7.1 Gli Stati Uniti nei “ruggenti anni Venti”

Per riprendere il filo…

All’inizio del Novecento, l’America era un continente caratterizzato da livelli di sviluppo economico, sociale e culturale quanto mai diversificati. L’ascesa degli Stati Uniti, che si stavano affermando come una forza egemone a livello continentale, era stata alimentata da un’intensa espansione industriale e da una crescente partecipazione democratica. Negli stessi anni i paesi dell’America centromeridionale erano invece retti da regimi oligarchici liberali che affrontavano i costi e le contraddizioni di parziali riforme modernizzatrici. Nei primi decenni del Novecento, la partecipazione diretta degli Stati Uniti alla Grande guerra e gli effetti indiretti del conflitto su tutti i paesi del continente americano segnarono una svolta importante anche nelle Americhe, tanto sul piano interno quanto nello scenario internazionale.

7.1 Gli Stati Uniti nei “ruggenti anni Venti”

Gli Stati Uniti e l’ordine internazionale postbellico
Nel corso del suo mandato, il presidente democratico Woodrow Wilson aveva fortemente caratterizzato sul piano ideologico la partecipazione degli Stati Uniti alla Grande guerra, presentandola come un impegno teso alla difesa e alla diffusione dei fondamentali valori americani – libertà e democrazia – e alla definizione di un nuovo ordine postbellico di tipo liberale, nel quale gli Stati Uniti potessero affermare il proprio primato economico e finanziario. Nel dopoguerra, però, Wilson, ormai malato e privo di energie, fu incapace di dar seguito a tale progetto, proprio mentre nel 1920 il Congresso (organo legislativo del governo federale statunitense) optava di fatto per il disimpegno internazionale del paese, con il rifiuto di entrare nella Società delle Nazioni.
Questo nuovo orientamento isolazionista non comportò comunque il venir meno dell’impegno statunitense, in termini di azioni diplomatiche e di impiego di risorse economiche, in alcune cruciali questioni attinenti l’ordine internazionale postbellico; proprio questo impegno, anzi, contribuì all’ascesa degli Stati Uniti a grande potenza globale nel corso degli anni Venti. Per risolvere il problema delle riparazioni di guerra tedesche, in particolare, furono elaborati importanti piani finanziari di aiuto alla Germania (piano Dawes e piano Young). Furono inoltre promosse iniziative tese a evitare lo scoppio di nuovi conflitti e a circoscrivere la proliferazione delle armi, così da poter garantire la propria supremazia internazionale: la Conferenza di Washington [ 1] del 1921-22 approvò un trattato, sottoscritto dai principali vincitori della Grande guerra (Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia), che per la prima volta nella storia moderna impegnava i paesi aderenti a limitare le costruzioni navali di tipo bellico; nel 1928 fu invece la volta del Patto Briand-Kellogg, che impegnava quindici nazioni a risolvere le controversie tra Stati senza ricorrere alla guerra.

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Il ritorno alla normalità
Sul piano interno, anche negli Stati Uniti l’immediato dopoguerra fu un periodo di fermento e di partecipazione. L’approvazione del diciannovesimo emendamento della Costituzione americana (agosto 1920), che sanciva l’estensione del suffragio femminile su scala federale, costituì il coronamento di decenni di battaglie femministe. Fra il 1919 e il 1920, inoltre, una serie di agitazioni sociali, ispirate in parte anche dal nascente mito della rivoluzione russa, suscitò attese e timori di un’“America sovietica”. Nel 1919, da Seattle a Washington, ben quattro milioni di lavoratori scioperarono contro i tagli dei salari, i licenziamenti e le discriminazioni contro i sindacalisti [ 2].

Nel corso degli anni Venti, con le presidenze repubblicane di Warren Harding (1921-23), Calvin Coolidge (1923-29) e Herbert Hoover (1929-33), vi fu una decisa inversione di tendenza. La vittoria di Harding, che si era presentato alle elezioni presidenziali del 1921 promettendo il “ritorno alla normalità” (return to normalcy), cioè in sostanza alla situazione prebellica, segnò la fine del movimento progressista [▶ cap. 1.5] e avviò la smobilitazione dell’economia di guerra, che aveva comportato un ampio intervento statale nella produzione e nel commercio. L’apparato repressivo con cui erano state disciplinate e ristrette le libertà durante la guerra venne ora impiegato per contenere l’“ondata rossa” e l’influenza del neonato Partito comunista statunitense (una formazione di dimensioni in realtà esigue), mentre sul piano economico veniva ripristinato un sistema di libero mercato e di intervento minimo dello Stato.

Nel corso del decennio la partecipazione elettorale subì un calo significativo, concomitante con la crisi dei partiti politici. A esserne più colpiti furono in particolare il Partito repubblicano e il Partito democratico che, strutturandosi in senso più burocratico e gerarchico per agire su scala federale, persero la capacità di radicarsi nel tessuto sociale locale e di mobilitare le masse, se non nelle fasi più intense di competizione elettorale.

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Immigrazione e discriminazione
Tradizionale terra d’immigrazione, gli Stati Uniti avevano a lungo coltivato il mito del melting pot (“crogiolo”, “mescolanza”), di una società, cioè, caratterizzata da una straordinaria pluralità di culture e al tempo stesso dotata di un’identità condivisa. Nei fatti, tuttavia, non erano mai mancati attriti e tensioni, che avevano portato in molti casi alla segregazione e all’intolleranza. Nel corso degli anni Venti, dopo l’arresto temporaneo dei flussi migratori dovuto al conflitto mondiale, si diffuse una nuova e più profonda paura degli immigrati, che si tradusse in una serie di restrizioni legislative approvate dal Congresso: l’Emergency Quota Act del 1921, l’Immigration Act e il National Origins Act, entrambi del 1924. Questi provvedimenti stabilivano una soglia massima alle ammissioni annuali di immigrati e definivano un sistema di “quote nazionali” che privilegiava coloro che provenivano dall’Europa settentrionale rispetto a chi giungeva dall’Europa sudorientale o mediterranea. Fu anche per questo che una parte significativa degli immigrati (fra cui molti italiani, provenienti soprattutto dalle regioni povere del Mezzogiorno) diventò protagonista di lotte politiche e sindacali contro le ingiustizie e le discriminazioni, dando spesso seguito ai percorsi di militanza già intrapresi in patria.

Si delineava intanto una nuova geografia degli spostamenti di popolazioni: mentre dal Messico entrava nel paese un flusso di immigrati latinoamericani, all’interno degli Stati Uniti gli afroamericani si spostavano dal Sud al Nord. Nelle grandi città industriali si verificarono disordini razziali che condussero alla nascita di ghetti per i neri, in parte frutto di una spinta all’esclusione sociale, in parte conseguenza di un forte spirito comunitario della popolazione afroamericana [ 3].

L’atteggiamento americano verso l’immigrazione era dunque caratterizzato da una profonda ambivalenza. Da un lato, gli Stati Uniti offrivano ai nuovi arrivati grandi e inattese possibilità di ascesa sociale e professionale: esemplare, in questo senso, fu il caso dell’italoamericano Fiorello La Guardia, che negli anni Venti fu eletto rappresentante di Manhattan al Congresso e nel 1933 diventò sindaco di New York. Dall’altro, circolavano ampiamente paure e pregiudizi che si traducevano in forme di discriminazione. Particolarmente noto è il caso di due anarchici italiani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che nel 1927 furono processati con l’accusa di aver ucciso due persone durante una rapina e condannati alla sedia elettrica. La sentenza e l’esecuzione suscitarono enorme scandalo e veementi proteste per l’assenza di prove.

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In questo clima, la manifestazione dei sentimenti razzisti radicati nella società americana fu rilevante soprattutto negli Stati meridionali, dove continuavano a verificarsi gravi forme di segregazione e intolleranza. L’esempio più eclatante di questo fenomeno fu il Ku Klux Klan [ 4], movimento nato dopo la guerra di Secessione (1861-65), contrario all’abolizione della schiavitù in quanto espressione di un razzismo basato sulla supremazia dei bianchi [▶ idee]. I membri del Kkk seminarono il terrore fra la popolazione afroamericana, organizzando contro i neri spedizioni punitive, linciaggi e omicidi. Ricorrendo a moderne tecniche pubblicitarie, il movimento riuscì anche a ottenere una vasta popolarità, arrivando a contare fino a cinque milioni di aderenti nella prima metà degli anni Venti.
Il boom economico tra luci e ombre
Da un punto di vista economico, gli anni Venti furono per gli Stati Uniti un momento di prosperità senza precedenti, tanto che per indicarli fu coniata la locuzione “ruggenti anni Venti” (roaring Twenties). La mobilità sociale, vale a dire la possibilità per l’individuo di cambiare la propria posizione sociale, crebbe enormemente e la moderna società dei consumi, le cui basi erano state poste nei decenni precedenti, si affermò pienamente proprio in questo periodo.

L’economia di guerra e la crescente applicazione dei principi del taylorismo e del fordismo [▶ cap. 1.5] avevano portato a un eccezionale miglioramento della produttività industriale degli Stati Uniti, che non avendo combattuto sul proprio territorio non avevano subito danni alle proprie infrastrutture. Superata senza troppe difficoltà la crisi del dopoguerra, fra il 1922 e il 1928 si verificò un incremento del prodotto interno lordo (pil) del 40% e si affermò un regime di piena occupazione grazie anche al forte sviluppo del settore terziario, stimolato dall’espansione delle attività burocratiche, finanziarie e commerciali. Nell’industria, i comparti in cui la produzione cresceva con più vigore erano quelli dell’automobile (nel 1920 la Ford produsse oltre un milione di veicoli) e dei prodotti chimici ed elettrici; un notevole slancio conobbero anche l’attività petrolifera, l’edilizia, la costruzione di strade e di linee elettriche. La produzione agricola manteneva ancora una fondamentale importanza, ma la gran parte della popolazione (oltre 55 milioni di persone) si era ormai trasferita nelle aree urbane: oltre che a causa del crollo dei prezzi del grano, molti contadini lasciarono le loro attività e migrarono nelle città in cerca di fortuna sotto la spinta di un contagioso ottimismo.

I grandi attori dell’economia americana, seguendo e accentuando una tendenza generale del capitalismo, attuarono forme di coordinamento o di accentramento. Fu in questo periodo che vennero inventate le holding companies, società finanziarie di controllo che, possedendo partecipazioni azionarie in più imprese omogenee, ne potevano controllare la gestione. Si affermarono inoltre le grandi corporations, come Ford, General Motors e Chrysler, nel settore automobilistico [ 5]

Il mercato interno continuò a espandersi vertiginosamente nel corso degli anni Venti. Gli acquisti a credito, che consentivano di dilazionare il pagamento e di scandirlo a rate, garantirono nuove possibilità di acquisto dei beni di consumo (soprattutto elettrodomestici), mentre la pubblicità agiva come leva per moltiplicare l’attrattiva dei prodotti, raggiungendo il più ampio bacino di potenziali acquirenti.

Lo stato d’animo di benessere e di spensieratezza che segnò la fine della guerra fu veicolato anche dalla diffusione dell’intrattenimento di massa [▶ altri LINGUAGGI]. offerto dalle sale da ballo, dalla musica jazz e dallo sport, mentre nel mondo della letteratura emergevano nuove figure di scrittori – da Francis Scott Fitzgerald a Ernest Hemingway, da John dos Passos a William Faulkner – che tendevano a recidere ogni legame con la tradizione in favore di nuove forme d’espressione artistica.

Gli anni Venti, furono però segnati anche dall’estensione del proibizionismo a livello federale, con cui si vietarono la produzione, la vendita e il trasporto di bevande alcoliche. Il provvedimento mirava non solo a moralizzare i costumi, ma anche a sradicare i devastanti effetti sociali dell’alcolismo; in realtà, però, la distillazione clandestina dell’alcol e la sua distribuzione illegale non furono mai eliminate del tutto e anzi alimentarono gli affari della criminalità organizzata fino alla definitiva abrogazione delle misure protezionistiche, avvenuta nel 1933. Il proibizionismo andò infatti di pari passo con la crescita del gangsterismo, che controllava ampie zone di grandi città e gestiva attività di tipo criminale. In questa fase sono radicate le origini di Cosa nostra, associazione criminale di stampo mafioso fondata da membri della comunità italoamericana.

  idee

Il suprematismo e razzismo americano

Negli Stati uniti si affermò una particolare forma di razzismo, il suprematismo, fondato sulla convinzione della supremazia di una razza bianca rigidamente definita (di origine nordeuropea e di fede protestante) sugli afroamericani, ma anche sulle comunità immigrate non protestanti. Questo fenomeno sopravvisse alla guerra di Secessione del 1861-65 ed ebbe un nuovo culmine nel primo ventennio del Novecento, in concomitanza con la crescita esponenziale dei flussi migratori verso gli Stati Uniti e, al loro interno, di quello dei neri dagli Stati del Sud verso le grandi città del Nord.

Razzismo istituzionale e popolare

Il razzismo trovò una forma di riconoscimento legale nel 1913, quando il presidente statunitense Woodrow Wilson istituì la segregazione a livello federale, organizzando le unità dell’esercito su base razziale. Non mancarono però espressioni di violenza spontanea e popolare come la sommossa razzista di Atlanta del 1906, o i tanti linciaggi dei neri, specie, ma non solo, negli Stati del Sud. La persistente diffusione del razzismo portò, nel 1915, alla costituzione del secondo Ku Klux Klan, l’organizzazione razzista sudista, che era stata bandita negli anni Settanta dell’Ottocento.

Il razzismo al cinema

Non a caso, sempre nel 1915 uscì nelle sale cinematografiche il film epico e controverso Nascita di una nazione, con cui il regista David Griffith affermava la supremazia bianca. Ambientato durante la guerra civile statunitense, mostrava il conflitto tra unionisti e confederali e la successiva fase della ricostruzione ritraendo in chiave eroica i bianchi e in forma caricaturale i neri (interpretati da attori bianchi colorati). Nonostante avesse suscitato veementi critiche e reazioni contrarie, il film di Griffith fu proiettato anche di fronte al presidente Wilson alla Casa Bianca.

L’America prima di tutto

Nonostante i suoi pregiudizi razziali, il presidente Wilson diede un’interpretazione intrisa di idealismo della “missione” statunitense nel mondo, immaginando, nei suoi 14 punti del gennaio 1918, un nuovo ordine liberale mondiale garantito dagli Stati Uniti. Dagli anni Venti, e con maggior intensità negli anni Trenta, prevalsero invece sempre più, nella politica come nella società, istanze isolazioniste tese ad affermare il primato degli interessi nazionali americani e la supremazia dei bianchi, basata su convinzioni razziste e anche antisemite.

Nel 1940, in opposizione alla politica estera di Roosevelt, che mirava a contrastare le ambizioni espansioniste dell’Italia fascista e della Germania nazista, e contro un eventuale intervento americano nella Seconda guerra mondiale, fu fondato l’America First Committee (Afc). Questa associazione – ma, in generale, molta parte del nazionalismo americano più radicale – non era aliena da simpatie per la Germania nazista, a partire da uno dei suoi membri più noti, l’aviatore Charles Lindbergh. Il gruppo fu sciolto al momento dell’intervento americano in guerra, ma continuò a esercitare un’influenza sotterranea sui settori più conservatori della società americana. Questa influenza non è mai venuta meno del tutto, se si pensa che proprio il motto «America first» («l’America prima di tutto») è stato fatto proprio dal presidente eletto nel 2016, Donald Trump.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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