EVENTI - L’affare Haymarket e la Festa del lavoro

In realtà, se già in precedenza la presenza straniera aveva suscitato reazioni xenofobe, in questa fase simili atteggiamenti si diffusero ancor di più. Non solo il numero degli immigrati cresceva di anno in anno, ma una proporzione sempre maggiore proveniva da Asia e Sud Europa (italiani, cinesi, ebrei in fuga dai pogrom, [▶ cap. 17.2]). Ciò acuiva la paura di trovarsi “invasi” da soggetti difficilmente assimilabili, di scarsa utilità per l’economia nazionale e per di più potenziali portatori di visioni del mondo o ideologie incompatibili con la democrazia americana come il socialismo, l’anarchismo o l’autoritarismo.

Una violenta ostilità verso gli immigrati si diffuse soprattutto nelle grandi città, dove dal canto loro stranieri ed ex schiavi tendevano a vivere in isole etniche e quartieri-ghetto (Little Italy, China Town, il Bronx), così come a impiegarsi al servizio di connazionali e a sposarsi fra loro. Le pressioni dell’opinione pubblica non ebbero però effetti rilevanti: se si escludono le norme restrittive nei confronti dell’immigrazione e della naturalizzazione dei cinesi, giunti numerosi a Ovest, una decisa stretta agli arrivi si sarebbe avuta soltanto a partire dai tardi anni Dieci del Novecento.

Proteste sindacali e movimenti sociali
Nell’ultimo quarto di secolo, ai rigurgiti razzisti e alla dilagante xenofobia si accompagnarono ulteriori tensioni. Si fecero in particolare più pressanti le rivendicazioni degli operai, passata dai 13 milioni del 1860 ai 19 del 1900. Così, a partire dalla prima agitazione nazionale dei ferrovieri nel 1877, gli scioperi aumentarono più che in Europa, si scontrarono con la repressione governativa e non di rado scatenarono scontri, come a Chicago nel 1886 [▶ eventi]. Anche le organizzazioni sindacali si moltiplicarono, con la nascita fra le altre dell’American Federation of Labor e dei Knights of Labor (I Cavalieri del Lavoro).

Ma le spaccature e i differenti interessi dei gruppi in cui si articolava il movimento gli impedirono di coalizzarsi stabilmente: lavoratori qualificati e non qualificati, bianchi e neri, uomini e donne, autoctoni e immigrati si rivolsero anzi spesso gli uni contro gli altri, facilitando così l’assorbimento delle proteste. D’altro canto, quella statunitense era una società che offriva concrete prospettive di arricchimento e di mobilità sociale, ma era al contempo estremamente competitiva e individualista. Perciò, non solo i vari insiemi tendevano a tutelare le proprie posizioni di vantaggio impedendo che si estendessero ad altri (gli uomini sulle donne, i bianchi sui neri), ma all’interno di ogni singolo gruppo alcuni sottoinsiemi rinunciavano alla lotta comune in cambio dell’accesso a condizioni di maggior favore, come accadeva per esempio agli operai specializzati promossi fra i “ colletti bianchi”.

Ciò non impedì comunque la nascita di forze politiche di orientamento rivoluzionario e anticapitalista. Nel 1876 nacque il Socialist Labor Party, il primo partito socialista statunitense. Poi, nel 1901, fu fondato il Socialist Party of America: un partito dal profilo ideologico vago e, anche per questo, capace di attrarre i voti delle diverse anime del socialismo. A far barcollare il bipartitismo, fra 1892 e 1896, fu però soprattutto il Partito del popolo che, con la sua crociata contro l’alta finanza, la corruzione della classe politica e gli effetti, giudicati nefasti, dell’ondata migratoria, riuscì a ottenere risultati elettorali notevoli prima di perdere slancio e confluire nel Partito democratico.

Le difficoltà dei partiti tradizionali erano però anche la spia di un più radicale e crescente fastidio per i limiti della democrazia. Da un lato gli esclusi dal voto – in primis le associazioni come la National Woman Suffrage Association e l’American Woman Suffrage Association – rimarcavano il carattere discriminatorio del sistema e invocavano una “vera e compiuta” democrazia, che realizzasse un’effettiva emancipazione delle donne anche in ambito socioeconomico. Dall’altro lato, le concezioni progressiste e pragmatiste sfociarono non di rado in posizioni più radicali, che giudicavano ormai il sistema democratico in sé inadatto a garantire libertà collettiva e progresso economico, preferendogli forme di “ingegneria sociale” fondate sulla pianificazione scientifica ad opera di una ristretta élite di intellettuali-tecnici. Erano idee che mostravano il fascino dello statalismo tedesco [▶ cap. 16.4] anche sui pensatori americani. Ma erano soprattutto idee che segnavano il riavvicinamento della cultura statunitense a quella europea dopo oltre un secolo di eccezionalismo imperniato sull’opposizione fra un “vecchio mondo”, rigettato nelle sue fondamenta inegualitarie e illiberali, e un Nuovo Mondo, moralmente superiore e dalla storia unica grazie alle sue matrici puritane, alla rivoluzione e ai valori di libertà, uguaglianza e individualismo incarnati dalle sue peculiari istituzioni repubblicane e democratiche. Eppure, ancora per qualche tempo nessuna di queste dottrine ebbe ricadute immediate sul sistema politico.

  eventi

L’affare Haymarket e la Festa del lavoro

Il 4 maggio 1886 il movimento operaio organizzò in Haymarket Square, a Chicago, un comizio per protestare contro l’uccisione di alcuni manifestanti nei giorni precedenti e per preparare un grande sciopero in favore della riduzione a otto ore della giornata lavorativa. Durante la manifestazione, qualcuno lanciò una bomba contro la polizia, che reagì sparando. Il bilancio fu di 7 agenti e 4 civili morti. Per l’accaduto, 8 anarchici in maggioranza di origini tedesche furono processati per cospirazione e condannati, pur in assenza di prove. Durante e dopo il dibattimento, che ebbe una grande eco internazionale, stampa e opinione pubblica conservatrice alimentarono la fobia del “pericolo rosso” e i sentimenti xenofobi già diffusi nel paese. Il clima ostile non impedì però all’American Federation of Labor di proseguire la campagna per le 8 ore lavorative, ottenendo l’adesione della Seconda Internazionale (nata nel 1889 sulle ceneri della Prima) a una giornata di lotta internazionale e di commemorazione dei fatti di Haymarket, il 1° maggio 1890. La giornata di Festa del lavoro ebbe grande successo in molte città americane ed europee, diventando un evento annuale già a partire dall’anno successivo. 

18.4 Diventare una potenza

Dall’isolazionismo all’imperialismo
L’idea di un eccezionalismo fondato sulla missione di estendere nel mondo i propri valori di libertà e democrazia restava invece alla base della politica estera di Washington e della sua autorappresentazione. La crescita economica andò di pari passo con il rafforzamento dell’apparato militare e con la definitiva affermazione degli Stati Uniti quale potenza egemonica non soltanto all’interno del continente americano, ma anche sull’Oceano Pacifico.

Tuttavia, almeno sino alla svolta di fine secolo, l’espansionismo statunitense assunse l’originale forma della cosiddetta “diplomazia del dollaro” piuttosto che replicare i modelli europei. Si trattava di non perseguire un controllo diretto delle aree ritenute utili, per il quale mancavano ancora i mezzi e il peso internazionale. Si mirava invece a influenzare governi formalmente indipendenti con argomenti comunque convincenti, quali la superiorità tecnologica e gli investimenti statunitensi all’estero: ben 700 milioni nel 1897 e addirittura 2,5 miliardi nel 1910.

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La penetrazione commerciale in Asia
Questa politica del resto non era una novità per gli Usa, che già negli anni Trenta-Quaranta avevano sfruttato le iniziative britanniche per stringere relazioni commerciali con l’Impero cinese e provare a conquistare quell’immenso mercato. Dopo la firma del Trattato di Nanchino tra Regno Unito e Cina nel 1842 [▶ cap. 12.2], che imponeva a quest’ultima di aprire nuovi porti al commercio estero, divenne però importante avere uno scalo sulla rotta per Shanghai. Il Giappone entrò così improvvisamente nelle mire degli Stati Uniti, interessati per di più ai giacimenti di carbone e alla remunerativa caccia alle balene praticata nelle sue acque.

Fra il 1852 e il 1854 una missione navale guidata dal commodoro Matthew Calbraith Perry fu inviata nella baia di Edo (l’attuale Tokyo) per ottenere la fine della chiusura ai traffici internazionali che la dinastia Tokugawa aveva imposto al suo impero per oltre due secoli. L’esibizione di forza militare e di primato tecnologico fruttò agli Usa la Convenzione di Kanagawa, che però si limitava ad aprire due porti e a concedere agli Usa la qualifica di nazione più favorita, senza far cenno al carbone. Era comunque un grande successo. In primo luogo perché, contrariamente a quanto era avvenuto in Cina, qui l’iniziativa diplomatica degli Stati Uniti aveva anticipato i concorrenti europei e li aveva costretti a seguire la propria scia per strappare analoghe concessioni. In secondo luogo perché la convenzione spianò la strada al successivo “Trattato di amicizia e commercio” del 1858: un secondo e ben più rilevante “trattato ineguale”, che aprì nuovi porti, ridusse le barriere doganali e dette avvio a stabili relazioni diplomatiche fra i due paesi. In conclusione, la vicenda aveva dimostrato la spendibilità diplomatica di una superiorità tecnologica che anche in seguito avrebbe costituito un cardine della retorica con cui gli Stati Uniti avrebbero ammantato di missione civilizzatrice il loro espansionismo, anche in paesi dalla storia millenaria [ 11].

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L’America agli statunitensi

Questa strategia fatta di dollari e tecnologia non mutò significativamente nemmeno dopo la Guerra civile. Gli Stati Uniti ne erano usciti con la terza flotta dopo l’Impero britannico e quello tedesco (da 50 a oltre 700 navi, moltissime a vapore e alcune corazzate). Ma una forza militare ormai competitiva con le principali potenze europee non si tradusse in un vasto programma di espansione territoriale fuori dal continente.

Espansione vi fu in Nord America, dove proseguì la “corsa all’Ovest” e dove nel 1867 il governo federale provvide all’acquisto dell’Alaska dall’Impero russo. Viceversa, nel Centrosud del continente si replicò lo schema usato in Asia.

Sempre nel 1867 gli Stati Uniti contribuirono infatti a ripristinare la Repubblica in Messico dopo la fase effimera del Secondo Impero [▶ cap. 15.2], ma si limitarono poi a garantire favorevoli concessioni alle imprese americane per lo sfruttamento di terreni e pozzi petroliferi.

La stessa linea fu tenuta con Brasile e Argentina, dove i capitali delle aziende statunitensi orientavano scelte interne e di politica estera. Inoltre, già dalla fine degli anni Quaranta il governo statunitense aveva provato a ottenere la possibilità di costruire nel territorio panamense – ancora sottomesso alla Colombia – un canale artificiale che mettesse in collegamento l’Oceano Pacifico e l’Atlantico: un’operazione che però sarebbe stata coronata da successo solo con il nuovo secolo.

Trovava così applicazione una lettura della dottrina Monroe [▶ cap. 8.2] estensiva ma formalmente lontana dal bellicoso colonialismo delle potenze europee.

La conquista del West e la resistenza dei nativi
Parte integrante dell’espansionismo e presupposto delle penetrazioni commerciali d’oltremare furono le ulteriori conquiste nel continente nordamericano. Seguitarono a farne le spese soprattutto i nativi: popolazioni diverse fra loro ma che molti bianchi ritenevano tutte irrecuperabilmente selvagge e quindi sacrificabili alle ragioni del proprio benessere.

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Fino agli anni Quaranta le tribù indiane erano state infatti costrette a migrare in aree ritenute inadatte ai bianchi [▶ cap. 8.2], mentre nel decennio successivo una serie di trattati e ulteriori battaglie avevano consentito l’insediamento di nuovi coloni nei territori prima assegnati agli indiani. Tuttavia, nella seconda metà del secolo l’aumento della popolazione, lo sviluppo della rete ferroviaria e la scoperta di nuovi giacimenti d’oro in Nevada e in Colorado spinsero il governo federale ad attuare politiche di colonizzazione ancora più decise. Furono garantite ai coloni terre a prezzi simbolici in cambio del loro lavoro (Homestead Act). I nativi furono forzosamente assimilati o rinchiusi in riserve dove si applicava una rigorosa segregazione, ufficialmente volta a tutelarne usi e costumi [▶ fenomeni, p. 568]. Molti accordi furono ritrattati in senso peggiorativo, chiudendo poi un occhio quando anche questi erano palesemente violati dai coloni. Infine si autorizzò la devastazione di interi ecosistemi, lasciando che i bianchi sterminassero gli animali (i bisonti passarono da 70 milioni a pochi esemplari) e distruggessero le risorse naturali vitali per gli indiani, al solo scopo di favorire l’allevamento, l’agricoltura, il commercio di legname e gli impianti industriali delle grandi imprese.

Contro coloro i quali si ribellavano per gli abusi subiti il governo non esitava a mandare l’esercito. Così accadde in occasione della Guerra del Colorado, durante la quale, nel 1864, un intero pacifico villaggio Cheyenne fu massacrato a Sand Creek. E così avvenne sia in Texas con i Comanche, attaccati nei loro territori sino a chiuderli in una riserva nel 1875, sia con i Navajo del New Mexico, impegnati in un conflitto pressoché ininterrotto con le truppe federali dal 1846 al 1864. Un andamento solo in parte diverso ebbe la Grande guerra dei Sioux, combattuta nel 1876-77 nell’area delle Colline Nere, ossia la catena montuosa che dalle Grandi pianure del South Dakota arrivava nel Wyoming. Qui Sioux, Cheyenne e Arapaho rifiutarono di vendere le loro terre, unirono le forze, impegnarono a lungo l’esercito americano e conseguirono persino qualche clamorosa vittoria come a Little Big Horn nel 1876, dove i guerrieri di Toro seduto e Cavallo pazzo uccisero il generale George A. Custer e tutti i suoi soldati. Tuttavia si trattò di un episodio isolato, che anticipò di poco la definitiva vittoria della soverchiante potenza americana, la brutale esecuzione di Toro seduto e la reclusione di Cavallo pazzo in una riserva: una sorte, quest’ultima, toccata nel 1886 anche al noto capo Apache Geronimo, che aveva lottato sin dagli anni Quaranta prima contro l’esercito messicano e poi contro quello statunitense.

Dopo la resa degli Apache, a segnare la fine della fase più intensa del conflitto con i nativi fu il cosiddetto “massacro di Wounded Knee” del 1890, ossia l’uccisione di 300 indiani Lakota all’interno di una riserva in South Dakota. Le guerre indiane si sarebbero protratte sino agli anni Venti del Novecento, ma già al termine dell’Ottocento ormai la conquista del West poteva dirsi completata [ 12].

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I romanzi popolari (dime novels) e gli spettacoli itineranti che ne mettevano in scena le vicende (come il Buffalo Bill’s Wild West Show) stavano già da tempo portando alla fama figure romantiche di eroici condottieri (in primis il generale Custer) e coraggiosi cacciatori di scalpi come William “Buffalo Bill” Cody e Martha “Calamity Jane” Canary. Tuttavia, nella realtà le guerre indiane erano state quasi sempre guerre sporche. I nativi non avevano esitato ad assaltare treni e diligenze, a derubare i coloni più isolati, ad attaccare le loro carovane sprovviste di scorta e ad accompagnare le loro azioni con macabri rituali come l’asportazione degli scalpi nemici. Ma neppure l’esercito americano aveva avuto riguardo per donne e bambini, procedendo a indiscriminate azioni di ritorsione e a fucilazioni di massa, distruggendo interi accampamenti e alimentando fra i coloni stereotipi negativi e il collezionismo di oggetti sottratti agli indiani. 

Gli effetti demografici di questa stagione di conflitti sono difficili da quantificare. Eppure essi s’inserivano e concludevano quel processo di più lunga durata e di ancor più drammatica intensità che, rimontando ai secoli precedenti, aveva portato all’indebolimento e a volte alla completa distruzione di culture e popoli millenari.

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  fenomeni

Società e culture indiane

La letteratura e il cinema occidentali hanno mostrato un’immagine del “pellerossa” largamente convenzionale, appiattita sui tratti delle tribù più familiari e che meglio si prestavano a fornire un’idea di feroce barbarie. Ma in realtà le popolazioni native non solo si dividevano in tribù dalle diverse culture e strutture socioeconomiche, ma erano a loro volta frazionate in sottoinsiemi a volte in conflitto. Se i contatti reciproci generavano infatti ibridazioni e coalizioni nelle guerre contro i colonizzatori, ciò non cancellava né le peculiarità di ogni popolo né le lotte interne al mondo indiano per il controllo del territorio o per le azioni predatorie di alcuni gruppi. E a questo si aggiungeva il fatto che per molte nazioni indiane la distinzione fra sedentarietà e nomadismo era assai labile (restavano sedentari sino a esaurire le risorse naturali del posto e poi si spostavano), tanto più man mano che l’avanzata dei coloni le costrinse a spostarsi dai propri territori in aree nuove dove ricostruirsi uno stile di vita (i Sioux erano coltivatori sedentari nella regione dei Grandi Laghi e solo in seguito alla migrazione nelle Grandi pianure impararono a cavalcare e si trasformarono in guerrieri).

Certo, gli elementi in comune non mancavano: una necessaria simbiosi con l’ambiente, uno stile di vita e una concezione del tempo fondati sui cicli della natura, una forte dimensione comunitaria con impronta patriarcale e il carattere sincretico di tutte le loro molteplici e complesse religioni: credenze che solo in alcuni casi ricorrevano a totem, peraltro molto diversi fra loro per aspetto e funzioni. Tuttavia, le nazioni indiane differivano non solo per lingua, cultura, folklore, espressioni artistiche e sistema di valori, ma anche per abilità e livello tecnologico. Ne derivavano culture materiali differenti. Si vedeva bene, per esempio, nelle armi da caccia e da guerra, che spaziavano dalle armi da taglio (di solito a lama corta) ad archi e frecce, pietre levigate e diversi tipi di lancia, la cui potenza di tiro era talvolta accresciuta tramite l’atlati (un’assicella di legno a prolungamento del braccio, dotata di uncino a un’estremità in cui era inserita la lancia). Inoltre, alcune tribù impararono presto a usare i fucili, rubati, sottratti ai nemici uccisi o forniti dagli stessi bianchi a gruppi ritenuti alleati. Molti popoli conservavano poi proprie armi rituali, a cui attribuivano grande valore simbolico. Fra queste vi erano gli “scudi medici”, simili a scudi da battaglia ma più sottili e leggeri perché dovevano proteggere lo spirito del guerriero e non il corpo. Ma ancor più centrale nella ritualità di guerra dei nativi era la cosiddetta “ascia di guerra”. Proprio l’ascia poteva infatti essere al contempo una pipa cerimoniale, il cui nome variava di popolo in popolo così come la fattura, le decorazioni e le sostanze che vi si fumavano. I primi coloni francesi la battezzarono genericamente calumet (da chalumeau, “canna”), ma anche questo era un oggetto presente non in tutte le tradizioni, spesso usato con funzioni diverse (innalzare preghiere durante cerimonie religiose, solennizzare accordi) e a volte strettamente connesso a leggende diffuse soltanto presso un popolo (i Sioux Lakota, per esempio, l’attribuivano alla profetessa Donna Giovane Bisonte Bianco).

Era però nelle scelte abitative che più ancora si evidenziava la varietà delle culture indiane. Le tipiche tende coniche rappresentate dalla tradizione, le cosiddette tipi con la struttura di legno e la copertura di pelle di bufalo, erano usate solo dai cacciatori nomadi delle Grandi pianure, che le smontavano per portarle con sé. Per il resto gli usi variavano secondo il clima e le esigenze: dalle spaziose case di erba, buone per i climi caldi delle pianure meridionali con i loro telai lignei piegati a forma di cupola e ricoperti di erba, ai wigwam del Nordest, simili e an­ch’essi fissi, ma più resistenti, in quanto dovevano sostenere inverni più rigidi; dalle asi dei Cherokee e degli altri popoli dediti all’agricoltura nella calura del Sudest (casette di ramoscelli intrecciati ricoperti d’intonaco con il tetto in erba o corteccia), alle palafitte chickee dei Seminole nella paludosa Florida (prive di mura e sollevate per evitare l’ingresso di coccodrilli e serpenti); sino a costruzioni articolate come le case in adobe dei Pueblos, contadini stanziali del Sudovest: complessi di case modulari fatte appunto di mattoni di adobe (terra, paglia e argilla, a volte rafforzati con grandi pietre), ognuna delle quali ospitava una famiglia.

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18.5 Le altre Americhe

Il Canada britannico

Parte dell’Impero britannico era passato fra 1846 e 1850 al più autonomo “governo responsabile” [▶ cap. 12.2]. Tuttavia, fu a partire dalla seconda metà del secolo che il Canada conobbe un decisivo consolidamento istituzionale e ulteriori forme di autonomia da Londra. A spingere in questa direzione fu un insieme di fattori, sia interni sia esterni:

  • lo stallo politico derivante dal sistema vigente;
  • l’aumento della pressione demografica;
  • il crescente desiderio di disimpegno militare del governo britannico nell’area;
  • il peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti a seguito della posizione ambigua di Londra durante la Guerra di secessione, che nel 1865 aveva portato alla cancellazione del Trattato di reciprocità del 1854 per il libero scambio fra Canada e Usa;
  • i timori per un’estensione al territorio canadese dell’espansionismo statunitense verso Ovest, tanto più dopo l’acquisto dell’Alaska.

Il risultato fu la redazione del British North America Act, approvato dalla regina Vittoria ed entrato in vigore il 1° luglio 1867. Il nuovo provvedimento, che rimpiazzava l’Atto di Unione del 1840, unificava le province del vecchio Canada (Ontario e Quebec), della Nuova Scozia e del New Brunswick in un unico Dominion federale dal nome complessivo di Canada. E a questa nuova entità politica riconosceva ampia autonomia, pur ribadendo la dipendenza dalla madrepatria inglese (il potere esecutivo restava alla regina, rappresentata in loco da un governatore di sua nomina) e definendone il profilo istituzionale in termini ispirati a quelli del Regno Unito, con una Camera elettiva e un Senato composto da rappresentanti nominati a vita dalle regioni.

Nei decenni successivi, l’ingresso di nuovi territori nel Dominion produsse significative trasformazioni negli assetti economico-sociali del paese. Sul piano economico, la piccola e media proprietà terriera, che il governo aveva favorito sin dagli anni Cinquanta con concessioni gratuite di terra ai coloni, fu affiancata dalle fiorenti attività estrattive e industriali connesse alla scoperta di grandi giacimenti minerari

Di pari passo andò lo sviluppo infrastrutturale. Fra 1881 e 1900 i massicci investimenti pubblici e la manodopera a buon mercato immigrata da Europa e Cina consentirono infatti alla Canadian Pacific Railway Company di ultimare la tratta ferroviaria transcontinentale fondamentale per la colonizzazione e lo sviluppo economico dei territori più occidentali [ 13].

Espansione territoriale e modernizzazione posero però anche dei problemi, primo fra tutti quello delle minoranze etniche e linguistiche. Sebbene il British North America Act ammettesse il bilinguismo, l’immigrazione dalla Gran Bretagna e la prevalenza dell’inglese quale lingua dell’amministrazione e degli affari accrebbe il malcontento nei confronti del governo federale dei francofoni, concentrati per lo più nel Quebec. Mentre ancor più difficili erano le condizioni dei nativi e dei meticci, discendenti dei matrimoni fra gli indiani e i primi coloni. Anche in Canada la progressiva penetrazione dei bianchi nelle estesissime praterie del Nordovest comportò infatti la profonda alterazione degli ecosistemi vitali per le popolazioni indigene, periodiche rivolte e feroci scontri con molte tribù, che furono man mano forzate all’assimilazione mediante la scolarizzazione, sottomesse con la forza e costrette a siglare una serie di trattati assai sfavorevoli con il governo canadese, cui sempre il British North America Act assegnava la piena giurisdizione sugli indiani e sulle terre loro riservate.

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L’America Latina a metà Ottocento

Guerre, crescita economica e continue convulsioni segnarono le vicende dei paesi latinoamericani. Gli Stati che avevano ottenuto l’indipendenza nei primi decenni del secolo erano infatti strutturalmente deboli. Avevano finanze pubbliche e classi dirigenti inadeguate, contavano poco a livello internazionale e vivevano forti tensioni interne, dovute tanto alla persistenza di rigide gerarchie sociali e di istituti ereditati dal periodo coloniale come la schiavitù, quanto alle discriminazioni e alle violenze con cui – in particolare nei paesi a maggioranza india – le minoranze bianche al potere cercavano di mantenere sottomesse le popolazioni native. Di questa situazione avevano approfittato caudillos locali e potenze europee per influenzarne le politiche e orientarne le produzioni in modo funzionale ai propri interessi [▶ cap. 8.1].

Già negli anni Trenta-Quaranta il quadro geopolitico iniziò però a complicarsi. L’Uruguay si era reso indipendente dal Brasile nel 1825, ma dal 1835 era poi piombato in una lunga guerra civile fra caudillos conservatori e liberali. I primi erano appoggiati dall’Argentina. I secondi contavano sul supporto di volontari europei (fra cui Garibaldi [▶ cap. 11.5]), sulla simpatia di Francia e Regno Unito, nonché sul sostegno del Brasile, desideroso di avere un governo amico alla guida del piccolo Stato-cuscinetto posto fra sé e la principale rivale nella regione: l’Argentina.

Nel 1830 si era invece sciolta la Grande Colombia e nel 1840 la stessa sorte era toccata alla Confederazione degli Stati Uniti dell’America Centrale. Ciò mentre nel 1842 il Paraguay era riuscito a ottenere il riconoscimento della propria indipendenza dall’Argentina, ma dall’anno prima era sottoposto al regime illiberale, centralista e protezionista della famiglia López, che aveva però abolito la schiavitù, modernizzato e reso autosufficiente il paese. Guerre interne dilaniavano invece il Messico e l’Argentina. In Messico si fronteggiavano federalisti e centralisti. In Argentina, invece, si combatteva ormai dagli anni Venti una guerra civile fra i sostenitori del potere centrale (unitarios) e i caudillos provinciali (federales), fautori di ampie autonomie per quei territori su cui di fatto esercitavano indisturbati la loro autorità.

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Grandi conflitti e ridefinizione degli equilibri geopolitici
Le vicendevoli intromissioni nelle contese interne e la nascita di numerosi Stati indipendenti dai confini imprecisi quanto contestati causarono numerosi conflitti, alcuni dei quali lunghi e cruenti.

Il più grande fu la Guerra della Triplice Alleanza, uno scontro inizialmente connesso alla guerra civile uruguayana ma che, dal 1864 al 1870, finì per opporre l’esercito paraguayano, che i López avevano significativamente rafforzato, alle forze coalizzate di Argentina, Brasile e Uruguay [ 14].

Oggetto del contendere era il bacino fluviale del Rio de la Plata: una via di comunicazione e un accesso all’Oceano Pacifico strategico sia per il Paraguay sia per i suoi potenti vicini, alleati ma al contempo pronti a disputarsene a loro volta il controllo.

La lotta conobbe fasi alterne ma alla fine il Paraguay dovette soccombere all’alleanza nemica, che contava 11 milioni di abitanti contro i circa 400 000 paraguayani e una netta superiorità logistico-militare. Così, prima le truppe della Triplice entrarono nella capitale Asuncion (1869) e poi debellarono con ferocia la guerriglia della popolazione paraguayana che ancora per 14 mesi provò invano a resistere all’invasione. Il conflitto si chiuse formalmente il 1° marzo 1870 con l’Uruguay uscito con i confini sostanzialmente immutati, la creazione di un governo filobrasiliano in Paraguay (il presidente-dittatore Francisco Solano López era morto combattendo), la sua rinuncia a tutti i territori contesi e l’occupazione del paese da parte delle truppe brasiliane: una situazione che si protrasse sino al 1876 per stroncare sul nascere ogni tentativo di rivalsa, ma soprattutto per prevenire le mire espansionistiche sulla regione del Chaco da parte della potenza concorrente, l’Argentina.

Per giungere a chiarire confini e rapporti di forza nella regione si era però combattuta la più grande guerra nella storia dell’America Latina, con momenti di straordinaria violenza come la battaglia di Tuyutí (la più sanguinosa di sempre con oltre 5500 morti), un totale di circa 400 000 morti e un impatto demografico enorme soprattutto in Paraguay, dove morì quasi la metà della popolazione. D’altro canto, con l’eccezione della Guerra di secessione americana, mai nessuna guerra sino ad allora aveva costretto i contendenti a ricorrere massicciamente alla coscrizione, ad arruolare migliaia di schiavi e a coinvolgere così i civili nello sforzo bellico, a cominciare dalle donne impiegate nei campi e nelle fabbriche, al fronte come infermiere e anche nei combattimenti durante le fasi finali del conflitto.

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Di minore entità, ma altrettanto importante per definire gli equilibri geopolitici sudamericani, risultò la Guerra del Pacifico (1879-83) [ 15]. Qui a esser contesi erano i confini fra Cile e Bolivia e soprattutto i giacimenti di salnitro nel deserto di Atacama. Si trattava di una questione già più volte oggetto di trattati bilaterali, ma che le difficili condizioni politico-economiche dei contendenti rendevano ormai vitale per entrambi. Così, sorta l’ennesima diatriba, nell’inverno del 1879 l’esercito cileno penetrò il territorio boliviano. La Bolivia reagì dichiarando guerra al Cile, sostenuta dal Perù con cui aveva stretto un’alleanza segreta già nel 1873. Tuttavia, i cileni ebbero la meglio sia per mare sia per terra e, nel 1881, occuparono la capitale peruviana Lima, mentre la Bolivia si ritirava dalla lotta.

Impegnato a lungo contro la strenua resistenza dei civili peruviani annidati nelle Ande centrali e costretto a garantirsi la neutralità dell’Argentina riconoscendone la sovranità sulla vastissima area della Patagonia orientale, il Cile siglò la pace soltanto nel 1883: un accordo estremamente favorevole, che sottraeva agli sconfitti territori ricchi e più ampi di quelli inizialmente ambiti, privando la Bolivia del suo sbocco sull’oceano.

Crescita economica e consolidamento degli Stati
Per quanto frequenti e devastanti, i conflitti interni e internazionali non impedirono che da metà secolo tutta la regione vivesse – pure con intensità ed esiti diversi – una fase di modernizzazione e crescita economica, dovuta soprattutto all’integrazione nei circuiti finanziari, commerciali e migratori globali.

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La Repubblica argentina, divenuta Stato federale nel 1853, fu uno dei paesi che più crebbero dal punto di vista economico. Lo fece appunto grazie sia ai capitali britannici e statunitensi, sia alla manodopera a basso costo rappresentata dai circa 6 milioni di europei giunti fra 1857 e 1930. Furono questi i fattori alla base della costruzione di un’ampia rete ferroviaria (dai 730 km del 1870 ai 33 000 del 1910). Così come furono per lo più contadini immigrati a sviluppare l’allevamento e mettere a coltura le immense e fertili pianure (dai 2,5 milioni di ettari coltivati nel 1888 ai 24 del 1914), contribuendo all’invasione dei mercati europei da parte delle carni e dei grani americani sino al punto che il valore dei beni argentini importati dalla Gran Bretagna passò da 1,5 a 41 milioni di sterline fra il 1860 e il 1914.

Anche in Brasile gli investimenti stranieri e l’immigrazione risultarono decisivi per lo sviluppo e la collocazione nei circuiti globali. I primi aumentarono del 700% fra 1880 e 1929, mentre la seconda rimpiazzò gradualmente il lavoro coatto nelle piantagioni di zucchero, di cotone, di caffè e nella produzione della gomma ricavata dagli alberi della foresta amazzonica. Il che rese meno traumatica per il sistema economico brasiliano l’abolizione della schiavitù del 1888: un processo molto contestato dai proprietari nonostante i lauti risarcimenti offerti dallo Stato, ma in realtà reso comunque graduale dalla progressiva riduzione della percentuale di schiavi sul totale della popolazione registrato fra 1850 e 1888 (dal 30% al 3%).

Infine, soprattutto alle ditte e ai tecnici stranieri si doveva lo sfruttamento sempre più vantaggioso delle miniere che erano alla base della crescita di paesi come il Perù, il Cile e il Messico, il cui prodotto interno lordo aumentò del 50% tra fine Ottocento e inizio Novecento.

I capitali stranieri e gli introiti fiscali derivanti dalla crescita economica consentirono a molti degli Stati sudamericani di accelerare i processi di State building. A più efficaci iniziative di mappatura del territorio e di censimento della popolazione si affiancarono un maggior controllo delle periferie, lo smantellamento di eserciti privati e locali, sistemi educativi e giudiziari nazionali e una certa professionalizzazione delle forze armate e della burocrazia, secondo l’esempio di potenze europee come la Francia e poi l’Impero tedesco.

In molti paesi ciò però coincise con un implicito compromesso fra le fazioni liberali e conservatrici delle élite al potere. Le prime non chiesero trasformazioni sociali particolarmente profonde, mentre le seconde rinunciarono al ritorno al vecchio ordine corporativo. Dopo le tante guerre civili e internazionali dei decenni precedenti, solo facendo blocco contro le istanze di democratizzazione e di redistribuzione della ricchezza provenienti da fette più o meno larghe della società i gruppi dirigenti potevano infatti garantire le condizioni di pace e di ordine necessarie a favorire lo sviluppo economico e, soprattutto, a perpetuare il proprio potere.

Dal dirigismo ai nuovi rivolgimenti

Il consolidamento economico e istituzionale dei paesi latinoamericani non raggiunse però le regioni più remote e, anche in quelle più avanzate, le basi dello sviluppo restarono fragili. Da un lato, la dipendenza dalle esportazioni e dagli investimenti stranieri condizionò la libertà d’azione dei governi, configurando una nuova forma di dipendenza poi definita “neocolonialismo”. Dall’altro, l’accordo stretto fra le élite fece sì che la ricchezza derivante dall’aumento delle esportazioni andasse a vantaggio soprattutto di queste oligarchie di proprietari terrieri e uomini d’affari per lo più creoli. Anche dove vigevano costituzioni liberali, solo molto lentamente vennero mitigati gli enormi squilibri sociali e le discriminazioni nei confronti di neri e nativi. Le società restavano ancora molto segmentate, la mobilità sociale era scarsa e i gruppi di potere, ispirati a un dirigismo di matrice positivista, sfruttavano il sostegno della Chiesa e dell’esercito per consolidare il proprio dominio. Contro questo blocco di potere, però, a fine secolo iniziarono a battersi sia i ceti medi emergenti sia i movimenti contadini e operai di orientamento socialista, anarchico e anche cattolico.

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Nell’Impero brasiliano queste tensioni si sommarono alle problematiche eredità della Guerra della Triplice Alleanza, cioè il rafforzamento della casta militare, la crescita del debito pubblico e la difficile gestione degli schiavi affrancati [ 16] per arruolarli nell’esercito. Nel 1889 ciò produsse un colpo di Stato militare sostenuto in particolare dai latifondisti schiavisti. L’imperatore Pietro II (1825-91) fu cacciato e il Brasile divenne una repubblica federale guidata dai due Stati più ricchi (San Paolo e Minas Gerais), ma con ampie autonomie concesse agli altri [ 17].
Altrove i governi invece tennero. In Messico, il regime di Porfirio Díaz sopravvisse dal 1876 al 1910, sostenuto dagli interessi stranieri nelle miniere e da quelli dei grandi proprietari terrieri arricchitisi con i terreni sottratti ai nativi. In Argentina, la precoce nascita di moderni partiti politici e sindacati non intaccò il potere delle oligarchie al governo. Sfruttando l’enorme crescita economica e l’omogeneità etnoculturale garantita all’Argentina da un’immigrazione in larghissima parte cattolica e italo-ispanica, i ceti dirigenti furono anzi abili a prevenire i rischi rivoluzionari o di colpo di stato militare traghettando lentamente e senza traumi il paese da un regime liberale a uno democratico. Si realizzava così una transizione guidata alla democrazia che finiva per rafforzare il loro ruolo già dominante piuttosto che aprire alle classi emergenti concreti spazi di manovra politica.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900