Autarchia ed economia di guerra
A coronamento della svolta protezionista e interventista in politica economica, a partire dalla metà degli anni Trenta – anche in risposta alle sanzioni commerciali che la Società delle Nazioni aveva imposto all’Italia dopo l’invasione del Regno con la guerra del 1935-36 – Mussolini lanciò la parola d’ordine dell’autarchia. Venne cioè portato alle estreme conseguenze l’intento, già annunciato con la battaglia del grano, di rendere il paese autosufficiente nell’approvvigionamento delle materie prime e delle derrate alimentari: furono ulteriormente innalzati i dazi doganali, incentivate le grandi aziende nazionali, fissate quote massime per le importazioni, inventati e imposti dei sostituti (i “surrogati”) per i prodotti che l’agricoltura nazionale non poteva produrre (come il caffè e il tè) [ 12].Allo stesso tempo, le dispendiose imprese militari e via via anche le crescenti tensioni che si manifestavano nello scenario europeo, spinsero il regime a privilegiare i settori industriali coinvolti nella produzione bellica a sfavore di quelli rivolti ai consumi, cominciando a delineare quell’economia di guerra che si sarebbe poi compiutamente dispiegata allo scoppio del secondo conflitto mondiale.