15.1 Crisi e riforme in Unione Sovietica ed Europa orientale

Per riprendere il filo…

Se alla metà degli anni Settanta il comunismo appariva sulla via del trionfo in tutto il mondo al cospetto di un Occidente in declino, intorno alla metà degli anni Ottanta le parti si erano rovesciate. L’Unione Sovietica, dominata da una classe dirigente invecchiata, si dibatteva in una crisi senza vie d’uscita. Il Regno Unito della Thatcher e gli Stati Uniti di Reagan avevano in diverso modo rilanciato l’economia di mercato, superando le politiche e i sistemi del Welfare State che erano entrati in crisi già negli anni Settanta, anche a causa del crollo della natalità e dell’invecchiamento della popolazione occidentale. In un clima di recrudescenza della Guerra fredda, alimentata dall’intervento sovietico in Afghanistan e dalla crisi dei missili, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, grazie all’iniziativa franco-tedesca, in Europa si rafforzavano i processi di integrazione, intesi a dar vita alla Comunità europea.

15.1 Crisi e riforme in Unione Sovietica ed Europa orientale

Glasnost perestrojka
L’Unione Sovietica era retta da una classe dirigente ormai vecchia e incapace di cogliere le esigenze di una società paralizzata dalla stagnazione della produzione e dall’assenza di iniziativa politica e al contempo afflitta dalla piaga dell’alcolismo. Il sistema industriale, indirizzato soprattutto alla produzione di armi a scapito dei beni di consumo, faceva sempre più fatica a sostenere la corsa agli armamenti iniziata dagli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan [▶ cap. 14.4]. Gli enormi quantitativi di risorse richiesti dall’industria militare sovietica aumentarono durante la crisi missilistica del 1983, gravando in maniera ormai insostenibile sull’economia del paese; al contempo, mentre il divario tecnologico con l’Occidente, dove negli anni Ottanta aveva preso le mosse la “rivoluzione digitale” [▶ cap. 14.4], si faceva sempre più incolmabile. Tuttavia, il collasso del blocco sovietico, che avrebbe coinvolto in successione i paesi dell’Est Europa e la stessa Urss, colse di sorpresa la maggior parte degli osservatori e commentatori occidentali e fu il frutto di una sequenza di eventi improvvisa e imprevista.
Nel marzo 1985 Michail Gorbačev fu eletto segretario generale del Partito comunista sovietico; poco più che cinquantenne, durante il suo mandato cercò di ringiovanire la classe dirigente e avviare una politica di riforme, attraverso le parole d’ordine glasnost (“trasparenza”) e perestrojka (“ricostruzione”). Egli era ispirato dagli ideali socialisti umanitari tipici della generazione poststaliniana, che guardava con particolare favore alla fase della Nep [▶ cap. 3.5], pur senza mettere in discussione le strutture collettiviste imposte da Stalin. Sprovvisto di un disegno politico preciso, Gorbačev mirava a distendere le relazioni internazionali così da ridurre le spese per gli armamenti e lanciare la produzione di beni di consumo; al tempo stesso, sperava di sfruttare le liberalizzazioni interne per accreditarsi presso i suoi interlocutori internazionali. Il primo summit tra Reagan e Gorbačev avvenne a Ginevra (1985) senza approdare a risultati significativi, ma lasciando intravvedere un nuovo clima di collaborazione. Nel successivo vertice di Reykjavík (1986) furono infatti poste le basi per l’accordo, siglato a Washington l’anno dopo, per l’eliminazione dei missili nucleari a media gittata, sancendo la fine della crisi degli euromissili [▶ cap. 14.5] che aveva esasperato le tensioni fra le superpotenze negli anni precedenti [ 1].

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L’incidente nucleare di Černobyl
 Una spia del grave stato di decomposizione tecnologica e industriale del paese fu l’incidente presso la centrale nucleare di Černobyl (Ucraina) nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1986. L’esplosione del reattore numero 4 della centrale sprigionò nell’aria un quantitativo di radioattività superiore a quello, congiunto, delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. La censura sovietica cercò di nascondere per alcuni giorni l’entità dell’accaduto, ma a fronte dell’abnorme livello di radioattività che fin dalla sera del 26 aprile si cominciò a misurare in Scandinavia fu impossibile negare l’evidenza della catastrofe [ 2]. Con grave ritardo, nelle repubbliche sovietiche più direttamente coinvolte (l’Ucraina e la Bielorussia), fu proclamato lo stato d’emergenza, mentre i militari prendevano in consegna le operazioni di soccorso. Il numero di morti causati direttamente dall’esplosione è sconosciuto poiché le informazioni a riguardo minimizzarono le perdite ad alcune decine, ma si stima che, negli anni successivi, diverse migliaia di persone morirono per tumori causati dall’esposizione eccessiva alle radiazioni e altrettante furono quelle affette da malformazioni e malattie.
In tutta l’Europa settentrionale e centrale presto si propagò l’allarme, che spinse a bandire il consumo di frutta, ortaggi e carni potenzialmente contaminati dalle radiazioni attraverso le piogge provenienti da est. Il disastro rafforzò la nuova presa di coscienza ecologista che si tradusse in movimenti contro l’energia nucleare in Europa occidentale, soprattutto in Italia [▶ idee].
Opposizioni e conflitti
La glasnost, ovvero la maggiore trasparenza nella diffusione delle notizie e nell’allentamento della censura di Stato voluta dal nuovo segretario del Pcus, consentì una più libera circolazione delle informazioni, aprendo squarci di verità sullo stato economico e sociale dell’Unione Sovietica. Il dibattito relativamente libero dell’opinione pubblica da una parte amplificò il malcontento, che si traduceva in scioperi e proteste nella speranza di un profondo rinnovamento; dall’altra ridimensionava di fatto il monopolio del potere da parte del Partito comunista, ampliando il fronte di opposizione dei conservatori all’interno del partito, che alimentava le incertezze di Gorbačev e moltiplicava le difficoltà dei riformatori.

In questo contesto di crescente tensione e instabilità cominciò ad emergere la questione russa. Infatti, la Repubblica socialista federativa sovietica russa, pur rappresentando il centro dell’Urss e la nazionalità che occupava i principali ruoli di comando, a livello formale aveva accettato uno statuto inferiore rispetto agli altri popoli in quanto era priva di una propria sezione del partito e di una propria capitale.

Le rivendicazioni di maggiore autonomia che si diffusero nelle repubbliche sovietiche periferiche diedero origine a movimenti che cominciavano ad agitare la bandiera del nazionalismo per contestare il centro sovietico, caratterizzato da un forte impulso alla russificazione e dalla concentrazione dei poteri a Mosca.

Dal 1988 nel Caucaso, già sconvolto dalle deportazioni durante la Seconda guerra mondiale [▶ cap. 9.9], si acuirono le tensioni nazionaliste e le spinte separatiste. Il Nagorno-Karabach, enclave armena all’interno dell’Azerbaigian, fu un focolaio di gravi tensioni e scontri tra armeni (cristiani) e azeri (musulmani). La guerra, che provocò l’esodo di più di 200 000 armeni e di oltre 800 000 azeri, durò fino al 1994 e non è ancora stata conclusa la pace [ 3].

  idee

Ecologia e politica

A partire dagli anni Settanta, con la trasformazione delle tradizionali culture di sinistra, legate al mondo del lavoro, al movimento operaio e alle forze socialiste e comuniste, emerse una nuova sensibilità per la difesa dell’ambiente naturale. Questa scoperta dell’ecologia diventò parte della “nuova sinistra”, anche se, agli elementi progressisti, attenti agli equilibri complessivi dei processi di modernizzazione, tendevano talvolta ad intrecciarsi elementi reazionari, cioè ostili allo sviluppo tecnologico per il suo impatto ambientale.

L’ambientalismo si fece strada soprattutto con l’affermazione dei movimenti antinucleari nei primi anni Ottanta, in concomitanza con la crisi degli euromissili. Il Partito dei Verdi fu fondato in Germania occidentale nel 1980, associando alla battaglia per l’ambiente quella per la disobbedienza civile, per il disarmo nucleare, per la pace. Sull’onda dell’impatto della catastrofe alla centrale nucleare di Černobyl (Ucraina), i movimenti ecologisti raccolsero e moltiplicarono i loro consensi, schierandosi contro il ricorso all’energia atomica per il fabbisogno civile e industriale. In Italia il Partito dei Verdi, fondato nel 1985, si impegnò nella campagna referendaria contro la costruzione di centrali nucleari in Italia, in cui il “no” si affermò nettamente nella consultazione del 1987.

Oggi la sensibilità ecologista, nutrita anche dall’allarme per il cambiamento climatico (a partire dall’effetto serra), è diventata un patrimonio più diffuso nell’opinione pubblica e nella classe dirigente dei paesi più industrializzati, anche se non mancano opinioni e correnti divergenti. Nel 1992 la Conferenza di Rio de Janeiro è stata la prima riunione mondiale dei capi di Stato sui temi dell’ambiente.

15.2 Le transizioni e le trasformazioni del 1989-91

Le agitazioni polacche
La glasnost e la perestrojka suscitarono diffidenza nei partiti comunisti dell’Europa orientale, che temevano di veder compromessi i propri privilegi dal nuovo corso moscovita. Anche se, formalmente, non era ancora stata accantonata la dottrina Brežnev [▶ cap. 12.4] (che prevedeva il coinvolgimento degli eserciti del Patto di Varsavia per sedare le rivolte locali contro i regimi dei paesi satellite), di fatto l’indisponibilità dell’Urss a intervenire militarmente rendeva più fragile il già impopolare potere dei partiti comunisti del blocco sovietico. In questo quadro, in cui i regimi comunisti dell’Europa orientale constatarono la rinuncia di Mosca all’uso della forza, si avviò la sequenza di trasformazioni e transizioni nell’estate-autunno del 1989, garantendone al tempo stesso il minimo spargimento di sangue.
Nel corso degli anni Ottanta, in Polonia, sotto la cappa dello stato di guerra proclamato da Jaruzelski [▶ cap. 14.5], il sindacato Solidarność e la Chiesa cattolica avevano proseguito clandestinamente le attività di opposizione allo screditato regime comunista. L’economia, piegata dal debito estero e dall’inflazione, era incapace di soddisfare le richieste della popolazione. Dalla fine del 1988 fu costituito un Comitato civico di Solidarność che intraprese negoziati su larga scala con il governo, il quale superò la riluttanza a riconoscere l’opposizione, convocando elezioni politiche parzialmente libere. Nello stesso giorno in cui, fra il 3 e il 4 giugno 1989, a Pechino veniva repressa nel sangue la rivolta degli studenti, in Polonia si tennero le elezioni che mettevano in palio la totalità dei seggi del Senato, appena ricostituito, e una parte dei seggi della Camera. L’inaspettata e trionfale vittoria di Solidarność [ 4], che conquistò 99 seggi su 100 al Senato e 160 seggi sui 161 eleggibili alla Camera (gli altri 299 erano riservati al Partito comunista e ai suoi partiti satelliti), aprì la strada a un governo guidato da Tadeusz Mazowiecki. Questi era un giornalista e politico cattolico che, dopo una fase di supporto al regime comunista, era sempre rimasto all’opposizione diventando dal 1981 caporedattore del settimanale di Solidarność. Il nuovo governo, la cui composizione accoglieva esponenti del vecchio regime e i neoeletti del sindacato cattolico, avviò riforme che aprivano alla liberalizzazione e all’economia di mercato. L’evento alimentò le speranze dei democratici dell’Europa orientale, suscitando un’ondata travolgente in tutto il blocco sovietico.

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La transizione ungherese e il crollo tedesco orientale
In Ungheria, dove le riforme economiche avevano consentito alcuni progressi [▶ cap. 14.5], erano state avviate trattative per un rinnovamento, che furono accelerate dalla morte nel luglio 1989 di János Kádár, segretario generale del Partito socialista operaio ungherese dal 1956 al 1988 e di fatto capo del regime comunista per oltre trent’anni. La sua morte sancì la fine del regime: furono indette libere elezioni multipartitiche e fu abolito il ruolo guida del Partito comunista, che tuttavia continuò a svolgere una parte decisiva nel processo di transizione. Quindi, fra agosto e settembre, l’Ungheria smantellò la cortina di ferro [ 5] e aprì le frontiere attraendo migliaia di tedeschi della Repubblica democratica tedesca che si rifugiarono nelle ambasciate dei paesi occidentali presenti in Ungheria prima di raggiungere l’Austria e poi la Repubblica federale tedesca.

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Infatti, proprio nel quarantesimo anniversario della sua fondazione, la Rdt si avvicinava al collasso: la sua dirigenza, guidata da Erich Honecker, era contestata da ricorrenti manifestazioni delle associazioni pacifiste e religiose, oltre a essere messa sotto pressione dal flusso di profughi diretto verso occidente. Il mancato appoggio sovietico sventò la minaccia della repressione violenta delle manifestazioni e determinò, nell’ottobre 1989, le dimissioni forzate di Honecker. Il 4 novembre si svolse in Alexander Platz, nel cuore di Berlino Est, un’imponente manifestazione in nome dello slogan “Noi siamo il popolo”, contro un regime che sembrava ormai prossimo a cadere. La svolta avvenne il 9 novembre, quando il ministro della Propaganda Günter Schabowski annunciò, in modo abbastanza inaspettato, la cessazione immediata di ogni limitazione per i viaggi all’estero. Quella sera, e poi nei giorni successivi, centinaia di migliaia di berlinesi, da est e da ovest, presero d’assalto il Muro, di fronte a guardie ormai inermi, e cominciarono ad abbatterlo, per poi transitare liberamente da una parte all’altra della città [ 6].
Le diverse rivoluzioni di Praga e di Bucarest

In Cecoslovacchia un regime repressivo continuava a chiudere ogni prospettiva di rinnovamento, mantenendo un controllo pressoché completo sulla società, isolando e perseguitando il pugno di intellettuali dissidenti raccolti intorno al drammaturgo Vaclav Havel. Il 17 novembre 1989 la polizia intervenne contro un corteo di studenti che cantavano slogan anticomunisti, ma la repressione si ritorse stavolta contro lo stesso Partito comunista, suscitando proteste sempre più vaste nel paese, che costrinsero infine il ▶ Presidium del partito a rassegnare le dimissioni. Havel, insieme al leader riformista del 1968 Alexander Dubček [▶ cap. 12.4], organizzò un Forum civico che si pose alla testa del cambiamento democratico, con la richiesta del ripristino dello Stato di diritto e con la convocazione di libere elezioni. Sotto la pressione di continue manifestazioni, il 29 novembre fu abolito il monopolio del potere comunista e qualche giorno dopo il segretario generale del Partito Gustav Husak fu costretto a dimettersi. Trionfò così la cosiddetta “rivoluzione di velluto” [ 7], una fuoriuscita rapida e pacifica dal comunismo che portò Havel alla presidenza della Repubblica cecoslovacca.

Ben diversa era la situazione della Romania, uno dei paesi più arretrati del blocco comunista, chiuso in un’ideologia nazionalstalinista, presidiato dalla Securitate (la polizia politica) agli ordini del dittatore Nicolae Ceausescu. Lo Stato rumeno era piegato dalla mortalità infantile, dall’indisponibilità di beni di consumo e dalla politica di rigore finanziario, con cui era stato ripagato il debito nei confronti del Fondo monetario internazionale [▶ cap. 14.5]. In Transilvania, regione rumena a forte presenza ungherese, nel dicembre 1989 si scatenarono le prime proteste contro il regime sotto la guida del pastore calvinista László To˝kés, ma furono represse dalla polizia. Il veloce incrinarsi del potere di Ceausescu creò una spaccatura all’interno del Partito comunista e delle forze armate, che portò alla formazione di un Fronte di salvezza nazionale avverso al regime. Gli scontri tra le forze fedeli al dittatore e i ribelli provocarono oltre mille morti e si conclusero con l’arresto di Ceausescu, assieme alla moglie Elena, e con la loro esecuzione il pomeriggio di Natale, dopo un processo sommario [ 8]. A differenza degli altri paesi del blocco orientale, in Romania la transizione al postcomunismo assomigliò a un colpo di Stato, che garantì continuità di potere a molti uomini dell’ex regime, raccolti intorno al Fronte di salvezza nazionale.

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La fine della Guerra fredda e l’unificazione della Germania
Se la fine dei regimi comunisti segnò di fatto la conclusione della Guerra fredda e della divisione dell’Europa, la caduta inattesa del Muro di Berlino pose la questione dell’unificazione della Germania. Dopo l’apertura dei confini nel novembre 1989, proseguì l’esodo da est verso ovest dei cittadini della Rdt, che erano attratti dal modello di vita occidentale e non sembravano più disposti a sostenere la divisione in due Stati della Germania. Lo slogan “Noi siamo il popolo”, che aveva animato le manifestazioni contro Honecker, si modificò in Noi siamo un popolo, intendendo naturalmente quello tedesco. Il contesto internazionale però era tutt’altro che favorevole all’unificazione; per ragioni diverse, la premier inglese Margaret Thatcher, il capo di Stato francese François Mitterrand e il presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti erano contrari alla creazione di una Germania unita: si temeva in particolare che l’unificazione tedesca potesse riproporre la questione del nazionalismo tedesco e, al tempo stesso, che finisse per travolgere lo sforzo riformatore in Unione Sovietica.
Tuttavia, nel febbraio 1990 Gorbačev, alle prese con crescenti difficoltà interne approvò il processo di unificazione tedesca, a patto che si svolgesse al di fuori della cornice della Nato, nella speranza di consolidare il proprio consenso all’estero. A sostenere la politica unitaria del cancelliere della Germania Ovest, il cristiano democratico Helmut Kohl, figuravano soprattutto gli Stati Uniti, anche se l’amministrazione del presidente americano George Bush era convinta della necessità di un consenso generalizzato a livello internazionale. Le elezioni nella Germania Est del marzo 1990, che videro la vittoria dei cristiano democratici, furono intese come un tacito via libera al processo di unificazione. In tal senso, nel luglio 1990 fu compiuto un passo decisivo, con la costituzione di un’unione monetaria ed economica basata sull’estensione del marco alla Germania Est. Dopo che il parlamento della Rdt aveva approvato l’annessione alla Rft, l’unificazione della Germania, preparata da colloqui tra le potenze che avevano controllato il principale paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale, fu ufficialmente celebrata il 3 ottobre 1990 [ 9].

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Per favorire la transizione nel paese unificato e per conquistare la fiducia dei cittadini della Germania orientale in nome della prosperità, la Germania Ovest fece confluire nell’economia dell’ex Stato socialista ingenti finanziamenti. Questi servirono anche a nascondere i gravi problemi strutturali, le disfunzioni economiche e il disagio sociale che continuavano a segnare le regioni dell’ex Rdt. Negli anni successivi si sviluppò infatti un senso di nostalgia per il passato di uno Stato dittatoriale, che, seppur responsabile del disastro economico-sociale, aveva però nutrito nella popolazione un senso di appartenenza collettivo, grazie alla retorica socialista che prometteva l’abbattimento delle distinzioni di classe e la creazione di una società più equa.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica
Gorbačev, sempre più accreditato come promotore di un nuovo “socialismo dal volto umano”, carico di valori etici, cominciava a essere più popolare all’estero che in patria: nel dicembre 1989 incontrò papa Giovanni Paolo II a Roma. Poi, nell’estate del 1990, cercò di stringere i rapporti con Bush e con Kohl e di aderire alla politica di collaborazione per una nuova Europa.

Intanto la situazione economica interna precipitava: il valore dei redditi crollava, saliva l’inflazione, si allungavano le file di persone di fronte ai negozi, ormai privi di merci. Il governo cercò di rispondere alla crisi lanciando il cosiddetto “programma dei 500 giorni”, che doveva introdurre forti elementi di liberalizzazione e privatizzazione, ma ne fu poi adottata una versione più moderata e alla prova dei fatti inefficace. Le elezioni del 1990, le prime democratiche dal 1917 nella Repubblica sovietica russa, conferirono una nuova legittimazione al parlamento russo e fecero emergere la personalità del democratico radicale Boris Eltsin, che subito esacerbò la sua rivalità con Gorbačev. Di conseguenza, la proclamazione della sovranità della Repubblica sovietica russaseguita dalla costituzione di un Partito comunista russo e dalla rivendicazione del pieno controllo delle risorse naturali, aprì una fase di doppio potere.

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Inoltre, l’esempio dei paesi dell’Europa orientale e il ripudio ormai evidente dell’uso della forza da parte sovietica incoraggiarono le velleità indipendentiste delle altre repubbliche (Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia, Uzbekistan, Moldavia, Ucraina e Bielorussia). Solo i paesi baltici giunsero, tra il marzo e il maggio 1990, alle proclamazioni d’indipendenza, che furono poi congelate per avviare trattative con le autorità centrali. Tuttavia, nel gennaio 1991, l’Unione Sovietica tentò di schiacciare il separatismo lituano con l’invio di forze speciali a Vilnius, ma la sollevazione popolare in difesa degli organi istituzionali lituani sancì l’impraticabilità della repressione per soffocare la volontà indipendentista delle repubbliche baltiche.
Di fronte al precipitare degli eventi, sotto la spinta delle correnti più oltranziste del Pcus, Gorbačev scelse la strada del referendum per rifondare l’Urss su nuove basi, più centralizzate. Non si trattava più tanto di rinnovare il sistema socialista, quanto di garantire l’unità e la sopravvivenza stessa dello Stato: in questo senso, i riformatori presero una piega conservatrice. Intanto Eltsin, che, nonostante una campagna contraria di Gorbačev, vinse le prime elezioni per la Repubblica sovietica russa nel giugno 1991, cominciò ad appoggiare le istanze indipendentiste delle altre repubbliche. Di conseguenza, si crearono parziali aperture occidentali verso Eltsin, nonostante gli Stati Uniti continuassero a sostenere Gorbačev e la sua politica di riforma dell’Unione Sovietica. Le trattative avviate dalle principali repubbliche e dal centro sovietico portarono, a giugno, alla firma di un nuovo accordo federale, ma intanto cresceva l’ostilità dei conservatori verso ogni forma di compromesso che attribuisse più potere alle repubbliche.
Il colpo di Stato a Mosca e la fine dell’Urss
Per fermare il processo riformatore avviato con la perestrojka e per impedire le trasformazioni delle istituzioni dell’Unione Sovietica, la mattina del 19 agosto 1991, mentre Gorbačev era in vacanza nella sua residenza in Crimea, un gruppo di cospiratori appartenenti ai vertici dello Stato, espressione di ambienti conservatori del Partito comunista sovietico, proclamò lo stato di emergenza, destituendo di fatto Gorbačev e costringendolo agli arresti domiciliari. Mentre fu subito evidente l’impreparazione tecnica e il disorientamento politico dei golpisti, Eltsin si pose a capo dell’opposizione e chiamò alla resistenza popolare contro i carri armati [ 10]. Di fronte a questa sfida, sostenuta dalla partecipazione di grandi folle nelle strade di Mosca, e di fronte al sostegno solo parziale degli organi di sicurezza e delle forze armate, i leader del comitato d’emergenza dovettero arrendersi. Dopo una notte di scontri intorno al parlamento russo, fra il 20 e il 21 agosto,il golpe fallì e Gorbačev ritornò in aereo a Mosca.

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I rapporti di forza fra Eltsin e Gorbačev erano ormai rovesciati: le prospettive della perestrojka, ossia di una riforma del sistema sovietico, apparivano svanite e il Partito comunista sovietico si sciolse formalmente alla fine di agosto. Intanto si moltiplicavano le spinte alla disgregazione dell’Unione con la proclamazione dell’indipendenza delle repubbliche, che seguirono l’esempio dei paesi baltici. Era un processo suscitato non tanto da un “ritorno del nazionalismo”, quanto dall’esigenza di trovare un ordine statale alternativo a quello sovietico. Mentre l’Unione era ormai ridotta a uno scheletro senza sostanza, l’8 dicembre a Belaveža (vicino a Brest, in Bielorussia), Russia, Ucraina e Bielorussia istituirono la Comunità degli Stati indipendenti (Csi), che, in un successivo incontro ad Alma-Ata (oggi Almaty, in Kazakistan), il 21 dicembre fu estesa alle repubbliche dell’Asia centrale. La sera del 25 dicembre, con un discorso televisivo, Gorbačev annunciò le dimissioni dalla propria carica di presidente e lo scioglimento dell’Unione Sovietica [▶ FONTI, p. 624]: per quanto fallimentare, il suo tentativo di riforma e di transizione verso un sistema democratico impedì che la fine dell’Urss si trasformasse in una guerra civile.

Transizioni e traformazioni nel blocco sovietico

Paese

Eventi/protagonisti

Anno

Polonia

• Movimento Solidarność

• Tavola rotonda

• Governo di Mazowiecki

• Liberalizzazioni

febbraio-giugno 1989

Ungheria

• Morte di Kádár

• Abolizione del Partito comunista

• Elezioni multipartitiche

luglio-settembre 1989

Germania Est

• Manifestazioni antiregime

• Dimissioni di Honecker

• Caduta del Muro di Berlino

• Unificazione tedesca

ottobre 1989-ottobre 1990

Cecoslovacchia

• Forum Civico

• Abolizione del Partito comunista

• Vaclav Havel presidente della Repubblica cecoslovacca

novembre-dicembre 1989

Romania

• Scontri armati a Timisoara e Bucarest

• Fronte di Salvezza nazionale

• Esecuzione di Ceausescu

dicembre 1989

Unione Sovietica

• Elezione di Eltsin a presidente russo

• Fallito colpo di Stato

• Comunità Stati indipendenti

• Dimissioni Gorbačev

giugno-dicembre 1991

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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