3. Rivoluzioni russe dal basso e dall’alto

percorso 3

Rivoluzioni russe dal basso e dall’alto

Fin da subito, nella pubblicistica del tempo, si contrapposero due visioni della rivoluzione russa – interpretata come rivoluzione politica e sociale – che hanno poi trovato una più articolata sistemazione storiografica. Lo storico americano Richard Pipes ha identificato nel bolscevismo l’esito di una lunga storia dell’intelligencija (“intellighenzia”) russa, che nell’opposizione sempre più radicale alla monarchia zarista maturò un’astratta ideologia rivoluzionaria, incarnata dal marxismo. I bolscevichi furono perciò a suo parere un’avanguardia di cospiratori che riuscì a prendere il potere e, attraverso la guerra civile contro i nemici interni ed esterni, a costruire un regime totalitario. Con un approccio che sposta l’attenzione dalle città operaie alle sollevazioni nelle campagne, lo storico italiano Andrea Graziosi ha invece analizzato l’interazione tra il basso e l’alto e la molteplicità di attori che concorsero agli eventi del 1917 (e ai successivi). Dal suo punto di vista, nell’autunno 1917 i bolscevichi conquistarono il potere soprattutto grazie alla loro volontà di concedere la terra ai contadini e di trarne il consenso, per poi combatterli e schiacciarli in una guerra senza quartiere nella primavera successiva.

testo 1
Richard Edgar Pipes

Il Partito totalitario bolscevico

Il Partito bolscevico era un’organizzazione gerarchica autoritaria, legittimata dal rimando ideologico alla classe operaia. Il suo capo, Lenin, attraverso la presa violenta del potere, riuscì ad imporsi sulla società russa, sconfiggendo in una dura guerra civile le armate dei “bianchi”, a cui i contadini furono sostanzialmente estranei.

Il Partito bolscevico era un’istituzione molto particolare. Era organizzato come un gruppo di congiurati con l’obiettivo specifico di conquistare il potere e di sferrare la rivoluzione dall’alto, prima in Russia e poi nel resto del mondo; aveva una filosofia di fondo e metodi operativi profondamente antidemocratici. Somigliava più a una setta segreta che a un partito nell’accezione comune del termine, e costituì il modello di tutte le organizzazioni totalitarie successive. Vladimir Lenin, suo fondatore e capo indiscusso, il giorno stesso in cui apprese dello scoppio della rivoluzione di febbraio decise che i bolscevichi avrebbero rovesciato il governo provvisorio con le armi. La sua strategia consisteva nel promettere a tutti i gruppi delusi ciò che volevano: la terra ai contadini, la pace ai soldati, le fabbriche agli operai, indipendenza alle minoranze etniche. Nessuno di tali obiettivi rientrava nel programma dei bolscevichi, che intendevano sbarazzarsene non appena ottenuta la supremazia, ma per il momento se ne servivano allo scopo di alienare al governo vaste fasce della popolazione. […]

Ma i bolscevichi erano padroni solo della Russia centrale, ove comunque controllavano esclusivamente le città e i centri industriali. La Siberia e i territori di confine di quello che era stato l’impero russo, abitati da popoli diversi per origine etnica e religione, si erano separati proclamando l’indipendenza perché intendevano far valere i propri diritti nazionali, oppure (come nel caso della Siberia e dei cosacchi) perché non volevano vivere sotto il regime bolscevico. Perciò i bolscevichi dovettero letteralmente conquistare con le armi i territori di confine secessionisti e le campagne, in cui vivevano i quattro quinti della popolazione russa. Non avevano una base di potere molto solida, essendo costituita da 200 mila membri del partito al massimo e da un esercito che in quel momento si stava disgregando; ma il potere è un concetto relativo, e in un paese in cui nessuna organizzazione disponeva di una base così numerosa, si trattava di una forza formidabile. […]

La guerra civile, che dilaniò la Russia per quasi tre anni, fu l’evento più distruttivo nella sua storia dai tempi dell’invasione dei mongoli, nel XIII secolo. Il rancore e la paura causarono atrocità indicibili: milioni di persone persero la vita in battaglia, e per il freddo, la fame e le malattie. Cessati i combattimenti, la Russia fu colpita da una carestia di una gravità senza precedenti fra le popolazioni europee, una carestia di dimensioni asiatiche1, che uccise milioni di persone.

Come molti altri termini applicati alla rivoluzione russa, l’espressione «guerra civile» ha più di un significato. Nell’accezione comune si riferisce al conflitto militare tra l’Armata rossa e svariati eserciti anticomunisti o “bianchi”, che si svolse fra il dicembre 1917 e il novembre 1920, quando ciò che restava delle truppe bianche abbandonò il territorio russo. Ma in origine il termine aveva un significato più vasto.

Per Lenin si trattava del conflitto di classe globale fra il suo partito, l’avanguardia del “proletariato”, e la “borghesia” internazionale: una “guerra di classe” nel senso più ampio, di cui il conflitto armato costituiva solto un aspetto. Lenin aveva previsto che la guerra civile sarebbe scoppiata non appena avesse conquistato il potere, anzi, si può dire che conquistò il potere proprio per scatenarla. Per lui, il golpe d’ottobre sarebbe stato un rischio inutile, se non avesse innescato un conflitto di classe globale. Dieci anni prima della rivoluzione, parlando della Comune di Parigi2, Lenin aveva dato ragione a Marx, ammettendo che il suo fallimento era dovuto al fatto di non essere riusciti a scatenare una guerra civile. Sin dallo scoppio della Prima guerra mondiale, Lenin aveva criticato i socialisti pacifisti che chiedevano di porre fine ai combattimenti. I veri rivoluzionari non desideravano la pace: «È un motto da borghesucci e da preti. La parola d’ordine dei proletari deve essere: guerra civile». «La guerra civile è l’espressione della rivoluzione... Pensare che la rivoluzione sia possibile senza la guerra civile è utopistico come credere alla possibilità di una rivoluzione “pacifica”» scrissero Bucharin3 e Preobrazenskij4 in un manuale di comunismo molto diffuso. […]

Uno dei vantaggi determinanti dei bolscevichi consisteva nella loro unità, mentre i nemici erano divisi. L’Armata rossa aveva un comando solo, omogeneo, che prendeva ordini da un gruppo politico oligarchico molto compatto. Pur essendo spesso in disaccordo, i dirigenti rossi erano in grado di formulare e attuare piani strategici. Le armate bianche erano frammentate e separate da grandi distanze. […]

Gli studiosi della rivoluzione russa in generale sostengono che i bianchi furono sconfitti perché non riuscirono a conquistarsi il sostegno popolare, adducendo a motivo la loro riluttanza ad adottare programmi politici e sociali progressisti. In particolare alcuni affermano che i bianchi persero le simpatie dei contadini russi perché non legittimarono le occupazioni della terra effettuate fra il 1917 e il 1918. È impossibile dimostrare se quest’affermazione sia vera o falsa, perché non si svolsero elezioni, referendum o sondaggi d’opinione che la confermino o la invalidino. Non si tratta di una conclusione cui si sia giunti grazie a dati di fatto, quanto piuttosto di un assunto a priori: fra gli Alleati5 (soprattutto britannici e americani) si dava per scontato che un regime riusciva a restare al potere se godeva senz’altro del sostegno popolare, e inversamente, se non ci riusciva era perché non aveva l’approvazione della gente. Questa premessa, derivante dall’esperienza di democrazie dove il potere si ottiene grazie a elezioni, non trova alcuna applicazione in società dove invece esso si conquista e si mantiene con la forza. Alla domanda «Come fanno i bolscevichi a governare, se non sono sostenuti dalla maggioranza della gente?» il generale Ward, comandante delle truppe britanniche che fiancheggiavano Kolčak a Omsk, rispondeva con una domanda estremamente sensata: «Come è potuto esistere in Russia un governo autocratico da Ivan il Terribile fino a Nicola II?»

La guerra civile non è un problema di popolarità. Non esistono prove che se i contadini russi o ucraini avessero potuto scegliere liberamente fra rossi e bianchi avrebbero optato per i primi. Infatti, anche se i rossi avevano consegnato alle comunità le tenute private dei latifondisti e di altri contadini, mentre i bianchi mantenevano un atteggiamento ambiguo a riguardo, i comunisti persero tutta la popolarità ottenuta da questa azione con la brutale decisione di requisire le derrate alimentari e con la guerra di classe nei villaggi. I documenti in nostro possesso indicano che durante la guerra civile i contadini si tennero in disparte, imprecando contro entrambi gli schieramenti e chiedendo soltanto di essere lasciati in pace. Quasi tutti gli osservatori contemporanei notarono che quando i rossi assumevano il controllo di una zona, i residenti volevano i bianchi, ma quando erano sottoposti per un certo periodo al governo dei bianchi desideravano il ritorno dei rossi. Questo rigetto verso entrambi i contendenti è confermato in egual misura da conservatori, liberali e radicali russi, e dagli osservatori stranieri: era il retaggio di secoli di patrimonialismo6, un regime sotto il quale la popolazione era considerata soltanto un destinatario delle imposizioni dall’alto, e quindi non poteva sviluppare nessuna parvenza di senso civico. Petr Struve7, che nel 1918 era vissuto sotto il regime bolscevico, scrisse: «La popolazione era sempre un elemento completamente passivo, oppure si organizzava in bande di verdi8 e altri, dimostrando la stessa ostilità per entrambi gli schieramenti. La guerra civile fra rossi e bianchi fu sempre condotta da minoranze relativamente poco significative, mentre la vasta maggioranza della popolazione conservava una stupefacente passività». Denikin considerava i contadini «confusi e senza radici. Non provavano nulla né per “la politica”, né per “l’Assemblea costituente”, né per “la Repubblica” né per “lo zar”». Anche secondo il menscevico Martov, durante la guerra civile le masse erano «indifferenti e passive».

I bolscevichi, assistiti da menscevichi e socialisti rivoluzionari, riuscirono ad attirare dalla propria parte una buona percentuale della classe operaia, ma non è affatto scontato che gli operai dell’industria (meno di un milione) fossero abbastanza numerosi da far pendere la bilancia in loro favore.


tratto da Il regime bolscevico. Dal terrore rosso alla morte di Lenin, Mondadori, Milano 2000

 >> pagina 184 

testo 2
Andrea Graziosi

I bolscevichi e le campagne

La presa del potere bolscevica assunse una forza dirompente e inattesa perché coincise con l’insurrezione dei contadini, interpretandone le esigenze profonde. Il gruppo di rivoluzionari raccolto intorno a Lenin poté così tentare la difficile via di un esperimento socialista nel paese più arretrato d’Europa.

Mentre gli avversari del colpo1 erano ancora sotto shock, Lenin si mosse con straordinaria risolutezza emanando decreti di forza impressionante, che riunivano il meglio delle tradizioni socialiste, democratiche e persino liberali.

Quello sulla pace arrivò solo due ore dopo l’arresto del governo, seguito il giorno dopo da quello sulla terra. Entrambi furono approvati dal Congresso nazionale dei soviet, nella sua prima seduta, assicurando in qualche modo la legittimità del nuovo potere. Il 15 novembre un nuovo decreto proclamava l’uguaglianza e la sovranità dei popoli dell’ex impero, riconoscendone il diritto all’autodeterminazione e alla secessione. Esso fu presto seguito da altri provvedimenti che abolivano la pena di morte, rimessa in vigore da Kornilov, e introducevano il controllo operaio, nonché misure liberali in materia di previdenza sociale, istruzione ecc.

L’impatto fu enorme, sia nel paese, dove queste misure, tanto desiderate, rafforzarono l’appoggio al governo di buona parte delle campagne, dell’esercito e delle minoranze nazionali, sia fuori di esso. Per Kohn Hans2, Wilson, Lenin e Gandhi sono i tre grandi leader emersi nel 1917-20. Ma se il primo era troppo liberale e sofisticato per comunicare con le masse, e l’appello del terzo, benché fortissimo, restò circoscritto, il messaggio di Lenin e dei suoi decreti ebbe subito valenza universale. Esso comprendeva tra l’altro anche l’indipendenza dell’Asia, voluta anche da Wilson e poi da Roosevelt, e di cui Gandhi fu il primo grande eroe.

Iniziava così la straordinaria avventura internazionale del comunismo, nuova parareligione laica le cui sorti, pur rimanendo strettamente intrecciate con quelle del paese in cui nacque, erano destinate a seguire percorsi in parte indipendenti da esse. Benché tra le ragioni che ne permisero la nascita vi fosse la promessa di pace immediata a un mondo che soffriva da tre anni la guerra, questa nuova parareligione si distaccava dalla propria madre, la socialdemocrazia umanitaria di fine Ottocento, anche per il culto della violenza e dell’azione risolutiva, che indicava come il suo legame con la guerra non consistesse solo nel suo rifiuto. Essa prometteva inoltre ai contadini e ai popoli oppressi di tutto il mondo terra e libertà, e si sarebbe così identificata con un pezzo fondamentale del XX secolo.

Vi era soprattutto la contraddizione tra il bellissimo 1917 cantato da Pierre Pascal3, immensa rivolta contro tutte le nequizie, oppressioni, crudeltà e ipocrisie, e l’esplosione parossistica di questi stessi fenomeni. Già prevista da Bakunin4, per il quale la rivoluzione avrebbe fatto inevitabilmente emergere l’orribile fango accumulato nel profondo della società, questa esplosione fu denunciata nel 1917 da Veresaev5 e Gor’kij6. Quest’ultimo, poi artefice dell’ideologia stalinista ma allora su posizioni critiche, presentò le rivolte di fine anno come opera di ubriaconi e fannulloni invasati che avevano insediato al potere «veri e propri delinquenti», e si scagliò contro i bolscevichi, responsabili di aver cavalcato l’«asiatismo» ignorante di masse che devastavano la civiltà costruita a caro prezzo nei decenni precedenti. In molti centri urbani, soprattutto in quelli minori, il potere cadde in effetti nelle mani di quelli che Bunin7 chiamava «giovani uomini con il fucile», che potevano essere tanto commissari rossi che membri di bande criminali, o diverse commistioni tra le due cose. Nella maggioranza dei villaggi, però, il potere passò nelle mani dell’élite contadina, che assunse il controllo dei soviet e realizzò il programma contadino. I villaggi smisero di pagare le tasse, di fornire giovani all’esercito e di consegnare le quote previste dagli ammassi. Soprattutto, in pochi mesi i contadini distrussero quanto era rimasto dei latifondi e spazzarono via le proprietà urbane e borghesi, nonché i kulak e molte delle aziende create dalle riforme di Stolypin8. Ebbe così luogo quella che fu chiamata la serednjakizacija delle campagne, cioè la tendenza alla omogeneizzazione della loro struttura sociale (serednjak è in russo il contadino medio), una tendenza rafforzata dalla distribuzione di terra e inventario. La terra che i contadini si divisero non era molta, specie se comparata a quella che già possedevano, ma bastò a garantire circa un ettaro addizionale a ciascun nucleo familiare, di più nel caso delle famiglie povere. I bolscevichi furono sorpresi da questa rivoluzione così facile e teoricamente poco chiara, che li aveva portati senza troppi sforzi a occupare un posto che secondo le loro stesse teorie non gli spettava. […]

Con qualche eccezione come gli armeni, contrarissimi all’annuncio della restituzione dei territori conquistati all’Impero ottomano e desiderosi di continuare la guerra, le nazionalità guardavano con simpatia a un governo che ne aveva decretato i diritti, proclamando che, come disse Stalin ai finlandesi9, «non saremmo democratici (non dico socialisti) se non riconoscessimo ai popoli della Russia il diritto di libera autodeterminazione». Soprattutto, a favore di Lenin erano i villaggi, dove il bolscevismo acquistò grande popolarità. A opporsi, scioperando o esprimendo comunque la sua condanna, fu dapprima la sola intelligenczja (“intellighenzia”), compresa quella di sinistra. Come hanno notato Heller e Nekrić10, «anche se scossa dal fatto che la rivoluzione non assomigliava al sogno che le era apparso per un secolo, [essa] trovò tuttavia il coraggio di battersi contro “l’oppressore violento e brutale”». La repressione fu subito dura e lo scontro rafforzò i pregiudizi anti-intellettuali già diffusi in una larga parte del Partito bolscevico, soprattutto tra i praktiki11 e i nuovi militanti di bassa estrazione sociale. Invece della rivoluzione degli intellettuali, prevista da Sorel e Machajskij12, l’Ottobre cominciò a definirsi come una rivoluzione contro gli intellettuali, della quale poi Stalin sarebbe diventato il simbolo, e questo malgrado Lenin e Trockij, senza i quali essa non sarebbe stata.

Ma nazionalità e contadini appoggiavano il governo perché questo aveva fatto proprio il loro programma. Era questo il nocciolo di quello che Cinnella ha chiamato l’«equivoco» dell’Ottobre, quando il gruppo più decisamente statalista dell’universo politico russo prese il potere cavalcando un movimento popolare con forti contenuti localistici (e nazionali in periferia) e comunque nemico di gerarchie «alte», centralismo e militarizzazione, e non solo nelle forme tradizionali in cui si erano espressi fino ad allora. […]

Ma quando a novembre circa 41 milioni di cittadini si recarono alle urne la natura dell’equivoco si fece ancora più chiara. A conferma delle radici della loro forza i bolscevichi presero circa il 24% dei voti e 175 seggi su poco più di 700, guadagnati soprattutto nei quartieri operai e tra i soldati delle guarnigioni cittadine e dei fronti settentrionale e occidentale, ma anche tra nazionalità come gli estoni, dove – anche a causa del desiderio di trovare protezione a Mosca contro i tedeschi – presero il 40% dei voti, un dato che stride con gli eventi successivi al 1939. Erano tanti se confrontati con i 16 menscevichi e i 17 cadetti, che confermavano invece la loro debolezza, ma non a confronto delle decine di seggi presi dalle minoranze nazionali e soprattutto a fronte dei più di 400 seggi conquistati dai socialisti-rivoluzionari, di cui solo una quarantina andarono alla sinistra filobolscevica e 80 ai socialisti-rivoluzionari ucraini. Il paese e le campagne confermavano quindi la loro scelta socialista, che era però una scelta socialista diversa da quella bolscevica. Era una sconfessione dell’Ottobre, che rafforzò i dubbi già presenti nel partito e anche nello stesso Lenin, il quale esitava a definire quella da lui diretta una rivoluzione «socialista».


tratto da L’Unione Sovietica di Lenin e di Stalin, Il Mulino, Bologna 2007

 >> pagina 187

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Il Partito bolscevico costituì il modello di tutte le organizzazioni totalitarie successive.

b) Golpe di ottobre.

c) Comunismo: nuova parareligione laica.

d) L’«equivoco» dell’Ottobre.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


  Il partito totalitario I bolscevichi e le campagne 
TESI    
ARGOMENTAZIONI    
PAROLE CHIAVE    
Dal dibattito storiografico al DEBATE

La domanda a cui i due saggi proposti intendono dare risposta è la seguente: Come ottennero il potere i bolscevichi in Russia?


«Il potere è un concetto relativo», ci ricorda Pipes, e può essere ottenuto tramite la forza o tramite il consenso.


Riflettiamo insieme ai compagni e all’insegnante sulle categorie di “potere”, “forza” e “consenso”, a partire dall’uso che ne viene fatto nei due saggi riportati, e iniziamo il debate!


a) Creazione dei gruppi di lavoro La classe si divide in due gruppi che sostengono tesi opposte:

Il potere si ottiene tramite …

Gruppo 1: … la forza.

Gruppo 2: … il consenso.


b) competenza DIGITALE Laboratorio di ricerca a casa e in classe In classe si propone la lettura del lemma che l’Enciclopedia online Treccani dedica a “Potere” (www.treccani.it/enciclopedia/potere/). In seguito, all’interno di ciascun gruppo, raccogliamo, con la guida dell’insegnante, alcune informazioni che aiutino a comprendere al meglio l’uso di questo concetto inquadrandolo nella propria tesi.


c) Preparazione di argomentazioni e controargomentazioni Ciascun gruppo prepara le proprie argomentazioni e riflette sulle possibili repliche alle tesi del gruppo antagonista. Possono essere richiamate in via esemplificativa le argomentazioni utilizzate dagli storici dei brani presenti nel percorso.


d) Dibattito Ciascun gruppo sceglie uno o più relatori che espongano almeno tre argomentazioni a favore della propria tesi, sostenendole con prove della loro validità (esempi, analogie, fatti concreti, dati statistici, opinioni autorevoli, principi universalmente riconosciuti, ecc.). In seguito, ciascun gruppo espone le controargomentazioni rispetto alle argomentazioni antagoniste. Con la guida dell’insegnante si conclude il dibattito con la sintesi e il bilanciamento delle posizioni.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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