1.6 Le trasformazioni italiane: l’età giolittiana (1903-14)

1.6 Le trasformazioni italiane: l’età giolittiana (1903-14)

Giolitti e l’ambivalente apertura democratica
Negli ultimi anni dell’Ottocento, l’Italia aveva attraversato una stagione di crisi e di conflitti politici e, con i governi di fine secolo, il paese aveva rischiato una svolta autoritaria. Con l’inizio del Novecento si aprì una nuova fase di sviluppo sociale ed economico e di riforme politiche. 

La figura dominante in questi anni fu quella del liberale progressista Giovanni Giolitti, uomo politico piemontese, formatosi nella pubblica amministrazione. Egli aveva compiuto una breve ma significativa esperienza come presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1893, all’epoca di Francesco Crispi, dal quale aveva preso le distanze per le politiche accentratrici e autoritarie di quest’ultimo. All’inizio del nuovo secolo, Giolitti fu ministro dell’Interno del governo Zanardelli (entrato in carica nel febbraio 1901) e, nel 1903, fu designato presidente del Consiglio [ 18]. Il governo guidato da Giuseppe Zanardelli, uno degli ultimi esponenti della Sinistra storica, segnò una prima, importante svolta rispetto alla crisi di fine secolo. Dalla società e dal mondo della cultura emergevano forze e movimenti nuovi e il contesto istituzionale, dopo aver respinto i tentativi di involuzione autoritaria, sembrava pronto ad aprirsi alle componenti riformiste del socialismo e alle istanze delle masse popolari.

Il governo presieduto da Giovanni Giolitti si fondò su una vasta ed eterogenea maggioranza che cercava di attrarre tanto i democratici radicali (ex esponenti dell’estrema sinistra riorganizzatisi nel Partito radicale) quanto la corrente riformista del Partito socialista (quella vicina a Turati). Prese così forma una sorta di “dittatura parlamentare” destinata a durare quasi un decennio, in cui Giolitti (che lasciò e riprese più volte la guida del governo) divenne l’elemento chiave del sistema politico italiano: il fronte che lo sosteneva, infatti, non si fondava tanto sull’adesione a un programma di governo definito, quanto sulla lealtà allo stesso Giolitti. In un certo senso, veniva proseguita e rinnovata l’antica prassi trasformistica, ossia la strategia di accordi e concessioni con cui consolidare la maggioranza governativa attraverso l’integrazione di forze politiche eterogenee, propria dei governi della Sinistra storica. Le elezioni, tra l’altro, continuarono a essere manipolate dal governo, soprattutto nei collegi meridionali, attraverso l’azione dei prefetti e la pressione dei  notabilati, che godevano dell’appoggio della criminalità locale e che orientavano il voto con promesse e velate minacce. Per questa ragione, lo storico e politico socialista Gaetano Salvemini – una delle più autorevoli e vigorose voci critiche verso il sistema giolittiano – ribattezzò Giolitti il “ministro della malavita” [ 19].
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L’obiettivo generale di Giolitti era però diverso da quello dei governi di fine Ottocento, poiché mirava ad aprire la partecipazione politica in senso democratico, senza compromettere gli equilibri sociali. In quest’ottica, egli perseguì una significativa politica di riforme, sebbene questa fosse in parte ereditata dai governi precedenti e comunque non inserita in un disegno organico. In particolare, Giolitti varò misure per la statalizzazione delle ferrovie, leggi speciali per stimolare lo sviluppo agricolo e industriale in Calabria, Sicilia e Sardegna, oltre a provvedimenti per migliorare le condizioni di lavoro di donne e fanciulli con una prima disciplina dell’orario (12 ore) e dell’età minima (12 anni); in questi anni fu anche approvata la legge per il controllo statale della scuola elementare. Nel 1911, tornato alla guida del paese dopo una nuova interruzione della sua esperienza di governo, Giolitti propose e ottenne il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita (istituendo l’Ina, Istituto nazionale assicurazioni), e una legge elettorale per l’estensione del suffragio maschile, che allargava il corpo dei votanti da 3 a circa 8,5 milioni di cittadini (dal 7% al 23% della popolazione totale).

Socialisti e cattolici
Tra le forze protagoniste della scena politica di questi anni vi era il Partito socialista italiano (Psi), fondato a Genova nel 1892 e legato alla Seconda Internazionale. Al suo interno coesistevano correnti e orientamenti divergenti: dal riformismo, che ambiva a trasformare la società in senso socialista attraverso riforme graduali, nel rispetto della legalità parlamentare, al massimalismo rivoluzionario, che mirava a realizzare il “programma massimo” – il socialismo – in tempi brevi, anche attraverso l’impiego di mezzi violenti. La figura più autorevole del socialismo italiano era Filippo Turati (1857-1932), politico milanese di orientamento riformista. Il Congresso socialista del luglio 1912, tenutosi a Reggio Emilia, sancì però il prevalere della corrente massimalista, all’interno della quale emerse la figura di Benito Mussolini, diventato, a  trent’anni, direttore del quotidiano socialista Avanti! . Sotto la sua influenza, nel Psi si diffusero sempre più posizioni insurrezionaliste, che miravano apertamente a sovvertire le istituzioni liberali  [ 20].

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Nel mondo cattolico, intanto, continuavano a pesare i contrasti del 1870-71 fra lo Stato italiano e lo Stato pontificio. Per i cattolici vigeva ancora il principio di astensione dalla vita pubblica (non expedit) decretato da Pio IX dopo la presa di Roma (1870), anche se, nelle elezioni del 1904 e del 1909, Pio X aveva concesso eccezioni per i collegi in cui il voto cattolico avrebbe potuto scongiurare l’affermazione di deputati socialisti. Inoltre, grazie soprattutto al movimento modernista (favorevole a un rinnovamento del cattolicesimo e diffusosi fra Ottocento e Novecento), si erano avuti i primi tentativi di avvicinare il cattolicesimo alla società moderna: fu in quest’ambito che si sviluppò una corrente sociale e politica (la Lega democratica nazionale), guidata dal sacerdote Romolo Murri, che aspirava a conciliare la pratica democratica con l’esperienza religiosa. Il modernismo fu condannato nel 1907 da papa Pio X con l’enciclica Pascendi e Murri fu scomunicato nel 1909.

Il Patto Gentiloni e le elezioni del 1913
Nel 1913 si svolsero le prime elezioni politiche dopo l’estensione del suffragio; Giolitti, per contrastare la crescita del Partito socialista, prevista come inevitabile, e riprendendo su scala più ampia una strategia elettorale già sperimentata nelle due elezioni precedenti, decise di stringere un accordo con il rappresentante dell’Unione elettorale cattolici italiani, il conte Vincenzo Gentiloni. Con il cosiddetto patto Gentiloni, oltre duecento candidati liberali cercarono di garantirsi, a livello locale, il voto dei cattolici in chiave antisocialista, promettendo la difesa della scuola cattolica e, in generale, dei valori cristiani. Rispetto al non expedit si trattava di una svolta importante, che consentiva ai cattolici di avvicinarsi alle istituzioni liberali. La maggioranza liberal-democratica, leale a Giolitti, ottenne 270 deputati, mentre i socialisti si fermarono a 52. Nonostante il successo elettorale del governo, però, Giolitti fu sostituito da Antonio Salandra nel maggio del 1914, sotto la pressione della crescente conflittualità sociale. Immaginato come un avvicendamento temporaneo, questo passaggio della guida del paese alle forze liberali conservatrici durò invece a lungo, allontanando Giolitti dal governo sino alla fine della Grande guerra, che scoppiò nell’estate dello stesso anno.

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La cultura antigiolittiana
Mentre si dispiegava l’esperienza politica e di governo di Giolitti, le critiche di Salvemini al “sistema giolittiano” non rimasero affatto isolate. Nel primo decennio del secolo fiorì anzi in Italia una cultura che, pur varia ed eterogenea, era accomunata da una dichiarata e spregiudica ostilità al giolittismo.

In quest’ambito presero vigore correnti di pensiero che si opponevano alla fiducia ottocentesca negli strumenti conoscitivi del positivismo, come lo spiritualismo e l’irrazionalismo, e al tempo stesso alimentavano posizioni antiliberali e antiparlamentari, le quali mettevano in discussione i processi italiani di democratizzazione delle istituzioni e della vita politica. A Napoli il filosofo Benedetto Croce elaborò il neoidealismo, a Firenze si affermarono gruppi di intellettuali autodidatti, spesso legati a riviste e periodici – come La Voce di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini –, che sfidavano la politica in nome della “rivoluzione antigiolittiana”. Si trattava di orientamenti culturali spesso imbevuti di un veemente nazionalismo [▶ fenomeni], che non mancavano di sostenere progetti imperialisti, come nel caso di Enrico Corradini, o di esaltare apertamente la guerra quale strumento di rinnovamento radicale, come nel caso di Filippo Tommaso Marinetti. Quest’ultimo fondò nel 1909 a Milano il futurismo, movimento artistico e culturale dalla forte carica iconoclastica, che irrideva violentemente i simboli e le convenzioni dell’ordine “borghese”. 

Il diverso sviluppo del Nord e del Sud
Sul piano economico, nel primo decennio del secolo la produzione industriale italiana aumentò a un ritmo intenso, superiore al 4-5%, trainata in particolare dalle città di Torino, Milano e Genova (il cosiddetto “triangolo industriale”) [ 21]. Giolitti proseguì le precedenti politiche protezioniste e perseguì l’intervento pubblico nella sfera economica, pur attento a seguire un programma di risanamento finanziario, anche promuovendo, come si è visto, una politica di  nazionalizzazione di alcuni servizi cruciali, come le ferrovie: le commesse statali per la produzione di treni e infrastrutture favorirono ulteriormente lo sviluppo industriale. Nonostante la promulgazione di leggi speciali per il Mezzogiorno, la conferma della politica dei dazi continuò a favorire i grandi latifondisti e, con essi, il permanere delle condizioni di grave arretratezza dell’agricoltura [ 22]. Tutto ciò contribuì ad aggravare la “ questione meridionale ”, accentuando lo squilibrio strutturale già esistente tra le regioni settentrionali e quelle del Centro-Sud.

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  fenomeni

Nazione e nazionalismo in Italia

Il primo vero movimento nazionalista organizzato in Italia, fondato da Enrico Corradini a Firenze nel 1910, fu l’Associazione nazionalista italiana (Ani), di cui fece parte anche il poeta Gabriele D’Annunzio. L’Ani si rese protagonista di violenti moti di piazza nel 1915, che volevano sollecitare l’ingresso italiano nella Grande guerra. Nel febbraio del 1923 l’Ani si fuse poi con il Partito nazionale fascista. Il nazionalismo italiano si definì, e per certi versi si definisce tuttora, attraverso un universo culturale e simbolico che immagina l’esistenza di una “nazione italiana” rappresentata da specifici caratteri, come la lingua italiana e la religione cattolica. Le sue radici sono ricondotte al Basso Medioevo o al Rinascimento, mentre il Risorgimento è considerato il momento della sua piena affermazione, grazie alla costruzione dello Stato unitario. Nel corso del Novecento, il discorso sulla nazione italiana si è combinato con diversi progetti politici, spesso tra loro opposti, come il liberalismo e il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pur con inevitabili contraddizioni, la nazione, infatti, costituiva la base d’azione e la fonte di legittimazione principale anche per movimenti politici che si riconoscevano nell’internazionalismo, inteso non tanto come negazione del quadro nazionale, quanto come suo superamento in una forma più alta di umanità e società.

Il nazionalismo italiano, tuttavia, perorò soprattutto la causa dell’espansione territoriale in nome della grandezza della nazione, contestò radicalmente i sistemi liberale e parlamentare, in quanto ritenuti colpevoli di creare divisioni e lacerazioni all’interno della comunità nazionale, e giunse a promuovere una svolta autoritaria che ponesse la nazione sotto la guida di un capo. Da questo punto di vista, i nazionalisti intrecciarono rapporti privilegiati con il fascismo.

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Sviluppo economico e conflitti sociali
Alla modernizzazione economica si accompagnò la costituzione di confederazioni padronali dell’industria e dell’agricoltura, sorte allo scopo di coordinare gli interessi imprenditoriali, mentre sul fronte opposto nacquero le camere del lavoro e le leghe contadine, che nel 1906 si associarono nel primo sindacato unitario, la Confederazione generale del lavoro (Cgdl). La Confederazione riuniva le diverse espressioni del sindacalismo socialista riformista, mentre le correnti più intransigenti confluirono in una diversa organizzazione, l’Unione sindacale italiana (Usi). 

Fin dalla sua nomina a ministro dell’Interno nel governo Zanardelli, Giolitti impostò una linea di neutralità del governo nei conflitti sociali, evitando di far intervenire la forza pubblica: egli si rifiutava di attribuire al potere esecutivo un legame privilegiato ed esclusivo con le classi padronali e il ruolo di difensore dei loro interessi in opposizione a quelli delle classi lavoratrici. Per giustificare questa posizione, si appellava tanto a un principio di legalità, secondo cui tutti i cittadini dovevano essere uguali davanti alla legge, quanto a un motivo economico, sulla base dell’idea che ogni intervento pubblico nei conflitti sociali alterasse le condizioni del mercato del lavoro.

L’espansione della produzione industriale consentì di innalzare i salari, ma i conflitti sociali si riacutizzarono appena le retribuzioni cominciarono di nuovo a scendere dopo il 1907 e soprattutto dopo il 1913, quando la crescita economica tornò a rallentare. Gli episodi più gravi si verificarono nel giugno 1914, durante la cosiddetta “settimana rossa” scatenata dall’uccisione di tre manifestanti ad Ancona da parte della forza pubblica. Un’insurrezione popolare si propagò dalle Marche alla Toscana e portò alla proclamazione dello sciopero generale; solo la revoca dello sciopero e la decisione del governo Salandra di evitare il ricorso all’esercito consentirono il ritorno alla normalità. Tra le altre cose, fu proprio il timore di nuove e più gravi rivolte che spinse il governo italiano a scegliere la neutralità nella Grande guerra, che scoppiò poche settimane dopo.

1.7 La guerra italo-ottomana e la crisi balcanica

L’occupazione austriaca della Bosnia e le sue conseguenze
La rivoluzione dei Giovani turchi del 1908, che aveva ulteriormente indebolito il già fragile Impero ottomano, contribuì a innescare una catena di reazioni nella penisola balcanica, esposta a crescenti rivalità nazionaliste. La Bosnia-Erzegovina, già sottratta di fatto agli ottomani nel 1878 con il Trattato di Berlino, venne formalmente annessa dall’Impero austro-ungarico nell’ottobre del 1908. Questo evento, insieme alla dichiarazione d’indipendenza della Bulgaria da Istanbul, proclamata nello stesso 1908, destabilizzò l’intero quadro delle relazioni diplomatiche vigenti nei Balcani. L’Impero russo, propenso ad affermare i propri diritti sulla penisola balcanica e interessato a stabilire un controllo sul canale del Bosforo, sollevò proteste per la mossa dell’imperatore Francesco Giuseppe, ma fu costretto ad accettare il fatto compiuto per la minaccia dell’Impero tedesco di intervenire militarmente in appoggio all’Austria-Ungheria. 

L’Italia, secondo una clausola della Triplice Alleanza introdotta nel 1887, chiese di partecipare alla spartizione territoriale dei Balcani, ma non fu accontentata. Ciò contribuì a incrinare la solidità dell’alleanza, mentre crescevano le tensioni: mentre l’irredentismo italiano era sempre più attivo, il capo di stato maggiore dell’esercito di Francesco Giuseppe elaborava l’idea di una guerra preventiva contro l’Italia.

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La guerra italiana contro gli ottomani

In Italia, dove nel 1910 si era formata ufficialmente e con grande successo l’Associazione nazionalistica italiana, il nazionalismo costituiva ormai un linguaggio diffuso in larghi strati dell’opinione pubblica e della sfera politica, e spingeva per attuare iniziative aggressive in politica estera. Da tempo, inoltre, l’Italia era alla ricerca di un possedimento territoriale sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Quindi, dopo la colonizzazione del Marocco da parte francese, nell’ottobre del 1911 il governo Giolitti si sentì autorizzato ad attaccare l’Impero ottomano per ottenere il controllo delle province africane della Tripolitania e della Cirenaica (oggi corrispondenti al territorio sotto sovranità della Libia, motivo per cui il conflitto è tradizionalmente indicato come “guerra di Libia[ 23]). Nei confronti dell’iniziativa militare italiana, paradossalmente, Regno Unito, Francia e Impero russo furono più accondiscendenti dei suoi stessi alleati, gli Imperi tedesco e austro-ungarico, che temevano ripercussioni nei Balcani: la Triplice Alleanza era sempre meno salda. 

La scelta bellica di Giolitti suscitò un ampio dibattito interno. Per Salvemini la guerra costituiva un diversivo che la classe dirigente intendeva utilizzare per distogliere l’opinione pubblica dai gravi problemi sociali. L’opposizione alla guerra fu intransigente anche da parte di socialisti rivoluzionari e anarchici, mentre alcune frange riformiste del Psi, guidate da Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati, sostennero l’iniziativa militare.

L’Italia combatté una guerra su ampia scala, estendendo le operazioni fino al Dodecaneso: fu questa, tra l’altro, la prima guerra in cui si effettuarono bombardamenti aerei [▶ eventi, p. 68]. L’invasione suscitò un forte movimento di resistenza locale da parte delle tribù berbere dell’interno, che non esitarono a scontrarsi con le truppe italiane, limitando la loro capacità di controllo alle zone costiere. Ciò nonostante, nell’ottobre del 1912, sotto la minaccia di un più vasto intervento militare navale nell’Egeo, le truppe ottomane si arresero. Il Trattato di Losanna, siglato in quello stesso mese, pose ufficialmente termine al conflitto, riconoscendo la fine del governo del sultano sulle province africane.

La guerra italo-ottomana alterò profondamente gli equilibri del sistema internazionale e la vittoria italiana impartì una lezione importante ai paesi balcanici: il potere militare ottomano era ormai nella fase finale del suo declino. L’aggressione italiana alla Tripolitania e alla Cirenaica, interpretata in genere solo come un momento dell’espansione coloniale europea, fu in realtà l’innesco di una serie di campagne militari contro l’Impero ottomano che proseguì con le guerre balcaniche, e costituì un anello fondamentale della catena di eventi all’origine della Grande guerra.

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  eventi

Il primo bombardamento aereo

L’Italia detiene il triste primato di aver compiuto il primo bombardamento aereo nella storia, durante la guerra contro l’Impero ottomano. Il primo novembre 1911, l’aviatore Giulio Gavotti lanciò tre bombe a mano dal suo aeroplano Etrich Taube (di fabbricazione austriaca) contro l’accampamento ottomano ad Ain Zara e una bomba su un altro assembramento di forze presso un’oasi vicino a Tripoli. Dopo la guerra ottenne il riconoscimento della medaglia d’argento e continuò la sua carriera nella Regia Aeronautica. A Gavotti il poeta Gabriele D’Annunzio dedicò la poesia intitolata La canzone di Diana.

L’esempio italiano fu seguito dai bulgari nella prima guerra balcanica (1912) e fu successivamente sperimentato su scala più ampia durante la Grande guerra. Solo più avanti, con la distruzione di Guernica (1937) ad opera dell’aviazione nazista, durante la guerra civile spagnola, il bombardamento aereo sarebbe diventato anche strumento di attacco diretto alle popolazioni civili.

Le guerre balcaniche
Nell’ ottobre del 1912 l’Impero ottomano, in concomitanza con la firma della pace con l’Italia e mentre era impegnato anche nella repressione di una rivolta in Albania, fu attaccato da una Lega balcanica composta da Serbia, Romania, Bulgaria, Montenegro e Grecia. A seguito di questo conflitto, noto come prima guerra balcanica, nel giro di sette mesi, l’Impero perse quasi tutti i territori europei a vantaggio della Lega. Fra gli stati vincitori, tuttavia, sorsero subito gravi dissensi per la spartizione della Macedonia. Nel giugno 1913 la Bulgaria attaccò la Serbia e i suoi alleati, rifiutando di riconoscere l’annessione serba di larga parte del territorio macedone: cominciò così la seconda guerra balcanica, che si concluse in agosto con il Trattato di Bucarest. L’Impero ottomano riuscì a riconquistare Adrianopoli (oggi Edirne), suo ultimo baluardo in Europa, mentre dovette riconoscere l’indipendenza dell’Albania. La vera vincitrice della guerra fu la Serbia, che estese il proprio territorio, arrivando a proporsi come ideale polo di aggregazione degli “slavi del Sud”, elemento che destabilizzò ulteriormente l’area dei Balcani [ 24] [▶ fenomeni]

Durante le guerre balcaniche furono commesse brutali violenze contro le popolazioni civili, denunciate a livello internazionale. In particolare, il tentativo da parte degli Stati vincitori, soprattutto la Bulgaria, di attuare una conversione forzata delle popolazioni non cristiane nelle aree conquistate nel 1912-13 provocò un flusso di oltre 250 000 rifugiati musulmani verso l’Anatolia ottomana, mentre 200 000 greci della Tracia orientale furono espulsi verso la Grecia o deportati verso l’interno dell’Asia Minore. Nell’ottobre del 1913 Bulgaria e Impero ottomano firmarono ad Adrianopoli la prima convenzione tra Stati che prevedeva lo scambio forzato di civili (quasi 50 000 musulmani e altrettanti cristiani bulgari). Quest’opera di “ingegneria demografica” mirava a costituire comunità nazionali omogenee attraverso lo sradicamento e la deportazione di comunità minoritarie da parte della maggioranza  [ 25].

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  fenomeni

L'immagine dei Balcani fra storia e pregiudizi

Più che uno spazio geografico, di cui è difficile definire i confini, i Balcani costituiscono uno “spazio culturale”, con cui l’Occidente si è misurato e opposto all’Oriente. Essi hanno finito col rappresentare l’“altro da sé”, ossia la proiezione di pregiudizi antichi con cui la cultura europea occidentale (a partire da quella francese) ha inteso definire sé stessa in opposizione all’Impero ottomano.
Una storia di violenza

La storia dei Balcani è stata spesso vista e interpretata come una storia di violenza, espressione di odi atavici, istinti etnici e caratteri primitivi. Nell’opinione pubblica occidentale da tempo disabituata alle violenze belliche, quest’impressione si cristallizzò, all’epoca della prima e della seconda guerra balcanica del 1912 e del 1913. Le violazioni delle convenzioni internazionali e i crimini di guerra furono oggetto di un’inchiesta, nel 1914, da parte di una Commissione internazionale, promossa dalla Carnegie Endowment for International Peace, un’associazione privata no profit che promuoveva la cooperazione e la pace fra le nazioni.

Insieme a questa rappresentazione di “connaturata” violenza, i Balcani furono legati a uno scenario di instabilità e di frammentazione statale, dipendente dal­la lenta dissoluzione dell’Impero ottomano e dall’interferenza ester­na delle grandi potenze europee. Da questa instabilità derivò il termine “balcanizzazione”, che fu coniato all’inizio dell’Ottocento, ma diventò di uso comune solo dopo la Prima guerra mondiale, con il collasso dell’Impero ottomano e di quello asburgico. Più in generale, questo termine finì con l’essere utilizzato per definire la moltiplicazione disordinata di stati in conflitto tra loro.

L’insieme di queste rappresentazioni culturali e di questi pregiudizi politici, che definiscono i Balcani come luogo barbarico, par­ticolarmente incline alla violenza etnica, è stato ripreso e veicolato dai mass media occidentali durante le guerre nell’ex Iugoslavia, tra il 1991 e il 1999. La sanguinosa dissoluzione della Federazione iugoslava e i conflitti in Croazia, Bosnia e Kosovo furono infatti attribuiti a “odi ancestrali”, tipicamente “balcanici”, che erano riemersi dopo il crollo del comunismo. Questa visione stereotipata finì col giustificare la paralisi politica con cui l’Europa occidentale assistette a quei conflitti, senza riuscire a risolverli.

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Verso una guerra europea?
Un conflitto generalizzato, che coinvolgesse le maggiori potenze europee, era sempre stato ritenuto possibile ma, dopo il 1910, fu considerato addirittura probabile. Le industrie belliche aumentarono a ritmi crescenti la produzione di armamenti e munizioni, beneficiando di commesse statali che garantivano una crescente domanda (sottratta in questo modo alle normali regole del mercato). La deriva verso la guerra trovava una legittimazione sempre più diffusa nella cultura, nelle scienze e nella letteratura. Al tempo stesso, proprio nel primo decennio del secolo, si diffuse un movimento per la pace e per il disarmo internazionale che, già dall’ultimo decennio dell’Ottocento, aveva assunto notevoli dimensioni nel Regno Unito e negli Stati Uniti e che si intrecciò con le posizioni del socialismo internazionale. Da questo movimento scaturì un programma di iniziative che culminò in due conferenze per la riduzione degli armamenti tenutesi all’Aia nel 1899 e nel 1907. Nello stesso 1907, il congresso della Seconda Internazionale si impegnò a proclamare lo sciopero generale nel caso fosse scoppiato un conflitto in Europa, richiamando i lavoratori di tutte le nazioni alla solidarietà reciproca. Queste stesse iniziative mostrano quanto fosse diffusa la sensazione che una guerra potesse scoppiare da un momento all’altro.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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Dal 1900 a oggi