Lo scambio di popolazioni
Lo spostamento forzato delle popolazioni civili è uno degli aspetti più caratteristici e drammatici della storia del Novecento. Un primo episodio si verificò con le guerre balcaniche del 1912-13, che segnarono la ritirata dell’Impero ottomano dalla penisola balcanica e la conseguente fuga di centinaia di migliaia di musulmani verso l’Anatolia. Nel quadro della guerra greco-turca del 1919-23 avvenne invece il primo vero e proprio scambio di popolazioni tra Stati belligeranti.
La vicenda greco-turca
Sulle coste dell’Asia Minore erano presenti fin dall’età antica insediamenti greci, che durante il dominio bizantino si erano convertiti alla religione cristiana (diventata greco-ortodossa dopo lo scisma del X secolo). Nel corso dell’Ottocento, sotto l’Impero ottomano, nel quale l’islam era la religione di Stato, alle varie comunità greche dell’Egeo, della Tracia e del Mar Nero era stata concessa un’organizzazione amministrativa autonoma, il cosiddetto millet greco-ortodosso (dall’arabo milla, termine che indica appunto una confessione religiosa o una comunità non musulmana). Al tempo stesso, la costituzione dello Stato greco (1832) aveva alimentato il nazionalismo ellenico, che mirava a includere le comunità greco-ortodosse dell’Asia Minore, rimaste al di fuori dai confini del nuovo Stato.
Durante la Grande guerra le comunità greche dell’Asia Minore si ampliarono, a seguito dell’afflusso di rifugiati provenienti dalle coste del Mar Nero. Nel 1919, mentre i nazionalisti turchi di Mustafa Kemal procedevano a una violenta “turchizzazione” dell’Anatolia, i nazionalisti greci cercarono invece di realizzare i loro progetti di espansione territoriale. L’esercito greco occupò larga parte dell’Anatolia occidentale, ma fu respinto e costretto alla ritirata dalla controffensiva turca. Centinaia di migliaia di cristiani si concentrarono allora sulla costa; nel settembre 1922, a Smirne (Izmir), i rifugiati cristiani furono oggetto di violenze e persecuzioni dopo l’ingresso in città delle forze nazionaliste turche, che miravano a liquidare le minoranze greca e armena. Questi eventi vennero in seguito ricordati dai greci come la “catastrofe dell’Asia Minore”. Nel gennaio 1923 fu adottata la Convenzione di Losanna, in base alla quale, a partire dal 1° maggio successivo, sarebbe avvenuto «uno scambio forzoso tra cittadini turchi di religione ortodossa residenti in territorio turco e cittadini greci di religione musulmana residenti in territorio greco»: le diverse nazionalità erano dunque definite a partire dalla fede religiosa. È difficile quantificare il numero dei profughi: le stime più probabili parlano di circa 400 000 musulmani espulsi dalla Grecia e oltre un milione di greco-ortodossi dalla Turchia. Per la Grecia si pose un enorme problema di gestione di questo improvviso afflusso di profughi, pari a circa un quarto della propria popolazione.
Un precedente pericoloso
La Convenzione di Losanna, avvallata dall’Alto commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni, il norvegese Fridtjof Nansen, legittimava a posteriori anche i trasferimenti coatti di popolazioni avvenuti nel corso del decennio precedente. Lo scambio di popolazioni rappresentava un aspetto di quelle politiche di “purificazione” (talvolta note con il termine di “pulizie etniche”) che miravano a rendere omogenee le comunità attraverso l’espulsione violenta delle minoranze (religiose o nazionali) e che si sarebbero replicate più volte nel Novecento, anche con la motivazione di evitare stermini e violenze future.