5.4 L’Impero fascista

Autarchia ed economia di guerra
A coronamento della svolta protezionista e interventista in politica economica, a partire dalla metà degli anni Trenta – anche in risposta alle sanzioni commerciali che la Società delle Nazioni aveva imposto all’Italia dopo l’invasione del Regno con la guerra del 1935-36 – Mussolini lanciò la parola d’ordine dell’autarchia. Venne cioè portato alle estreme conseguenze l’intento, già annunciato con la battaglia del grano, di rendere il paese autosufficiente nell’approvvigionamento delle materie prime e delle derrate alimentari: furono ulteriormente innalzati i dazi doganali, incentivate le grandi aziende nazionali, fissate quote massime per le importazioni, inventati e imposti dei sostituti (i “surrogati”) per i prodotti che l’agricoltura nazionale non poteva produrre (come il caffè e il tè) [ 12]

Allo stesso tempo, le dispendiose imprese militari e via via anche le crescenti tensioni che si manifestavano nello scenario europeo, spinsero il regime a privilegiare i settori industriali coinvolti nella produzione bellica a sfavore di quelli rivolti ai consumi, cominciando a delineare quell’economia di guerra che si sarebbe poi compiutamente dispiegata allo scoppio del secondo conflitto mondiale.

5.4 L’Impero fascista

La politica estera fra arroganza e prudenza
La politica estera fascista presentò a lungo orientamenti ambivalenti, nonostante rimanesse ispirata al radicale nazionalismo che caratterizzava l’ideologia del regime e fosse finalizzata all’obiettivo di affermare il prestigio internazionale dell’Italia, uscita vincitrice dalla Grande guerra. Lo stesso Mussolini, per tutti gli anni Venti, alternò uno stile diplomatico ad un atteggiamento più spregiudicato: ora impegnando il paese in un ruolo di mediazione nelle controversie internazionali, ora ostentando una politica aggressiva da potenza espansionista, insoddisfatta dell’ordine stabilito a Versailles e dunque alla ricerca di una revisione radicale dell’assetto postbellico.

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Nel settembre 1923, per esempio, il massacro della delegazione militare italiana incaricata di sorvegliare il confine greco-albanese (oggetto di contesa fra i due paesi), avvenuto a opera di un gruppo di sconosciuti, provocò la decisa e sproporzionata reazione di Mussolini, che ordinò il bombardamento e l’occupazione dell’isola di Corfù. L’aggressività italiana rientrò rapidamente di fronte alla possibilità di un intervento della Società delle Nazioni, che era stata chiamata in causa dalla Grecia e che Mussolini minacciò di abbandonare. D’altro canto, il governo Mussolini dimostrò anche una certa abilità diplomatica, chiudendo definitivamente la questione del libero Stato di Fiume, che rappresentava un nodo irrisolto nell’ordinamento postbellico: con il Trattato di Roma, firmato nel gennaio 1924, Fiume, città a maggioranza italiana, fu annessa all’Italia, mentre le terre circostanti, abitate prevalentemente da sloveni e croati, furono riconosciute alla sovranità iugoslava.

Nel complesso, comunque, negli anni Venti la propensione al compromesso prevalse sul tentativo di delegittimare l’ordine di Versailles. Il regime finì sempre per allinearsi alle posizioni di Regno Unito e Francia, proponendosi addirittura quale garante degli accordi internazionali, come in occasione degli accordi di Locarno del 1925 [▶ par. 4.4]. A suggellare la linea moderata fu la nomina di Dino Grandi a ministro degli Esteri. Grandi, che era delegato alla Società delle Nazioni a Ginevra, fu particolarmente attento a mantenere rapporti cordiali con Francia e Regno Unito.

Dopo le dimissioni di Grandi, nel 1932, l’atteggiamento dell’Italia nel contesto internazionale riprese a oscillare tra la difesa dell’ordine esistente e il revisionismo. La ferma intenzione di sovvertire l’ordine di Versailles manifestata dal regime nazista di Adolf Hitler, salito nel frattempo al potere in Germania (come vedremo in seguito), offrì a Mussolini l’opportunità di riprendere la contestazione dell’assetto internazionale stabilito dopo la Grande guerra. Nonostante questo obiettivo comune e l’affinità ideologica fra i due regimi, i rapporti fra Italia e Germania furono presto incrinati dalla contesa per l’Austria, che Hitler dichiarava esplicitamente di voler annettere alla Germania. Nel luglio del 1934, quando il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss fu assassinato da un gruppo nazista durante un tentato colpo di Stato a Vienna, Mussolini, nell’intento di imporre il ruolo centrale dell’Italia nella regione in ambito internazionale, decise di schierare alcune divisioni italiane al confine del Brennero, facendo così desistere Hitler, almeno momentaneamente, dai suoi propositi. Nell’aprile del 1935, poi, l’Italia firmò insieme a Regno Unito e Francia gli accordi di Stresa, che affermavano la necessità di preservare l’indipendenza austriaca e di opporsi a eventuali interventi tedeschi.

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La politica coloniale
Alla metà degli anni Trenta Mussolini accettava ancora di schierarsi a fianco delle maggiori democrazie europee; parallelamente, tuttavia, egli stava già preparando le successive iniziative di stampo imperialistico. La propaganda del regime, del resto, insisteva da tempo sulla necessità di creare un nuovo impero mediterraneo, che facesse rivivere i fasti dell’Impero romano.

La formulazione del mito imperiale, fulcro della propaganda fascista, alimentò l’aggressività internazionale del regime. La politica coloniale di Mussolini mirò anzitutto a ristabilire un controllo effettivo sulla Libia, dove le truppe italiane, nonostante la vittoria militare del 1912 sull’Impero ottomano [▶ cap. 1.7], non erano mai riuscite a sradicare del tutto il ribellismo delle popolazioni berbere. I generali Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani attuarono una spietata strategia repressiva, volta a isolare i ribelli e a distruggerne le reti di supporto logistico locale, con la deportazione di oltre 100 000 libici e la loro detenzione in campi di concentramento allestiti nel deserto, dove quasi la metà di loro morì.

Intanto, la volontà di rilanciare l’iniziativa in politica estera e il benevolo silenzio di Francia e Regno Unito rispetto ai suoi disegni coloniali in Africa (l’atteggiamento conciliante dell’Italia nella Conferenza di Stresa era servito anche a questo scopo) indussero Mussolini ad accelerare i preparativi per l’invasione dell’Etiopia, unico Stato ancora indipendente di tutto il continente.

La guerra d’Etiopia
La scelta di impegnare il paese nella guerra d’Etiopia è stata a lungo attribuita alla volontà di Mussolini di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla crisi economica interna, con la promessa di creare una colonia di popolamento – utile tra l’altro a creare nuovi posti di lavoro – a partire dai possedimenti italiani in Somalia ed Eritrea. La guerra, tuttavia, rispondeva anche all’esigenza di una politica di potenza che mostrasse la determinazione dell’Italia a battersi per un nuovo ordine internazionale.

Anche se per mesi dubbi e timori ser­peggiarono fra i gerarchi, i quali ritenevano che l’esercito italiano fosse impreparato, il pretesto per dare seguito al proprio disegno fu offerto a Mussolini da uno scontro fra alcune forze irregolari etiopiche e l’esercito coloniale italiano presente in Somalia, avvenuto nel dicembre del 1934 presso Ual-Ual, località di confine fra Somalia ed Etiopia e sede di un importante complesso di pozzi petroliferi. In seguito a tale episodio, l’Italia presentò una formale protesta contro l’Etiopia alla Società delle Nazioni, avviando nel contempo una campagna di propaganda in patria a favore della “missione civilizzatrice” italiana, con toni e contenuti di matrice pesantemente razzista.

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Preceduta da una lunga preparazione, l’invasione dell’Etiopia fu infine avviata in autunno. Il 3 ottobre 1935 [ 13], penetrarono nel paese etiope oltre 100 000 uomini dall’Eritrea, agli ordini del generale Emilio De Bono, e 14 000 dalla Somalia italiana, guidati dal generale Rodolfo Graziani. Dopo una serie di vittorie che condussero alla conquista di Adua (altamente simbolica perché riscattava la disfatta italiana del 1896), l’avanzata successiva incontrò non poche difficoltà. Rimosso De Bono, l’esercito italiano fu riorganizzato sotto il nuovo comando del generale Badoglio e venne autorizzato all’uso massiccio dei gas (banditi dal protocollo di Ginevra del 1925 che anche l’Italia aveva firmato), così da terrorizzare e colpire non solo l’esercito etiope, ma anche la popolazione civile nelle retrovie.
Le reazioni internazionali e la mobilitazione italiana
La Società delle Nazioni, su richiesta dell’Etiopia, condannò l’aggressione e inflisse sanzioni economiche all’Italia. Francia e Regno Unito, infatti, pur essendo disponibili a tollerare qualche iniziativa coloniale italiana in Africa, non potevano consentire un’evidente violazione della legalità internazionale e l’annessione di uno Stato indipendente membro della stessa Società delle Nazioni.

Per reagire al crescente isolamento internazionale prodotto dalla guerra in Africa orientale, la propaganda del regime dispiegò un’intensa campagna tesa a determinare una più stretta identificazione tra fascismo e patriottismo. Venne in questo quadro recuperata anche quella vena “antiborghese” che era stata tipica del primo fascismo, ora declinata sullo scenario internazionale attraverso la contrapposizione fra le nazioni “plutocratiche”, ossia quei paesi già possessori di un vasto impero e controllati da una ricca oligarchia (sostanzialmente, Regno Unito e Francia), e le nazioni “proletarie” come l’Italia, cui era negata la possibilità di far valere le proprie legittime aspirazioni. Anche in virtù di questa propaganda, nel 1936 il regime raggiunse l’apogeo della sua popolarità, come testimonia anche il successo di campagne per raccogliere fondi da destinare alla guerra, quali la “giornata della fede”, in cui le donne italiane donavano allo Stato l’anello nuziale, e della raccolta dell’oro e degli oggetti preziosi [ 14]. Anche l’atteggiamento di Pio XI e della Chiesa, in un primo momento critica verso la nuova impresa coloniale, divenne presto favorevole alla guerra d’Africa, tanto che a sostegno delle truppe fu inviato un gran numero di cappellani militari.

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La conclusione del conflitto
Le operazioni belliche condotte dal generale Graziani nella primavera del 1936 sbaragliarono le armate etiopi, superiori per numero ma dotate di un equipaggiamento inadeguato, sottoposte ai bombardamenti con armi chimiche e decimate dagli attacchi dei mezzi corazzati. Il 5 maggio il generale Badoglio entrò ad Addis Abeba, infrangendo l’ultimo baluardo di resistenza e dichiarando concluso il conflitto. Il 9 maggio Mussolini annunciò la fondazione dell’Impero dell’Africa orientale e re Vittorio Emanuele III assunse il titolo di imperatore d’Etiopia [ 15]. Pur rifiutando di riconoscere l’annessione, la Società delle Nazioni revocò le sanzioni all’Italia poco tempo dopo.

soldati italiani morti negli scontri furono circa 5000. Per la popolazione etiope i costi della guerra furono invece ben più alti: oltre 700 000 vittime fra militari e civili, durante e dopo il conflitto. Dopo la fine delle ostilità, infatti, le truppe italiane affidate al comando dell’ex gerarca torinese Cesare Maria De Vecchi condussero una feroce campagna di repressione [▶ eventi]. Negli anni successivi, inoltre, affluì dall’Italia un gran numero di amministratori civili, di politici e di giuristi che imposero un regime coloniale di brutale segregazione e discriminazione della popolazione locale.

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  eventi

Le stragi italiane in Etiopia

Il mito del “bravo italiano”

La memoria del fascismo è stata a lungo condizionata dal mito del “bravo italiano” (contrapposto spesso al “cattivo tedesco”), ossia dal pregiudizio secondo cui gli italiani, per propria costituzione culturale, non potessero macchiarsi di violenze ed efferatezze.

La storia delle guerre degli anni Trenta e Quaranta dimostra l’infondatezza di tale mito. Le operazioni belliche in Etiopia furono condotte anche con il ricorso ad armi chimiche bandite dalle convenzioni internazionali. Per affermare e consolidare il controllo del territorio, inoltre, furono compiuti massacri e rappresaglie a danno non solo dei gruppi di resistenza armata, ma anche delle popolazioni civili.

La strage di Addis Abeba e gli altri massacri

Uno dei peggiori eccidi fu quello seguito al fallito attentato contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia pubblica. Il duce ordinò che «tutti i civili e religiosi comunque sospettati devono essere passati per le armi». Tra il 19 e 21 febbraio 1937 si scatenò così una rappresaglia che costò la vita a un numero imprecisato di etiopi, tra i 3000 e i 6000, con i militari italiani e gli àscari libici (con la denominazione di àscari – dall’arabo askarī, “soldato” – venivano indicati i soldati indigeni inquadrati negli eserciti coloniali) che aprirono il fuoco indiscriminatamente contro la popolazione locale.

Nel successivo mese di maggio la violenza repressiva fascista trovò il suo culmine nella città-convento di Debrà Libanòs, dove furono uccisi almeno 500 religiosi, fra diaconi e monaci. Ancora più alto fu il numero di coloro che, ritenuti sospetti, furono giustiziati nei giorni successivi.

Un gran numero di etiopi, infine, fu recluso in campi di concentramento, come quello di Danane, in Somalia. Qui furono deportati fino a 6000 prigionieri, di cui la metà morì per fame e malattie.

5.5 La radicalizzazione totalitaria

L’asse Roma-Berlino
Nonostante il ritiro, da parte della Società delle Nazioni, delle sanzioni nei confronti del governo italiano, la conquista dell’Etiopia incrinò le relazioni internazionali dell’Italia, in particolare con Francia e Regno Unito. In tale contesto, Mussolini pensò di poter continuare la propria politica spregiudicata attraverso un avvicinamento alla Germania nazista, anche nel tentativo di porre l’Italia in una posizione che consentisse ulteriori acquisizioni coloniali. Anche grazie all’azione del nuovo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, apertamente filotedesco, nell’ottobre del 1936 furono firmati a Roma gli accordi diplomatici che sancivano un “asse” fra Roma e Berlino: non ancora una vera e propria alleanza, ma un patto che prevedeva posizioni comuni nella politica estera dei due paesi.

Gli equilibri faticosamente determinati nello scacchiere europeo, nel corso degli anni Venti, venivano così definitivamente meno: si rafforzava la contrapposizione fra democrazie e fascismi che era già emersa in occasione della guerra civile scoppiata in Spagna pochi mesi prima (come vedremo più vanti) e che da lì a pochi anni sarebbe deflagrata nel secondo conflitto mondiale.

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Razzismo e antisemitismo
L’impresa coloniale in Etiopia, come si è visto, era stata accompagnata da campagne che avevano fatto leva sul nazionalismo e sull’ostilità nei confronti delle cosiddette “potenze plutocratiche”, proprio mentre in economia si rafforzava una politica che richiamava il paese alla mobilitazione e ne accentuava l’isolamento, con la parola d’ordine dell’autarchia. Ma la propaganda di regime aveva fatto leva anche su un altro aspetto: l’affermazione della superiorità di una presunta “razza italiana”.

Così, nell’ambito della nuova fase di mobilitazione totalitaria voluta da Mussolini nella seconda metà degli anni Trenta, il razzismo divenne uno strumento propagandistico del regime, in particolare nella sua declinazione antisemita. Gli ebrei italiani erano una comunità piuttosto ristretta (circa 50 000 persone), per lo più integrata nel corpo della società, tanto che molti di loro avevano aderito al fascismo. La propaganda antiebraica, in questo senso, costituì un’improvvisa e radicale inversione della tendenza all’assimilazione degli ebrei che aveva caratterizzato il Regno d’Italia a partire dal processo risorgimentale. Anche per questo, l’introduzione di provvedimenti antisemiti è stata a lungo interpretata come il risultato della crescente influenza di Hitler su Mussolini, cioè come un prodotto d’importazione in un paese che era sostanzialmente estraneo al razzismo e all’antisemitismo.

In realtà, le tendenze razziste erano presenti nel fascismo fin dalle sue origini, a partire da un violento antislavismo. A seguito della guerra d’Etiopia, poi, aveva cominciato a circolare ampiamente anche un razzismo di matrice coloniale. Infine, bisogna considerare che al nuovo corso antisemita del fascismo concorrevano anche l’antiebraismo cattolico, fondato sull’antica ostilità verso gli ebrei in quanto “ deicidi”, nonché socialista e sindacalista, che identificava l’ebreo con l’alto borghese e il grande capitalista.

Le leggi razziali
Il punto di partenza della campagna contro gli ebrei fu la pubblicazione, nel luglio 1938, del Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della razza), firmato da un gruppo di docenti universitari (sociologici, antropologi, patologi, demografi). In agosto fu poi lanciata la rivista La difesa della razza, che introdusse nel dibattito vere e proprie forme di  razzismo biologico, anche se queste, a differenza del caso nazista, non furono mai prevalenti. Infine, in un discorso tenuto a Trieste il 5 settembre 1938, Mussolini annunciò il varo della legislazione razziale.
I “provvedimenti per la difesa della razza”, introdotti dall’autunno del 1938, decretarono l’espulsione degli ebrei non italiani e l’esclusione dalla scuola italiana di qualunque ordine e grado delle «persone di razza ebraica», sia docenti sia studenti [▶ FONTI, p. 218]. Oltre 200 docenti furono espulsi da scuole e università italiane; molti presero la via dell’esilio, dirigendosi per lo più verso Londra o New York. Gli ebrei furono poi radiati dal Partito fascista, esclusi dalle amministrazioni pubbliche e dalla maggior parte delle attività professionali; i loro patrimoni furono sottoposti a stretti vincoli e i matrimoni misti furono vietati [ 16]

Con l’eccezione di alcune limitate manifestazioni di solidarietà verso gli ebrei, nel complesso la società italiana accettò le misure antisemite del regime, mentre in seno alla Chiesa cattolica le voci contrarie alle persecuzioni rimasero del tutto isolate.

Il fascismo e l’Europa
Fin dalle origini il fascismo aveva invocato una trasformazione radicale dell’ordine europeo disegnato dopo la Grande guerra; fu però nel corso degli anni Trenta che le rivendicazioni nazionali e i progetti di espansione imperiale si intrecciarono con l’idea di una nuova Europa fascista.

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Il fascismo offriva infatti un modello di modernità alternativo sia a quello liberaldemocratico sia a quello comunista, propugnando una diversa soluzione ai problemi che si erano aggravati in Europa all’indomani del disastro bellico: da una parte la questione sociale, da risolvere superando la lotta di classe in favore di un sistema armonico di collaborazione fra i “produttori” (il corporativismo), che di fatto si traduceva però in una conservazione dello status quo in favore del ceto imprenditoriale; dall’altra la questione politico-istituzionale, nell’ambito della quale il fascismo proponeva una concezione organica e gerarchica del potere e delle relazioni sociali, in cui la sfera individuale era subordinata allo Stato (una visione opposta a quella liberale di una società fondata sui diritti individuali).

In Europa, dal Belgio alla Spagna, dalla Francia alla Germania e dalla Iugoslavia alla Romania, tutta una galassia di gruppi e movimenti politici di destra si ispirò all’esempio del fascismo italiano e all’esperienza di Mussolini, a partire da Hitler e dal nazismo tedesco. Una collaborazione diretta legò in particolare il fascismo italiano al gruppo degli Ustascia croati, che rivendicavano l’indipendenza della Croazia dal Regno di Iugoslavia: il movimento, fondato da Ante Pavelic´, trovò in Mussolini un punto di riferimento ideologico e di appoggio logistico (i terroristi croati che nell’ottobre 1934, a Marsiglia, assassinarono il re iugoslavo e il ministro degli Esteri francese Louis Barthou erano stati addestrati dai fascisti italiani).

Nonostante le affinità, i fascismi europei erano troppo radicati nei rispettivi nazionalismi per dar vita a una forma effettiva di coordinamento internazionale. Gli stessi rapporti fra Mussolini e Hitler – segnati tra l’altro dalla sproporzione di forze economiche e militari a vantaggio della Germania – continuarono a oscillare fra la convergenza ideologica e la rivalità geopolitica. Il progetto nazista di un “Nuovo ordine europeo” fondato sulla supremazia della “razza ariana” era solo in parte compatibile con il disegno fascista di un “Nuovo ordine mediterraneo”. L’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista era dunque tutt’altro che scontata e solo una nuova guerra totale le avrebbe compiutamente accomunate in un’esperienza che (come vedremo in seguito) si sarebbe rivelata catastrofica per entrambe.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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