4.1 La guerra continua: le violenze postbelliche

Per riprendere il filo…

La Grande guerra aveva devastato il continente europeo per oltre quattro anni, causando milioni di vittime, la distruzione di città e campagne, il collasso dell’economia, il deterioramento della vita civile di interi paesi. Il conflitto portò anche a una ridefinizione complessiva dell’assetto geopolitico europeo, a partire dalla dissoluzione dei quattro grandi imperi multinazionali che avevano a lungo dominato uno spazio esteso dall’Europa centrale all’Estremo Oriente e dal Mar Baltico al Mar Nero, fino all’Asia Minore e al Mediterraneo orientale: gli Imperi tedesco, russo, austro-ungarico e ottomano.

4.1 La guerra continua: le violenze postbelliche

Un dopoguerra di violenza
La Grande guerra finì ufficialmente nel novembre del 1918, quando cessarono le ostilità sul fronte occidentale. Nell’Europa centrorientale, tuttavia, l’instabilità e la conflittualità durarono a lungo. I gravi problemi sociali e politici che scaturirono dalla disgregazione dei grandi imperi multinazionali e le vicende legate al processo rivoluzionario russo continuarono infatti ad alimentare violenze, al punto che si può dire che in molte regioni la guerra scoppiata nel 1914 sia durata fino al 1922-23. La guerra di movimento, che sul fronte orientale era stata prevalente rispetto alla guerra di posizione tipica del fronte occidentale, aveva abbattuto ogni confine tra fronte e retrovie, accelerando il crollo delle istituzioni statali.

Anche nell’Europa occidentale, tuttavia, il ritorno alla normalità fu molto travagliato, sia a causa delle forti tensioni politico-sociali provocate o acuite dalla guerra, sia per le disastrose condizioni economiche e finanziarie in cui si trovava la maggior parte degli Stati coinvolti nel conflitto.

Le conseguenze dell’esperienza bellica
La guerra influenzò profondamente la vita quotidiana, oltreché la vita politica, del dopoguerra. L’assuefazione all’uso delle armi, alla sofferenza e alla morte aprì la strada a una vera e propria brutalizzazione delle relazioni sociali e politiche, che comportò l’ulteriore ricorso alla violenza in tempo di pace. Il conflitto ebbe un impatto psicologico profondo nell’opinione pubblica, di cui era espressione materiale lo stesso paesaggio postbellico, costellato di cimiteri e di monumenti ai caduti, strumenti di costruzione di una memoria pubblica volta a condividere il ricordo ossessivo di un’esperienza traumatica. Molti ex soldati erano vittime di un’acuta sindrome reducista, dovuta alla difficoltà di riadattarsi alla vita civile. Una categoria particolare tra i reduci era quella dei mutilati di guerra, soldati che avevano subito gravi ferite e menomazioni a seguito delle quali non erano in grado di reinserirsi attivamente nella vita sociale e professionale; per sopperire alle loro esigenze materiali fiorirono numerose associazioni.

Ex ufficiali ed ex soldati (soprattutto quelli delle unità speciali [▶ cap. 2.5]) tendevano a considerarsi eroi che avevano sacrificato tutto per la patria e percepivano nei loro confronti una diffusa ostilità, quando non un aperto disprezzo, da parte di coloro che si erano opposti alla guerra. Bollavano così come “imboscati”, “disfattisti” o “traditori” tutti coloro che avevano lavorato nelle retrovie o che avevano sostenuto l’antimilitarismo. Tra gli ex combattenti si sviluppò un forte senso di solidarietà, originato dall’esperienza quotidiana della guerra di trincea. Questi legami solidali fra ristretti gruppi di uomini presero il nome di cameratismo, ispirando non solo i circoli di reduci, ma anche, come vedremo, i movimenti nazionalisti radicali.

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L’economia del dopoguerra
Nel corso del conflitto la classe operaia fu in gran parte mobilitata al fronte, in seguito alla coscrizione obbligatoria; la manodopera nelle fabbriche fu dunque integrata da un numero crescente di donne, che svolsero un ruolo fondamentale nella produzione a fini bellici [▶ cap. 2.5]. Dopo il 1918 molte di loro tornarono a mansioni più tradizionali, ma queste nuove esperienze di lavoro e di vita contribuirono a rafforzare la rivendicazione di diritti politici e di spazi sociali fino ad allora negati [ 1]. Le fabbriche si popolarono inoltre di giovani operai provenienti dalle campagne, meno specializzati e meno inquadrati sul piano sindacale e politico. Essi giocarono una parte attiva e significativa nelle agitazioni del dopoguerra, spingendo per trasformazioni rivoluzionarie degli equilibri sociali dentro e fuori la fabbrica.

L’interruzione degli scambi commerciali dovuta al conflitto contribuì a una grave recessione economica e a un incremento abnorme dell’inflazione, soprattutto dell’Europa centrorientale, che bruciò il risparmio (gli ingenti capitali di imprenditori benestanti ma anche i depositi bancari della gente comune) e causò una drastica diminuzione del potere d’acquisto dei salari. Inoltre, una volta deposte le armi, almeno nell’Europa occidentale, si pose il problema della riconversione della produzione bellica alle esigenze del tempo di pace, con il riadattamento delle strutture industriali e un conseguente aumento della disoccupazione. Gli anni di guerra avevano già mutato radicalmente i rapporti fra Stato, economia e società; il grado di intervento statale nella sfera della produzione e della distribuzione si ampliò ora ulteriormente, facendo sentire tutto il suo peso nella ricostruzione postbellica delle città, delle infrastrutture e delle vie di comunicazione distrutte dai bombardamenti.

Le agitazioni sociali
Nel contesto di società traumatizzate dall’esperienza della guerra e piegate dalle sue dirompenti conseguenze economiche e politiche, divamparono rivolte contadine, scioperi operai, atti di insubordinazione militare, combattimenti tra gruppi operai armati e forze dell’ordine o unità paramilitari. A incoraggiare l’azione di operai e contadini e a rafforzare il loro slancio utopico contribuì il mito della rivoluzione russa , intesa come il momento aurorale di un nuovo e più avanzato ordine sociale. A fronte di questo mito carico di senso apocalittico, che immaginava una rottura radicale nella storia e l’avvento di un “tempo nuovo”, il biennio 1919 - 20 vide anche profilarsi esperimenti di democrazia operaia , nella forma di consigli di fabbrica e commissioni per il controllo dal basso della produzione industriale: tentativi concreti di rovesciamento dei rapporti tra capitale e lavoro, ispirati all’esempio dei soviet russi . In breve tempo, tuttavia, questi esperimenti fallirono o persero la loro originaria spinta innovatrice.

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4.2 L’Europa centrorientale

Il caos del dopoguerra

Fino al 1922-23, come si è detto, l’immenso spazio degli ex Imperi russo, austro-ungarico e ottomano continuò a essere sconvolto da molteplici conflitti, in cui si fronteggiarono eserciti regolari, unità paramilitari e formazioni politiche armate. I paesi affacciati sul Mar Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania, da secoli appartenenti all’Impero russo, ma in parte occupati dall’Impero tedesco durante la guerra – assunsero una prima forma di indipendenza, anche se sottoposta alla tutela tedesca, con il Trattato di Brest-Litovsk, nel marzo 1918 [▶ cap. 2.6]. Dopo il crollo della Germania imperiale, nel novembre successivo, i paesi baltici diventarono, insieme alla Slesia polacca, l’epicentro di violentissimi scontri volti a definire i nuovi confini e a ottenere la sovranità su città plurinazionali come Riga e Vilnius. Protagonisti di questi episodi furono in particolare i Freikorps [ 2], formazioni paramilitari composte da mercenari ed ex combattenti dell’esercito tedesco imbevuti di antibolscevismo e di antisemitismo radicale, che cercavano di difendere la Prussia orientale dall’avanzata dell’Armata rossa e di espandere le comunità tedesche verso est. Alcune di queste formazioni, ufficialmente smantellate nel 1920, continuarono a sopravvivere nella Germania di Weimar, destabilizzandone le nuove istituzioni democratiche.

La caduta degli Imperi russo e austro-ungarico e la sconfitta dell’Impero tedesco crearono inoltre i presupposti per la costituzione di uno Stato polacco indipendente, sotto la guida politica e militare di Joseph Piłsudski. Nel quadro della guerra sovietico-polacca del 1919-20 [▶ cap. 3.3], Piłsudski si impadronì di Vilnius, a nord, e di Leopoli, a sud, e conquistò parte della Lituania e dell’Ucraina, che dopo una confusa fase di combattimenti furono incluse nella Polonia del dopoguerra.

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La nascita della Repubblica turca
La disgregazione dell’Impero ottomano avvenne più lentamente – ma non per questo senza gravi traumi – di quella dell’Impero russo, tra il 1918 e il 1922. L’armistizio, firmato il 30 ottobre 1918 a Mudros [▶ cap. 2.6], segnò la capitolazione ottomana di fronte alle forze britanniche. I capi del Comitato di unione e progresso, espressione politica dei Giovani turchi che aveva governato dal 1908 fino alla fine della guerra, abbandonarono precipitosamente il paese nel timore di essere processati per i massacri degli armeni [▶ cap. 2.4] (negli anni successivi furono poi quasi tutti assassinati in esilio da un gruppo terrorista armeno). Gli ufficiali unionisti – cioè quelli rimasti fedeli al programma nazionalista del Comitato di unione e progresso – si riorganizzarono in una nuova formazione, contrapposta al sultano Mehmet VI. Se l’obiettivo del sultanato era ricostituire l’impero multinazionale travolto dal conflitto mondiale, lo scopo dei ribelli era invece costituire uno Stato turco, rinunciando ai possedimenti imperiali per difendere piuttosto i territori turcofoni dell’Anatolia, organizzati sotto l’Assemblea nazionale di Ankara. A guidare il fronte rivoluzionario nazionalista si pose Mustafa Kemal (1881-1938), un generale dell’esercito ottomano nativo di Salonicco.

Questi eventi si intrecciarono con l’intervento delle truppe greche che, dopo essersi schierate con l’Intesa verso la fine del conflitto, e dunque contro l’Impero ottomano, occuparono Smirne (Izmir) nel maggio 1919. Nell’estate del 1920 l’esercito greco allargò la sua zona di occupazione a tutta l’Asia Minore e alla Tracia, mettendo in estrema difficoltà le forze militari nazionaliste turche, composte soprattutto di bande irregolari e unità paramilitari. Dopo una serie di alterne vicende, le formazioni turche presero comunque il sopravvento, facendo il loro ingresso, nel settembre 1922, a Izmir, distrutta da un catastrofico incendio. L’esito dello scontro fu drammatico, con l’espulsione della popolazione greca residente in Asia Minore [▶ fenomeni].

Forte di questa vittoria, nel novembre del 1922 l’Assemblea nazionale di Ankara dichiarò l’abolizione del sultanato e proclamò la nascita della nuova Repubblica turca, che, rompendo drasticamente con il passato ottomano, ambiva a plasmare una nuova identità laica e secolare per il paese. In particolare, fu istituito il suffragio universale e affermata la parità dei sessi; i simboli religiosi furono banditi dalle sedi istituzionali, le associazioni religiose poste sotto controllo statale, l’uso del velo islamico proibito alle donne nei luoghi pubblici. A suggello di questa rottura rivoluzionaria, fu adottato l’alfabeto latino in luogo di quello arabo-ottomano.

Nel luglio 1923, infine, la nuova Turchia e le potenze dell’Intesa firmarono un accordo di pace a Losanna, che, dopo difficili negoziati, definì i confini del paese, distrutto e spopolato dal ciclo di conflitti cominciato nel 1911. Con la proclamazione della Repubblica nell’ottobre 1923, Mustafa Kemal – da allora detto Ataturk, cioè “padre dei turchi” – dava vita a un progetto di modernizzazione dall’alto che mirava a una trasformazione rivoluzionaria della società e dell’economia attraverso un massiccio intervento statale. Oltre che da questi elementi politici e ideologici di matrice vagamente socialista, tuttavia, la nuova Repubblica kemalista era influenzata, non senza contraddizioni, anche da altri modelli: da quello della Rivoluzione francese, da cui ereditava l’idea di laicità, a quello del fascismo italiano, con il quale condivideva il forte richiamo al nazionalismo e un sistema politico fondato sull’esistenza del partito unico.

  fenomeni

Lo scambio di popolazioni

Lo spostamento forzato delle popolazioni civili è uno degli aspetti più caratteristici e drammatici della storia del Novecento. Un primo episodio si verificò con le guerre balcaniche del 1912-13, che segnarono la ritirata dell’Impero ottomano dalla penisola balcanica e la conseguente fuga di centinaia di migliaia di musulmani verso l’Anatolia. Nel quadro della guerra greco-turca del 1919-23 avvenne invece il primo vero e proprio scambio di popolazioni tra Stati belligeranti. 

La vicenda greco-turca

Sulle coste dell’Asia Minore erano presenti fin dall’età antica insediamenti greci, che durante il dominio bizantino si erano convertiti alla religione cristiana (diventata greco-ortodossa dopo lo scisma del X secolo). Nel corso dell’Ottocento, sotto l’Impero ottomano, nel quale l’islam era la religione di Stato, alle varie comunità greche dell’Egeo, della Tracia e del Mar Nero era stata concessa un’organizzazione amministrativa autonoma, il cosiddetto millet greco-ortodosso (dall’arabo milla, termine che indica appunto una confessione religiosa o una comunità non musulmana). Al tempo stesso, la costituzione dello Stato greco (1832) aveva alimentato il nazionalismo ellenico, che mirava a includere le comunità greco-ortodosse dell’Asia Minore, rimaste al di fuori dai confini del nuovo Stato.

Durante la Grande guerra le comunità greche dell’Asia Minore si ampliarono, a seguito dell’afflusso di rifugiati provenienti dalle coste del Mar Nero. Nel 1919, mentre i nazionalisti turchi di Mustafa Kemal procedevano a una violenta “turchizzazione” dell’Anatolia, i nazionalisti greci cercarono invece di realizzare i loro progetti di espansione territoriale. L’esercito greco occupò larga parte dell’Anatolia occidentale, ma fu respinto e costretto alla ritirata dalla controffensiva turca. Centinaia di migliaia di cristiani si concentrarono allora sulla costa; nel settembre 1922, a Smirne (Izmir), i rifugiati cristiani furono oggetto di violenze e persecuzioni dopo l’ingresso in città delle forze nazionaliste turche, che miravano a liquidare le minoranze greca e armena. Questi eventi vennero in seguito ricordati dai greci come la “catastrofe dell’Asia Minore”. Nel gennaio 1923 fu adottata la Convenzione di Losanna, in base alla quale, a partire dal 1° maggio successivo, sarebbe avvenuto «uno scambio forzoso tra cittadini turchi di religione ortodossa residenti in territorio turco e cittadini greci di religione musulmana residenti in territorio greco»: le diverse nazionalità erano dunque definite a partire dalla fede religiosa. È difficile quantificare il numero dei profughi: le stime più probabili parlano di circa 400 000 musulmani espulsi dalla Grecia e oltre un milione di greco-ortodossi dalla Turchia. Per la Grecia si pose un enorme problema di gestione di questo improvviso afflusso di profughi, pari a circa un quarto della propria popolazione.

Un precedente pericoloso

La Convenzione di Losanna, avvallata dall’Alto commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni, il norvegese Fridtjof Nansen, legittimava a posteriori anche i trasferimenti coatti di popolazioni avvenuti nel corso del decennio precedente. Lo scambio di popolazioni rappresentava un aspetto di quelle politiche di “purificazione” (talvolta note con il termine di “pulizie etniche”) che miravano a rendere omogenee le comunità attraverso l’espulsione violenta delle minoranze (religiose o nazionali) e che si sarebbero replicate più volte nel Novecento, anche con la motivazione di evitare stermini e violenze future.

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L’eredità dell’Impero austro-ungarico
Sulle macerie dell’Impero austro-ungarico si costituirono invece ben cinque nuovi Stati: l’Austria, l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Parte dei territori appartenuti all’Impero furono inoltre attribuiti ai Regni di Romania e d’Italia. Nonostante si proclamassero “Stati nazionali” fondati sul principio di autodeterminazione dei popoli, molte delle nuove compagini istituzionali dell’area balcanica e danubiana comprendevano lingue, culture e religioni diverse, conservando quindi il carattere multinazionale che era stato proprio dell’Impero austro-ungarico. Al tempo stesso, però, la presenza di una nazionalità dominante che rivendicava la supremazia sulle minoranze creava le condizioni per ulteriori conflitti, nonostante i provvedimenti adottati per garantirne i diritti.

A seguito del collasso delle istituzioni dell’Impero austro-ungarico, l’Austria – un paese ormai troppo piccolo rispetto al suo passato imperiale – aspirava a un congiungimento con la Germania, in nome della comune appartenenza alla cultura tedesca, ma i trattati di pace lo impedirono. Intanto, nell’autunno del 1918 una rivoluzione a Vienna portò alla proclamazione della Repubblica democratica, con la formazione di un governo socialdemocratico che diede vita a un avanzato sistema di protezione sociale, avviò programmi di edilizia popolare e sostenne la vita associativa della città, diventando un modello per il socialismo europeo. Nel paese, tuttavia, permaneva una forte divisione fra una Vienna “rossa”, roccaforte della socialdemocrazia, e le campagne arretrate e reazionarie [▶ luoghi].

L’area danubiana e i Balcani
Anche in Ungheria – che già all’interno dell’Impero austro-ungarico costituiva una sorta di regno nazionale – le condizioni postbelliche favorirono il successo delle formazioni politiche rivoluzionarie. Così, nel marzo del 1919 l’alleanza tra socialisti e comunisti portò alla costituzione di una Repubblica consiliare ispirata dall’esempio e dal mito della rivoluzione bolscevica e guidata dal rivoluzionario Bela Kun (1886-1938), che cercò di affermare il suo esperimento socialista anche appellandosi al sentimento nazionalista della popolazione. Tuttavia, all’inizio di agosto – dopo soli 133 giorni – la reazione delle forze conservatrici guidate dall’ammiraglio Miklós Horthy e l’avanzata dell’esercito romeno, che aveva approfittato dei disordini postbellici per invadere il paese con l’appoggio di Regno Unito e Francia, posero fine al governo rivoluzionario. Horthy instaurò allora un regime autoritario appoggiato sia dai grandi proprietari terrieri sia dai contadini e diede corso a una repressione violenta, tra le cui vittime vi furono anche molti ebrei, identificati con il potere comunista secondo un mito molto diffuso in Europa centrorientale. La svolta autoritaria e anticomunista si intrecciò dunque con una forte vena antisemita che aveva una lunga tradizione nelle campagne.

La Cecoslovacchia si formò invece dall’aggregazione dei territori ex austro-ungarici della Moravia, della Boemia e della Slovacchia, mentre il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni fu istituito a partire dal nucleo preesistente dello Stato serbo. Non si trattò, tuttavia, di una pura e semplice estensione del nazionalismo serbo, perché a legittimare il nuovo Stato contribuì l’ideologia dello iugoslavismo, che da tempo ambiva a riunire sotto una stessa autorità politica tutti gli slavi del Sud.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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