Storie. Il passato nel presente - volume 3

L’associazionismo cattolico
I Patti lateranensi aprirono la via a un nuovo e più attivo coinvolgimento della Chiesa e dei cattolici nella vita culturale e sociale del paese. La fede cattolica e la partecipazione alla politica nazionale non erano più in drastica alternativa, com’era stato nell’Italia liberale, anche se in realtà gli ambiziosi progetti pedagogici del regime non mancarono di creare tensioni con la Chiesa e con l’associazionismo cattolico, che consideravano la scuola e le forme di organizzazione giovanile quali ambiti privilegiati per il proprio intervento. La rivalità fu aspra in particolare con l’Azione cattolica, la più importante fra le organizzazioni di massa della Chiesa, che cercava in ogni modo di tutelare un proprio autonomo spazio di competenza e d’azione. La crisi precipitò nel maggio 1931, quando cominciò una violenta campagna di stampa contro l’Azione cattolica e le sue sedi furono temporaneamente chiuse da Mussolini. In risposta, l’associazione sospese le attività, mentre Pio XI, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, prese apertamente posizione contro l’intento fascista di «monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime». In luglio la crisi fu superata da un compromesso a sostanziale vantaggio delle organizzazioni fasciste, con la limitazione dell’attività associativa cattolica al solo ambito religioso.

Tuttavia, nonostante queste e analoghe tensioni, talvolta aperte e talvolta sotterranee, nel tempo si creò una progressiva compenetrazione tra fascismo e cultura cattolica, basata in particolare sulla comune avversione per alcuni aspetti del mondo moderno – dalla Riforma protestante al Risorgimento laico e liberale – e in funzione di contrasto alle ideologie e ai movimenti di ispirazione socialista e comunista.

Le organizzazioni ricreative
Parallelamente alla diffusione di massa dell’ideologia fascista, il regime approntò un sistema pedagogico, basato su una vasta rete associativa, capace di organizzare la popolazione di ogni fascia d’età e di plasmarla secondo il suo progetto politico-culturale. I cardini fondamentali di questa rete erano l’Opera nazionale Balilla, volta alla formazione dei giovani dagli 8 ai 14 anni, e l’Opera nazionale dopolavoro, destinata a organizzare il tempo libero dei lavoratori. Gli obiettivi della pedagogia fascista erano definiti a partire da un trinomio che corrispondeva a uno dei più ripetuti slogan di Mussolini: «credere, obbedire, combattere». In particolare, l’obiettivo di fondo del regime era educare al nuovo stile di vita che costituiva l’essenza della “rivoluzione fascista” e che si fondava sull’agonismo e sull’eroismo.

Una fondamentale importanza assunse perciò lo sport, inteso come momento di rafforzamento fisico e spirituale in vista del sacrificio per la patria. In questo senso, l’organizzazione dei Mondiali di calcio in Italia nel 1934 e la vittoria della squadra nazionale in quell’anno, ripetutasi nel 1938, rappresentarono l’apogeo dello sport italiano nel mondo e furono ampiamente sfruttati dalla propaganda fascista [ 8].

Modernità e ruralismo
Il fascismo mirava a modernizzare l’Italia e a trasformarla in una grande potenza militare e industriale; al contempo dichiarava però di voler conservare e difendere i valori tradizionali del mondo rurale. Da un lato, infatti, il regime cercò di promuovere l’industria pesante, di estendere la rete delle comunicazioni su strada e ferrovia e di trasformare l’impianto urbanistico e architettonico delle città, anche con il contributo, in quest’ultimo ambito, del razionalismo, una tendenza dell’architettura italiana in sintonia con le più moderne espressioni della scienza costruttiva europea [▶ altri LINGUAGGI, p. 208].
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Dall’altro, nei confronti delle campagne attuò una decisa politica demografica, funzionale soprattutto al reclutamento militare, che prevedeva incentivi per la natalità, la lotta contro l’aborto, una tassa sul celibato, un impegno costante per la promozione e l’assistenza all’infanzia. A queste misure legislative si accompagnò un’azione di propaganda tesa a idealizzare il modello della famiglia tradizionale, basata sul ruolo indiscusso del capofamiglia e sulla completa subordinazione della donna, per lo più relegata alla sfera domestica. L’esclusione sistematica dalla vita pubblica riduceva dunque la donna alla dimensione di madre, utile a procreare nuovi soldati, mentre l’“uomo nuovo” al centro della propaganda del regime si identificava, di fatto, con le virtù del borghese dedito alla famiglia e pronto a morire per il fascismo e per la patria.

5.3 La politica economica fascista

Il corporativismo
Fin dalla seconda metà degli anni Venti, il regime predicò la necessità di superare il conflitto sociale in favore dell’armonica collaborazione fra le classi e in nome dell’unità della comunità nazionale [ 9]. Questa prospettiva ideologica si concretizzò anzitutto con la limitazione delle libertà sindacali, quando il regime impose lo scioglimento della Confederazione generale del lavoro (Cgdl) e delle altre libere associazioni sindacali e introdusse il divieto di sciopero, mentre il patto di Palazzo Vidoni, firmato nel 1925 e trasformato in legge l’anno successivo, prevedeva il riconoscimento da parte della Confindustria del solo sindacato fascista. Questo percorso fu completato dal varo, nell’aprile 1927, della “Carta del lavoro”, che formalizzava la visione fascista del corporativismo.

Sul piano ideologico il corporativismo rappresentava una sintesi originale – una “terza via” – fra liberalismo e socialismo. Le corporazioni (il cui nome echeggiava le organizzazioni professionali di età medievale, che inquadravano sia i padroni delle botteghe sia i loro sottoposti) si fondavano, in teoria, sull’accordo fra i rappresentanti degli imprenditori e quelli dei lavoratori dei principali settori produttivi. In realtà, il sistema organizzato dal Consiglio Nazionale delle Corporazioni dal 1930 entrò in funzione solo nel 1934 e si rivelò economicamente inefficace; inoltre, l’ideale unità di interessi tra le classi si tradusse in uno strumento che, attraverso il controllo dei lavoratori, avvantaggiava solo le esigenze produttive degli imprenditori. Tuttavia, il mito corporativo fu uno potente mezzo di mobilitazione ideologica e propagandistica del regime. Nel 1939 al posto della Camera dei deputati fu aperta la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che però non ebbe alcuna reale funzione economica.

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Dal liberismo all’interventismo dello Stato nell’economia
Fra il 1922 e il 1925 il governo fascista aveva perseguito una politica economica di tipo liberista, favorevole alla concorrenza, alle privatizzazioni dei servizi pubblici, allo snellimento dei vincoli burocratici per le imprese, al contenimento dei salari. Le misure decise in questo periodo – che tra l’altro consolidarono il consenso del mondo imprenditoriale nei confronti di Mussolini – migliorarono i livelli di produttività e favorirono le esportazioni, portando anche al pareggio di bilancio fra entrate e spese. Ben presto, però, queste stesse politiche determinarono un aumento generalizzato dei prezzi (inflazione), un forte decremento del valore della lira e un disavanzo della  bilancia commerciale, dovuto alle importazioni necessarie a sostenere la produzione. Per contrastare queste dinamiche negative, Mussolini impresse allora una svolta radicale alla politica economica, nella direzione di un più forte intervento dello Stato, di una ripresa del protezionismo e di azioni volte a rafforzare la lira.

Il nuovo corso della politica economica interventista fu inaugurato nel 1926, con la cosiddetta “battaglia del grano” [ 10]. Con un programma di incentivi e un’intensa campagna di propaganda si chiamavano le aziende e i lavoratori delle campagne a mobilitarsi per aumentare la produzione, con l’obiettivo di rendere il paese autosufficiente nel settore cerealicolo, in cui era invece gravemente dipendente dalle importazioni, penalizzate dai dazi doganali imposti con le nuove politiche protezionistiche.

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Negli stessi mesi il regime lanciò anche la campagna per fermare a “quota novanta” il cambio tra lira e sterlina (che costituiva allora l’unità di riferimento internazionale), riportando così la valuta ai livelli del periodo prebellico, rispetto ai picchi di 150 lire per una sterlina raggiunti nel dopoguerra. Attraverso questa politica monetaria, oltre a perseguire obiettivi economici generali (fra i quali la rivalutazione dei depositi bancari e la diminuzione del costo delle materie prime importate), Mussolini intendeva anche riaffermare il prestigio politico del paese e la sua immagine in termini di stabilità.

Fra il 1926 e il 1927, la rivalutazione della lira fu perseguita limitando il credito verso famiglie e imprese, riducendo i salari e aumentando i dazi doganali. Il rafforzamento della moneta nazionale consentì di tutelare il potere d’acquisto del ceto medio risparmiatore e di contenere i costi delle importazioni, favorendo le industrie di base che si approvvigionavano all’estero di materie prime e macchinari. D’altra parte, però, furono penalizzate le industrie esportatrici, perché una lira più forte rendeva i prodotti italiani meno competitivi all’estero; inoltre la stretta creditizia e il calo dei prezzi misero in ginocchio molte aziende piccole e medie, in particolare del settore agricolo. Si determinò così una generale contrazione della produzione e dell’occupazione, anche a causa dei tagli ai salari dei lavoratori e della conseguente diminuzione dei consumi.

Le reazioni alla crisi del 1929
La Grande crisi economica scoppiata negli Stati Uniti nel 1929 (che vedremo in seguito) investì l’Italia fra il 1931 e il 1932, con effetti ritardati e meno gravi che in altri paesi europei. Ciò nonostante, l’indice di produzione industriale conobbe una fortissima flessione, tra il 15 e il 25%; la disoccupazione toccò, secondo stime ufficiali, quasi un milione e mezzo di lavoratori non agricoli; il potere d’acquisto dei salari diminuì ulteriormente. Le nuove difficoltà economiche si innestarono sulle conseguenze negative della rivalutazione della lira, che aveva portato a un netto rallentamento delle esportazioni. In coerenza con la svolta antiliberista del 1926, il regime accelerò il riassetto dei rapporti fra politica ed economia, come avvenne in tutti gli altri paesi colpiti dalla crisi. Con la convinzione che la crisi fosse non “nel sistema”, ma “del sistema”, cioè insita nei meccanismi stessi di funzionamento del capitalismo liberista (come affermò Mussolini in un discorso tenuto a Milano nell’ottobre 1932), l’apparato statale venne dotato di strumenti e istituzioni che consentissero al governo di intervenire direttamente nel sistema economico, giocandovi un ruolo da protagonista.

Nel 1931 fu aperto l’Istituto mobiliare italiano (Imi), un istituto di credito a medio e lungo termine che aveva il compito di sostituire le banche nella concessione di prestiti alle imprese, con lo scopo di mettere in sicurezza il sistema bancario nazionale, gravato da crediti inesigibili con i gruppi industriali in difficoltà per gli effetti della crisi, e di mantenere al contempo il sostegno alle grandi aziende. Nel 1933 fu poi creato l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), che acquisì la maggioranza dei principali istituti di credito del paese (Banca commerciale, Credito italiano, Banco di Roma), assumendo così anche il controllo delle molte imprese con essi indebitate. Nato per affrontare una congiuntura economica critica, nel 1937 l’Iri diventò una struttura statale permanente, in grado di intervenire con una partecipazione diretta in settori come la siderurgia, l’industria pesante, la cantieristica navale, l’elettricità e le comunicazioni.

Con il controllo delle principali banche e di alcune delle maggiori industrie del paese, e quindi di una parte considerevole del sistema economico, il regime fascista aveva così assunto tratti per certi versi simili a quelli del sistema sovietico; in realtà, però, l’esistenza di imprese capitalistiche private non fu mai messa in discussione e l’intervento dello Stato si configurò non tanto nella direzione di una vera e propria statalizzazione del settore privato, quanto piuttosto in quella di un forte sostegno pubblico a favore dei maggiori gruppi industriali.

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I lavori pubblici e la “bonifica integrale”
Un altro versante del protagonismo economico assunto dallo Stato fascista, in particolare nella prima metà degli anni Trenta e in reazione alla stagnazione internazionale, fu quello dei lavori pubblici. Per contenere la disoccupazione, e quindi il rischio di tensioni sociali, il regime diede corso a una campagna di interventi sulle infrastrutture, con la costruzione di strade e tratte ferroviarie e la realizzazione di nuovi quartieri nei centri urbani.

Fu inoltre lanciato un programma di “bonifica integrale”, che si prefiggeva il recupero di tutti i terreni paludosi presenti nel paese (in particolare in Veneto, Emilia, Toscana, Lazio e Sardegna) allo scopo di renderli coltivabili [ 11]. Tale progetto fu realizzato solo in parte, ma la bonifica dell’Agro Pontino – un’area punteggiata fin dall’antichità da paludi e acquitrini e infestata dalla malaria – costituì uno dei maggiori successi del regime. Realizzata dall’Opera nazionale combattenti all’inizio degli anni Trenta, la bonifica consentì il recupero di vaste terre incolte e concretizzò quella prospettiva di “ritorno alla terra” che costituiva una componente ideologica essenziale del regime. Sui terreni bonificati furono fondate nuove città, come Littoria (il cui nome nel secondo dopoguerra fu cambiato in Latina), Sabaudia, Pomezia e Aprilia, che resero possibile la colonizzazione di questa zona da parte di contadini provenienti anche da altre regioni.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi