2.7 La guerra che finisce: i trattati e il nuovo ordine mondiale

2.7 La guerra che finisce: i trattati e il nuovo ordine mondiale

La nuova Europa disegnata a Versailles
Il conflitto era costato circa 10 milioni di morti tra i militari, ma aveva colpito duramente anche le popolazioni civili. L’armistizio fu salutato con entusiasmo dai paesi vincitori dell’Intesa, ma i conti con l’eredità della guerra erano ancora tutti da fare. Inoltre, se in Occidente si era giunti a una pace effettiva nell’autunno del 1918, in molte parti dell’Europa centrale e orientale vi furono conflitti di diverso tipo (guerre internazionali e civili, sollevazioni nazionaliste, insurrezioni contadine) che continuarono fino alla primavera del 1921. Come vedremo successivamente, in Italia, le delusioni per il riassetto territoriale insufficiente rispetto alle attese, insieme alle crescenti agitazioni sociali, destabilizzarono il sistema politico fin dall’immediato dopoguerra.

A un secolo dal Congresso di Vienna (1814), tra il gennaio e il giugno del 1919 la Conferenza di Versailles si trovò a elaborare un nuovo assetto di pace e di stabilità per larga parte dell’Europa. Rispetto al precedente ottocentesco, erano molte le novità: in primo luogo il fatto che, a differenza di quanto era accaduto con la Francia postrivoluzionaria, l’Impero tedesco non fu invitato al tavolo di pace perché ritenuto responsabile principale della guerra [▶ protagonisti], mentre un ruolo decisivo fu svolto da un paese extraeuropeo, gli Stati Uniti.

Il presidente statunitense Wilson, il presidente del Consiglio francese Georges Clemenceau, il premier britannico David Lloyd George e il presidente del Consiglio italiano Orlando (il quale ebbe però un ruolo secondario) si trovarono a riordinare un quadro postbellico quanto mai caotico e instabile. Lloyd George era mosso soprattutto dall’esigenza di dar vita a un equilibrio stabile sul continente, che garantisse piena libertà all’Impero britannico, mentre Clemenceau era decisamente intenzionato a impedire che la Germania cercasse una rivincita. Orlando, infine, mirava ad affermare gli interessi di espansione italiana nell’Adriatico, sia in base al patto di Londra firmato prima dell’ingresso in guerra con Francia e Regno Unito, sia secondo nuove rivendicazioni, come quella del controllo della città di Fiume.

Il vero protagonista della Conferenza, comunque, fu Wilson, che sollecitò la costruzione di un nuovo ordine internazionale, immaginando un mondo «pronto per la democrazia». In particolare, il principio wilsoniano dell’autodeterminazione – cioè della facoltà, riconosciuta ai popoli, di riunirsi in Stati sovrani e indipendenti – si rivelò uno strumento politico rivoluzionario. Esso sovvertì la mappa geopolitica d’Europa, ma fu anche fonte di nuove insolubili contese nelle aree in cui coesistevano molteplici comunità nazionali.

  protagonisti

John M. Keynes alla Conferenza di Versailles

Il pensiero dell’economista inglese John M. Keynes (1883-1946), elaborato soprattutto negli anni Trenta (in particolare nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936), ha influenzato profondamente la scienza economica del XX secolo e l’azione dei governi all’indomani della Seconda guerra mondiale. Constatando che le leggi di mercato – il gioco della domanda e dell’offerta, che l’economia classica considerava tendenti spontaneamente a equilibrarsi – non erano sufficienti a garantire la piena occupazione della forza lavoro, egli riteneva essenziale l’intervento dello Stato nell’economia, per esempio con il finanziamento di lavori pubblici.

Keynes prima del “keynesismo”

Tuttavia, ancora prima di formalizzare le sue teorie economiche, oggi universalmente note appunto come “keynesiane”, l’economista era già attivo sulla scena politica di inizio secolo e fu tra i delegati del ministero del Tesoro britannico alla Conferenza di pace di Versailles.

La sua posizione ai tavoli dei negoziati si basava sull’idea che fosse opportuno evitare di imporre pesanti riparazioni di guerra alla Germania; al contrario, per accelerare la ricostruzione economica dell’Europa occorreva un condono generalizzato dei debiti di guerra e un piano di aiuti lanciato dal governo americano. Le sue tesi furono esposte in un libro di straordinaria fortuna, Le conseguenze economiche della pace, pubblicato nello stesso 1919. Keynes vi presentava lucide e severe critiche alle scelte dei vincitori, che avevano costretto la Germania a una “pace cartaginese”, cioè basata su imposizioni umilianti. Questa situazione, secondo Keynes, avrebbe alimentato le aspirazioni a una rivincita tedesca e a un rovesciamento dell’ordine post-bellico.

Le dure condizioni imposte alla Repubblica tedesca
Per giustificare le severe misure imposte al paese sconfitto, il Trattato di Versailles dichiarò la Germania la principale responsabile della guerra. Furono quindi decise la smilitarizzazione della Renania e la riduzione delle forze armate tedesche a 100 000 unità; la drastica revisione dei confini del paese, con la perdita a ovest dell’Alsazia e della Lorena (annesse dalla Francia) e a est della Slesia (integrata in parte al nuovo Stato polacco); il pagamento di ingenti somme per le  riparazioni belliche. Inoltre, la città di Danzica, grande porto industriale tedesco, si trovava ora circondata dal nuovo Stato indipendente della Polonia, e fu proclamata “città libera”; la Saar, regione al confine con la Francia ricca di risorse minerarie e di impianti industriali, fu occupata dalle potenze vincitrici. L’insieme di queste misure provocò un’ondata di sdegno in Germania e aprì nuovi contenziosi territoriali, alimentando il risentimento tedesco per le umilianti condizioni cui il paese dovette sottostare.

Tra il 1919 e il 1920, nei castelli intorno a Parigi furono firmati successivi trattati di pace, con cui si definiva l’assetto dei territori dell’Europa centrorientale e del Medio Oriente, sconvolti dalla caduta degli Imperi russo, austro-ungarico, ottomano e tedesco. L’Austria diventò una Repubblica democratica, i cui confini furono sanciti dal Trattato di Saint Germain (settembre 1919); l’Ungheria attraversò invece una fase di trasformazioni convulse, anche a causa dell’avvento del breve regime nazionalcomunista di Bela Kun tra il marzo e l’agosto del 1919. Con il Trattato di Trianon (giugno 1920), l’Ungheria perse parti rilevanti del suo territorio a vantaggio soprattutto della Romania, cui fu costretta a cedere la Transilvania, dove viveva una consistente minoranza ungherese [ 20].

La nascita della Società delle Nazioni
Sulla base di quanto stabilito alla Conferenza di Versailles, sulla scorta dell’ultimo dei 14 punti di Wilson, nel 1919 si costituì anche la Società delle Nazioni. Si trattava di un organismo sovranazionale deputato a esercitare una sorta di governo del mondo: uno strumento con cui si confidava di risolvere le controversie internazionali senza ricorrere alle armi ed eliminare così la minaccia di una nuova guerra. Gli Stati Uniti, tuttavia, si rifiutarono di aderirvi, temendo il possibile coinvolgimento in nuovi conflitti europei: la scelta americana, insieme all’esclusione della Germania e della Russia sovietica, limitò gravemente la capacità d’azione di questo organismo internazionale.

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Il nuovo ordine internazionale si basava su due strumenti giuridici fondamentali, la tutela dei diritti delle minoranze nazionali e il sistema dei mandati [ 21]In base a questo secondo strumento, la Società delle Nazioni affidò alle potenze vincitrici la gestione provvisoria dei territori dell’Impero ottomano (e le ridotte colonie dell’Impero tedesco). A differenza dei domini coloniali, soggetti al completo arbitrio delle potenze imperiali, i mandati imponevano che il controllo del territorio avvenisse nel rispetto delle popolazioni locali e dei vincoli della Società delle Nazioni; il loro scopo era quello di gestire il trasferimento della sovranità statale ai futuri Stati indipendenti. I trattati stipulati sulla base di questi criteri seguirono essenzialmente le linee degli accordi Sykes-Picot, firmati già nel 1916. Ai britannici fu affidata un’area di influenza che si estendeva dalla futura Giordania (riconosciuta indipendente nel 1946) all’Iraq meridionale, mentre ai francesi si riconosceva un’egemonia su quelli che sarebbero diventati Libano e Siria, insieme all’Iraq settentrionale. L’indipendenza del Regno d’Iraq fu ufficialmente concessa nel 1932, mentre il Libano e la Siria dovettero attendere rispettivamente il 1943 e il 1946.

Nell’agosto 1920, il Trattato di Sèvres ridusse alla sola Anatolia i territori sotto l’Impero ottomano, che fu sciolto però ufficialmente soltanto nel novembre 1922. Dopo le vittorie dei nazionalisti turchi di Mustafa Kemal (noto come Ataturk, “Padre dei turchi”), il Trattato di Losanna (luglio 1923) portò alla fondazione della Repubblica di Turchia [▶ fenomeni].

  fenomeni

La questione curda

Il popolo curdo, che conta oggi circa 30 milioni di individui, non ha un proprio Stato: la maggior parte della popolazione curda vive in un vasto territorio chiamato genericamente Kurdistan, diviso fra Turchia meridionale, Iraq settentrionale e, in misura minore, Armenia, Siria e Iran. L’aspirazione a forme di autonomia o addirittura di indipendenza della nazione curda sono di conseguenza motivo di instabilità nella regione.

Le origini della “questione curda”

Un primo nucleo del nazionalismo curdo emerse negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando una prima sollevazione, nata dall’iniziativa di un proprietario terriero e volta a ottenere l’autonomia politica del Kurdistan, fu repressa dalle autorità ottomane. Già prima della Grande guerra e poi soprattutto durante il conflitto, i curdi, come gli armeni, furono oggetto di operazioni di deportazione di massa nel centro e nel sud dell’Anatolia. Fino a 700 000 curdi furono trasferiti con la forza fra il 1914 e il 1918 e quasi la metà di loro perse la vita.

La vera e propria “questione curda”, derivante dalla rivendicazione di uno Stato autonomo, nacque però alla fine della guerra, con la caduta dell’Impero ottomano. I rappresentanti curdi ai tavoli negoziali avrebbero voluto inserire nel Trattato di pace di Sèvres (1920) un articolo relativo al riconoscimento dell’autodeterminazione del loro popolo, ma il tentativo fallì a causa dell’opposizione dei nazionalisti turchi. I curdi stanziati entro i confini turchi rimasero cittadini della nuova Turchia laica, che tuttavia avversavano in quanto tendente a nazionalizzare l’intera società e a negare loro forme di autonomia.

Dagli anni Venti a oggi

La questione si acutizzò nel 1927, quando con l’appoggio del Regno Unito i curdi proclamarono l’indipendenza della Repubblica del­l’Ararat, soppressa nel 1930; altri esperimenti autonomistici (per esempio il Regno del Kurdistan in Iraq nel 1922-24) furono tentati invano. Tra gli anni Venti e Trenta si susseguirono numerose rivolte, sempre soffocate con la violenza o prevenute con la dispersione forzata della popolazione dal Kurdistan turco.

La lotta tra indipendentisti curdi e Stato turco continuò nei decenni successivi, inasprendosi nel corso degli anni Settanta, quando il nazionalismo curdo si associò con rivendicazioni sociali e politiche di stampo marxista. Scontri e persecuzioni avvennero anche nell’Iraq di Saddam Hussein, negli anni Ottanta, e a seguito della prima e della seconda Guerra del Golfo (1991, 2003) con cui gli Stati Uniti intervennero nella regione.

Ancora oggi, inoltre, i curdi rimangono tra i maggiori oppositori del governo turco. La questione curda resta insomma tuttora aperta.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi