6.3 Il sistema repressivo e il Grande Terrore

6.3 Il sistema repressivo e il Grande Terrore

I Gulag e il lavoro forzato
Stalin esercitò il proprio potere e raggiunse gli obiettivi di politica economica anche attraverso un articolato sistema repressivo, imperniato in primo luogo intorno ai Gulag (acronimo di Amministrazione centrale dei campi di lavoro), un organo della polizia politica che gestiva il sistema penale di internamento e di lavoro forzato. Il primo nucleo del ▶ sistema concentrazionario sovietico fu costituito nel 1923 all’interno di un vasto ex monastero usato per i prigionieri politici antibolscevichi, sulle isole Solovki, nel Mar Bianco; dalla fine del decennio, tuttavia, i campi di detenzione si moltiplicarono sino a formare una rete distribuita su tutto il vastissimo territorio sovietico, finalizzata anche allo sfruttamento del lavoro forzato per l’estrazione di risorse naturali in regioni lontane e disabitate [ 8]. Nati e cresciuti per ospitare le vittime delle ondate repressive, i Gulag assunsero così anche obiettivi di tipo economico. In condizioni spesso terribili anche a causa del freddo estremo e con tassi di mortalità elevatissimi, i reclusi erano costretti a compiere lavori molto duri, come tracciare strade e costruire ponti, tagliare legna nei boschi, edificare città e villaggi. Tra il 1930 e il 1953 furono internati nei Gulag circa 15 milioni di detenuti, dei quali almeno un milione e mezzo morì.
La repressione e la legislazione antioperaia
Il principale corpo di polizia dello Stato, incaricato della repressione e della sicurezza, era la polizia politica (chiamata Gpu e Ogpu negli anni Venti, Gugb negli anni Trenta), alle dipendenze del commissariato del popolo per gli Affari interni: l’Nkvd. La sua sede principale era a Mosca, nel Palazzo della Lubjanka, dove si trovavano anche alcune delle sue temute prigioni e dove si praticavano gli interrogatori violenti, le torture e, spesso, le esecuzioni degli arrestati. In un clima pervaso dal terrore e dominato dalla delazione (la denuncia anonima di un sospetto), chiunque poteva essere arrestato, condannato, fucilato o deportato, qualora fosse stato accusato di essere un “nemico del popolo”. Formalmente le condanne seguivano un iter giudiziario, ma i procedimenti erano del tutto sommari.

 >> pagina 233
La repressione colpì duramente anche la classe operaia. Lo Stato sovietico continuava a richiamarsi a un’altisonante retorica filoperaia, ma di fatto sottoponeva a vessazioni crescenti i lavoratori nelle fabbriche, al fine di aumentarne la produttività, anche con espliciti provvedimenti antioperai e antisindacali (licenziamenti per assenteismo, obbligo di obbedienza assoluta al capo reparto, vigilanza costante contro i sabotaggi) e con la differenziazione del salario in base alle prestazioni di lavoro, corrispondente in sostanza all’antica pratica del ▶ cottimo.
Il partito e il “capo”
La guerra alle campagne, l’industrializzazione e tutto l’insieme delle misure coercitive e repressive erano riconducibili, come si è detto, alle decisioni del partito e del suo segretario generale. Fino ai primi anni Trenta, nonostante Stalin avesse già un ruolo decisivo, il Politburo si era regolarmente riunito per approvare le linee di indirizzo e i provvedimenti importanti. Dopo le dure prove della collettivizzazione e della carestia, però, il potere si accentrò sempre più nelle mani del capo (vozd), assistito e consigliato da una ristretta cerchia informale di collaboratori fedelissimi, ampiamente coinvolti nelle politiche degli anni precedenti.

Al tempo stesso, si aprirono nuove campagne di reclutamento per ampliare l’apparato burocratico del partito, che superò i due milioni di membri. La maggior parte di questi era stata selezionata dalle esperienze della guerra contro le campagne ed era avvezza a metodi amministrativi brutali, così che a ogni livello della burocrazia partitica si replicava il principio del capo, con il proliferare di tanti “piccoli Stalin. Il partito si organizzò sempre più come una struttura gerarchica e stratificata in cui si diffusero privilegi che distinguevano la qualità della vita dei dirigenti da quella dei militanti ordinari (l’acqua corrente nelle abitazioni, per esempio, era un lusso concesso solo ai funzionari più importanti).

La resa dei conti nel partito
Dal 1934 la macchina della repressione colpì duramente anche il partito. Nel febbraio del 1934 si tenne il XVII Congresso del Pcus, detto il “Congresso dei vincitori”, in cui Stalin si presentò come l’artefice del trionfo sulle campagne arretrate e retrograde. Nonostante l’apparente allentamento delle tensioni, fu proprio in questo periodo che ebbero luogo le “grandi purghe”, vale a dire i vasti fenomeni di epurazione della classe dirigente nel partito, nelle istituzioni e nell’esercito. Stalin temeva l’ostilità nei suoi confronti che si era diffusa nella società e nel partito durante la collettivizzazione e la carestia: fu in questo cupo clima di assedio che egli pensò di mettere in atto una vera e propria campagna terroristica.

Il 1° dicembre 1934 l’assassinio di Sergej Kirov, capo del Pcus di Leningrado (nome assunto dalla città di Pietrogrado alla morte di Lenin) e fedele seguace di Stalin, offrì a quest’ultimo il pretesto per avviare una campagna di arresti, condanne e fucilazioni di massa che colpì ogni dirigente che tentasse di opporsi al potere del capo, e in particolare i sostenitori di Zinov’ev e Kamenev.

Nell’agosto del 1936 si svolse il primo grande processo di Mosca, tra i cui imputati figuravano gli stessi Zinov’ev e Kamenev [ 9]. A seguito di confessioni che sorpresero il mondo – ma che erano state estorte anche con la tortura – essi dichiararono di aver partecipato a un complotto per uccidere Stalin e furono condannati a morte. Seguirono quindi un secondo processo, nel gennaio 1937, e un terzo, nel marzo 1938: tra gli imputati e i condannati alla pena capitale figurò anche Bucharin. I conti lasciati in sospeso con i vecchi oppositori politici erano ormai conclusi.

 >> pagina 234 
Il Grande Terrore
Le “grandi purghe” nel partito furono in realtà soltanto una parte di una ben più vasta impresa di ingegneria sociale e nazionale: una campagna di terrore tesa a sradicare tutti gli elementi “socialmente pericolosi” ed “etnicamente sospetti”, considerati nemici della nuova società socialista e potenziali collaboratori di potenze straniere in caso di una nuova guerra. Insieme ai principali oppositori politici furono giustiziati, nel giugno 1937, 30-40 000 ufficiali dell’Armata rossa, con l’accusa di cospirazione antisovietica insieme ai trockijsti e ai nazisti che nel frattempo, come vedremo, avevano preso il potere in Germania. Tra essi il generale Tuchačevskij, eroe della guerra civile contro i “bianchi” e della successiva guerra contro la Polonia [▶ cap. 3.3].

La fase più acuta del cosiddetto Grande Terrore – la più grande campagna omicida condotta segretamente da uno Stato europeo in tempo di pace – cominciò con un decreto dell’Nkvd del 30 luglio 1937, emesso in seguito a una direttiva di Stalin [▶ FONTI], e terminò nel novembre 1938: in sedici mesi furono uccisi 750 000 cittadini sovietici, con 1600 esecuzioni al giorno effettuate nei poligoni di tiro della polizia politica, mentre oltre 800 000 furono deportati nei Gulag e condannati alla pena di 10 anni di lavori forzati. La logica che guidò questa campagna terroristica si fondava su due linee guida: una sociale, volta cioè contro gli individui considerati socialmente pericolosi, come gli ex kulaki usciti dal Gulag, le ex guardie bianche, gli ecclesiastici, i membri delle sette religiose, i criminali comuni; una nazionale, che, segnata da una vera e propria ossessione per la “pulizia” delle frontiere, colpì invece i cittadini sovietici di nazionalità ritenute sospette: polacchi, tedeschi, lettoni, estoni, finlandesi, greci e romeni . Nel novembre 1938 una risoluzione del Politburo pose fine al Grande Terrore, abolendo le giurisdizioni speciali, sospendendo le operazioni di massa e criticando i gravi errori nel lavoro dell’Nkvd. Per riportare sotto controllo la polizia politica e rimediare al caos economico e sociale provocato, uno dei suoi principali responsabili, Nikolaj Ivanovič Ežov, fu rimosso e venne sostituito da Lavrentij Berija.

Oltre a risparmiare i fedelissimi di Stalin, come Vjačeslav Michajlovič Molotov, futuro commissario del popolo agli Esteri, il Terrore portò ai posti di comando una schiera di nuovi promossi, di estrazione prevalentemente popolare. Fra costoro vi era il futuro successore dello stesso Stalin, Nikita Chruščëv, primo ucraino a essere nominato segretario del Comitato centrale [▶ fenomeni].

 >> pagina 235 

FONTI

Stalin avvia il Grande Terrore

L’operazione più importante del Grande Terrore, la cosiddetta “operazione kulak”, fu avviata da una direttiva segreta impartita da Stalin in persona il 2 luglio 1937 a tutti i dirigenti del partito a livello regionale e statale. La stessa operazione fu chiusa da una risoluzione segreta del Politburo, datata 17 novembre 1938, firmata da Stalin e Molotov e inviata a un numero ristretto di alti responsabili del partito e dell’Nkvd.

2 luglio 1937

Si rileva che una gran parte degli ex kulaki e criminali, esiliati nelle regioni del Nord e della Siberia e poi rientrati, allo scadere della pena, nei loro domicili, sono i principali istigatori dei crimini antisovietici tanto nei kolchozy e nei sovchozy1, quanto nei trasporti e in alcuni settori dell’industria.

Il Comitato centrale propone a tutti i segretari di partito delle regioni e delle repubbliche, così come a tutti i responsabili regionali dell’Nkvd, di schedare tutti i kulaki e i criminali che hanno fatto ritorno, affinché quelli tra di loro che sono più ostili possano essere immediatamente arrestati e fucilati per effetto di una procedura amministrativa semplificata davanti a una trojka; gli altri, quelli meno attivi, ma nondimeno ostili, siano esiliati in regioni lontane del paese su ordine dell’Nkvd.

17 novembre 1938

Il Consiglio dei commissari del popolo e il Comitato Centrale fanno notare che, nel corso degli anni 1937-1938, sotto la direzione del partito, gli organi dell’Nkvd hanno effettuato un gran lavoro per liquidare i nemici e ripulire il paese. [...]

La pulizia del paese da tutti questi elementi ha avuto un ruolo positivo nel consolidamento e nell’ulteriore sviluppo delle conquiste e dei successi della costruzione del socialismo. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che si sia conclusa la pulizia dell’Urss da tutte le spie, sabotatori e terroristi. Bisogna ora ricorrere a metodi più efficaci e risolutivi, continuando senza pietà la lotta contro tutti i nemici dell’Urss.

Ciò è tanto più necessario in quanto le operazioni di massa tendenti a liquidare e sradicare gli elementi ostili, realizzate dagli organi dell’Nkvd nel 1937-1938 attraverso metodi semplificati in istruttoria e nel giudizio, sono sfociate in numerosi gravi difetti e deformazioni.


N. Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Il Mulino, Bologna 2011.

 >> pagina 236 

6.4 Società e cultura sovietiche negli anni Trenta

Modernizzazione e dittatura
La spasmodica modernizzazione sovietica lasciò ampie e resistenti zone di arretratezza, mentre i traumi della collettivizzazione e della carestia, dell’industrializzazione e della repressione avevano aperto lacerazioni profonde nel tessuto sociale. Paradossalmente, nel dicembre del 1936 venne approvata una nuova Costituzione, subito proclamata la «Costituzione più democratica del mondo», che sanciva la realizzazione del socialismo e indirizzava lo Stato verso la costruzione del comunismo, ipotizzando quindi anche la fine della “dittatura del proletariato”. Contemporaneamente però, vennero aboliti molti diritti sociali e civili che erano stati affermati negli anni Venti, come la legislazione libertaria su divorzio e aborto. Questo era il segnale di una più ampia svolta in senso “reazionario” delle politiche di Stalin, il quale fece sempre più intensamente ricorso alla retorica del nazionalismo panrusso, segnando la definitiva interruzione di ogni politica di indigenizzazione delle repubbliche sovietiche
La propaganda sovietica
La costruzione del consenso si avvalse di una singolare ed efficace combinazione di elementi moderni e arcaici. Il vero e proprio culto di Stalin, ribattezzato “padre dei popoli”, mescolava per esempio forme elementari di retorica marxista con l’appello ai sentimenti di una religiosità popolare. Questa compresenza di antico e nuovo, di alto e popolare, si rispecchiava anche nel più moderno degli strumenti di propaganda, il cinema. I film del regista Sergej Ejzenštejn, in particolare, celebravano tanto figure cruciali dell’antica storia russa (come Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile) quanto l’epopea rivoluzionaria moderna (la rivoluzione del 1905 e quella del 1917).
La retorica eroica del lavoro fu coniugata con le antiche credenze popolari miracolistiche anche nella mobilitazione della classe operaia. Emblema di questo sforzo propagandistico fu il mito dello stachanovismo, costruito attorno alla figura di Aleksej Stachanov, picconatore di origini contadine, capace – in realtà perché aiutato da una squadra di altri lavoratori a lui subordinati – di svolgere in sei ore un lavoro equivalente a quattordici volte la norma giornaliera. In questa maniera il regime staliniano cercava di coniugare l’immagine della conquista del futuro grazie al lavoro e alla forza di volontà con l’incentivo a una maggiore produttività da parte dei lavoratori.

 >> pagina 237 
Allo stesso tempo, alla guerra sociale nelle campagne si era accompagnata una guerra culturale contro la religione, articolata in una serie di iniziative per demolire i luoghi di culto, perseguitare i religiosi, sradicare il profondo sostrato di credenze popolari. L’atto più clamoroso fu l’abbattimento con la dinamite della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, avvenuto nel dicembre 1931 [ 10]; molti altri edifici religiosi furono invece adibiti ad altri usi, diventando uffici pubblici, scuole, magazzini di fieno o grano, musei della rivoluzione. Questo potente sforzo di scristianizzazione della società sovietica fu veicolato anche dall’insegnamento dell’ateismo, introdotto nelle scuole dal 1929.

  fenomeni

La vita quotidiana sotto il Terrore

Poche famiglie sovietiche furono risparmiate dal Grande Terrore staliniano. Si calcola che in un modo o nell’altro, tra il 1928 e il 1953, circa 25 milioni di persone (oltre il 10% della popolazione complessiva) siano state coinvolte dalla macchina repressiva del regime.

La forza della delazione

Arresti improvvisi o pianificati, individuali o di massa scandivano la vita quotidiana sotto il regime di Stalin, alimentando forme di terrore che distruggevano le normali reti di relazione sociale. Uno degli strumenti più perfidi con cui il regime riusciva a porre la popolazione sotto un controllo tendenzialmente totalitario era la delazione, che sfruttava ostilità, risentimenti e invidie fra vicini di casa, coinquilini o membri del partito, dando una copertura ideologica a conflitti di natura spesso privata o personale. Ciascuno poteva essere contemporaneamente accusatore e accusato, in una continua dinamica di sospetto reciproco.

La vita nelle città fra paura e conformismo

Nelle abitazioni urbane (requisite ai borghesi o di recentissima edificazione) – vere e proprie “comuni” condivise da numerose famiglie, nelle quali era assente ogni spazio intimo, individuale o famigliare – molti vivevano in un costante stato di paura, soprattutto se qualche loro parente era finito nella lista dei “nemici del popolo”.

Anche coloro – non pochi – che avevano partecipato alle vicende rivoluzionarie del 1917 o della guerra civile, condividendone speranze ed entusiasmi, tendevano ora a conformarsi, almeno esteriormente, alle norme di comportamento richieste dal partito, in modo da non destare sospetti. Tutti finivano col tacere sul proprio passato, perché ogni allusione poteva trasformarsi in motivo di accusa o delazione. «C’erano certe regole nell’ascoltare e nel parlare che noi bambini dovevamo imparare», ricorda la figlia di un dirigente comunista di medio rango che era cresciuta negli anni Trenta: «Quello che sentivamo per caso dire dagli adulti in un bisbiglio, o quello che li sentivamo dire alle nostre spalle, non dovevamo ripeterlo a nessuno».

 >> pagina 238

Il realismo socialista e la repressione della cultura
Anche la cultura alta offrì un contributo importante all’edificazione del regime sovietico, con l’intento utopico di educare l’“uomo nuovo”, completamente dedito alla grande impresa di realizzare il socialismo. Questo contributo fu disciplinato e organizzato da una rete di associazioni di scrittori e artisti che indirizzavano e sorvegliavano ogni ambito della produzione culturale e intellettuale.

Il mondo della cultura aveva guardato con interesse all’esperimento rivoluzionario fin dalle origini. Dopo il 1917, però, la scena culturale e artistica era stata dominata soprattutto dai futuristi e dagli astrattisti, che non avevano mancato di mostrare, sotto alcuni aspetti, un atteggiamento irriverente verso il regime sovietico. Dalla fine degli anni Venti, con l’ascesa di Stalin e con la costruzione del nuovo sistema collettivistico, anche il clima culturale cambiò radicalmente. In pittura e in letteratura si affermò un particolare tipo di realismo, il cosiddetto realismo socialista, asservito al volere delle autorità nella misura in cui glorificava i valori del comunismo sovietico, esaltava la forza e la grandezza del proletariato e inneggiava a un futuro di progresso per l’umanità. I soggetti rappresentati erano spesso raffigurati dediti al loro lavoro, nelle officine come nei campi; oppure venivano raffigurate le figure guida della rivoluzione, Lenin e Stalin, per mostrare l’amore del popolo nei loro confronti. Uno dei principali teorici ed esponenti del realismo socialista fu Maksim Gorkij, esule in Italia prima di ritornare in Unione Sovietica e di collaborare con il regime staliniano fino alla sua morte, avvenuta nel 1936 in circostanze sospette.

Infatti, se la cultura fu uno strumento di potere per il regime, essa stessa non fu risparmiata dalla generale ondata repressiva che si abbatté sulla società sovietica fra gli anni Venti e Trenta: a essere arrestati, processati, internati nei Gulag e talvolta fucilati furono anche molti artisti, scrittori e scienziati. Uno dei più importanti scrittori dell’epoca, Isaak Babel, venne arrestato e giustiziato nel gennaio 1940 [▶ altri LINGUAGGI, p. 240].

 >> pagina 239 

6.5 La politica estera e i rapporti con l’Occidente

Dall’internazionalismo all’isolazionismo

A fronte dell’internazionalismo che aveva caratterizzato il pensiero politico di Lenin e i principi originali del Comintern, con la costruzione del “socialismo in un solo paese” Stalin e i suoi fedelissimi accentuarono fortemente le tendenze isolazionistiche della politica estera sovietica. Questo indirizzo venne sfruttato per sostenere le nuove politiche economiche di industrializzazione forzata e accelerata, presentata come indispensabile per far fronte al­l’accerchiamento internazionale in cui l’Urss si sarebbe potuta trovare.

A sostegno di questa linea, il VI Congresso del Comintern, tenuto a Mosca nell’estate del 1928, forgiò la parola d’ordine della lotta contro il socialfascismo” e lanciò la politica detta “classe contro classe”, che escludeva la possibilità di alleanze fra i comunisti e le forze socialiste e socialdemocratiche, indicate come colpevoli di allontanare gli operai dalla prospettiva rivoluzionaria e di costituire un sostegno del decadente sistema capitalistico (un sostegno inconsapevole e perciò più temibile dello stesso fascismo). Tale logica settaria esasperò la frattura interna al movimento operaio internazionale, con conseguenze drammatiche soprattutto nella Germania weimariana, e spinse i partiti comunisti a un completo isolamento. Anche la vita democratica interna alle formazioni comuniste ne risentì, obbligando dirigenti e militanti a un totale allineamento alle posizioni staliniane: secondo un principio del centralismo democratico portato all’esasperazione, chiunque fosse contrario alla linea affermata dai vertici del Comintern era infatti passibile di espulsione.
Dall’isolamento alla sicurezza collettiva
L’isolamento internazionale dell’Urss fu però attenuato alla metà degli anni Trenta. Stalin rimaneva convinto che le Repubbliche socialiste e le potenze capitaliste rappresentassero due campi irrimediabilmente contrapposti, destinati infine a scontrarsi, e da questo punto di vista i governi fascisti e quelli democratici costituivano un fronte imperialistico omogeneo, contro cui prima o poi l’Unione Sovietica avrebbe dovuto combattere. Tuttavia, i tempi e i modi del conflitto dipendevano anche dall’azione diplomatica, che fra il 1933 e il 1938 fu sempre più condizionata dall’ascesa della Germania nazista. In particolare, l’aperta sfida di Hitler all’ordine internazionale spinse Stalin a una brusca revisione della sua politica estera, che avvicinò l’Urss al sistema di sicurezza collettivo con il suo ingresso nella Società delle Nazioni nel settembre 1934. In questo quadro, anche il Comintern avviò un processo di ripensamento della propria strategia, in nome di un nuovo e più plurale concetto di “antifascismo”, che avrebbe animato la stagione dei Fronti popolari.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi