I pogrom nell’Impero russo
Le manifestazioni antisemite, che avevano una lunga tradizione in tutta Europa fin dal tardo Medioevo, avevano dato vita nell’Impero russo a pogrom particolarmente gravi e sanguinosi negli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, e nei primi anni del Novecento, soprattutto durante la rivoluzione del 1905, quando nella confusione dei moti di protesta, frange antisemite della popolazione si scagliarono contro la comunità ebraica.
Gli ebrei, nell’Impero russo, erano concentrati nella cosiddetta “zona di residenza”, ossia la fascia più occidentale del territorio russo, annessa con la spartizione della Polonia; fu qui, e in particolare nella regione ucraina, che si verificarono i pogrom più gravi. La fase più intensa e virulenta di questo fenomeno coincise con la guerra civile del 1918-22, quando gli episodi di saccheggi e distruzioni delle abitazioni e degli esercizi commerciali ebraici, nonché delle sinagoghe e di altri circoli associativi e religiosi, si moltiplicarono.
Nel caos di questo periodo nacque tra l’altro il mito del “giudeo-bolscevismo”, attraverso il quale i nemici della rivoluzione tendevano a identificare gli ebrei con i bolscevichi. Anche se si trattava di un’associazione arbitraria, molti ebrei, specie giovani, cominciarono percepire i comunisti come una forza a loro favorevole, malgrado le politiche antireligiose. I massacri più terribili si ebbero nel 1919 tra Ucraina e Bielorussia. Essi furono condotti soprattutto da forze irregolari, opposte al nascente regime, o da persone comuni, che trovavano negli ebrei un soggetto su cui riversare risentimenti e frustrazioni private, e nei pogrom un modo per appropriarsi dei loro beni materiali. Ma vi presero parte anche unità degli eserciti, specie bianchi e poi polacchi, ucraini e, su scala minore, rossi.