studiosi hanno poi ripensato e ricostruito tutta una serie di altri fenomeni ed episodi che possono essere interpretati all’interno della categoria “pulizia etnica”. Per esempio, si è scoperto che espressioni analoghe come “epurazione etnica” o “pulizia del terreno” furono utilizzate dai fascisti rumeni e da quelli croati nel corso della Seconda guerra mondiale. I primi casi di pulizia etnica sono fatti risalire indietro nel tempo, addirittura fino agli assiri (IX-VIII secolo a.C.), o all’espulsione in età medievale degli ebrei dalla penisola spagnola (XV secolo). Tuttavia, i fenomeni moderni di pulizia etnica, volti alla formazione violenta di comunità omogenee, sono riconducibili alla costruzione degli Stati nazionali a partire dai territori dell’Impero ottomano tra Balcani e Anatolia, fra la seconda metà dell’Ottocento e il corso del Novecento, e sono poi stati esportati e adottati anche in Asia e in Africa.
La guerra per il Kosovo e la giustizia internazionale
L’ultimo capitolo delle guerre di dissoluzione iugoslave si consumò nel 1998-99 in Kosovo, la provincia meridionale della Repubblica serba, caratterizzata da una fortissima presenza albanese (musulmana) che aspirava all’indipendenza. Nell’inverno del 1998 le ricorrenti notizie di discriminazioni, quando non di veri e propri massacri, compiuti da unità regolari e paramilitari serbe a danno della popolazione kosovara suscitarono l’allarme internazionale. Il fallimento delle trattative, che si svolsero nel castello parigino di Rambouillet, condusse ai bombardamenti della Nato contro le forze serbe in Kosovo nel marzo 1999, pur senza un esplicito mandato dell’Onu, per l’opposizione di Russia e Cina. Di fronte al tentativo da parte delle unità serbe in Kosovo di compiere la pulizia etnica nei confronti degli albanesi locali, le forze aeree e missilistiche occidentali colpirono i centri del potere di Belgrado, con l’intento di sgretolare il regime di Milošević, ma provocando anche vittime tra la popolazione civile.Tensioni e conflitti nell’Europa postcomunista
Nei primi anni Novanta, in molti paesi ex comunisti dell’Europa orientale e nella Russia di Eltsin furono adottate politiche liberiste, che da un lato liquidavano il precedente sistema statalista attraverso massicci provvedimenti di privatizzazioni e liberalizzazioni delle proprietà collettive, dall’altro miravano a creare le condizioni per uno sviluppo sostenuto dell’economia. Questa “terapia shock”, soprattutto a causa della liberalizzazione dei prezzi e dunque dell’inflazione, ebbe l’effetto di acutizzare le diseguaglianze ereditate dai regimi precedenti e aggravate dalla loro crisi. I programmi di riforme elaborate attraverso la mediazione di consiglieri del Fondo monetario internazionale e di altre istituzioni mondiali erano ispirati alle ricette economiche adottate nei paesi dell’America Latina negli anni Ottanta. La fine dei regimi comunisti metteva a disposizione un enorme patrimonio di proprietà statale, di cui si appropriarono rapidamente le nuove élite economiche.15.5 La nuova integrazione europea
Dal Trattato di Maastricht all’euro
Nel contesto della fine della Guerra fredda, il processo di integrazione europea [ 21] e quello di unificazione tedesca si incrociarono e si rafforzarono a vicenda. La Francia del presidente Mitterrand infatti accettava a malincuore l’idea di una nuova Germania unita e, per distogliere il cancelliere tedesco Kohl dalla tentazione di imporre una nuova egemonia sull’Europa centrale, lo impegnò in un processo di integrazione sempre più vincolante, a partire dalla costruzione di una moneta comune. Gli alti costi dell’unificazione della Germania furono sostenuti con un aumento dei tassi di interesse, che era funzionale a contenere l’inflazione e a garantire nuovi investimenti: perciò il marco tedesco continuò a essere la moneta nazionale più solida nel panorama europeo e costituì il modello per l’euro, la futura valuta comune europea.Nella città olandese di Maastricht, nel febbraio 1992, dodici paesi della Comunità economica europea firmarono un trattato che sancì l’obbligo di convergere su una serie di parametri economici e finanziari ispirati dalla politica di rigore delle istituzioni bancarie tedesche: bassa inflazione, valuta stabile, deficit ridotto al minimo. Questo atto decretò anche la fine della Cee e la nascita dell’Unione Europea. Non aderirono invece al Trattato di Maastricht Regno Unito e Danimarca. Nel 1995 entrò in vigore il Trattato di Schengen [▶ cap. 14.4], che abolì i controlli presso le frontiere e consentì la libera circolazione di persone, merci e capitali tra i paesi membri. La Norvegia e l’Islanda diventarono parte dell’area Schengen, pur senza aderire all’Unione Europea, mentre Irlanda e Regno Unito non vi aderirono, nonostante facessero parte della Ue. Il successivo Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997) cercò di dare maggiore sostanza al processo di definizione di una politica estera comunitaria e di una cittadinanza sociale e politica europea. Dal 1° gennaio 2001 entrò in vigore l’euro, che sostituì le valute nazionali realizzando lo spazio monetario comune dei paesi che vi avevano aderito.
Tony Blair e la “terza via”
Nel corso degli anni Novanta si aggravò la crisi dei modelli di Stato sociale iniziata nel decennio precedente, che scaturiva dal declino demografico e dal rallentamento economico del vecchio continente [▶ cap. 14.4]. Al tempo stesso, la caduta dei regimi comunisti fu intesa come la sconfitta storica del “socialismo” e dell’idea di Stato che ne conseguiva, per cui sembrò incrinata la legittimità di ogni progetto politico fondato sull’intervento statale in economia. Risultava così sollecitata la ricerca di una “terza via”, tra il socialismo ormai sconfitto e la pura e semplice accettazione del “neoliberismo”. In un contesto internazionale in cui l’elezione del democratico Bill Clinton alla Casa Bianca conferì slancio a questa ricerca, si collocò l’azione di Tony Blair, eletto leader del Partito laburista nel 1994. Blair si propose di rinnovare il partito, accantonando ogni vincolo ideologico con la tradizione socialista e cancellando la clausola della nazionalizzazione dell’economia che dal 1918 contraddistingueva il programma laburista.
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi