Società e culture indiane
La letteratura e il cinema occidentali hanno mostrato un’immagine del “pellerossa” largamente convenzionale, appiattita sui tratti delle tribù più familiari e che meglio si prestavano a fornire un’idea di feroce barbarie. Ma in realtà le popolazioni native non solo si dividevano in tribù dalle diverse culture e strutture socioeconomiche, ma erano a loro volta frazionate in sottoinsiemi a volte in conflitto. Se i contatti reciproci generavano infatti ibridazioni e coalizioni nelle guerre contro i colonizzatori, ciò non cancellava né le peculiarità di ogni popolo né le lotte interne al mondo indiano per il controllo del territorio o per le azioni predatorie di alcuni gruppi. E a questo si aggiungeva il fatto che per molte nazioni indiane la distinzione fra sedentarietà e nomadismo era assai labile (restavano sedentari sino a esaurire le risorse naturali del posto e poi si spostavano), tanto più man mano che l’avanzata dei coloni le costrinse a spostarsi dai propri territori in aree nuove dove ricostruirsi uno stile di vita (i Sioux erano coltivatori sedentari nella regione dei Grandi Laghi e solo in seguito alla migrazione nelle Grandi pianure impararono a cavalcare e si trasformarono in guerrieri).
Certo, gli elementi in comune non mancavano: una necessaria simbiosi con l’ambiente, uno stile di vita e una concezione del tempo fondati sui cicli della natura, una forte dimensione comunitaria con impronta patriarcale e il carattere sincretico di tutte le loro molteplici e complesse religioni: credenze che solo in alcuni casi ricorrevano a totem, peraltro molto diversi fra loro per aspetto e funzioni. Tuttavia, le nazioni indiane differivano non solo per lingua, cultura, folklore, espressioni artistiche e sistema di valori, ma anche per abilità e livello tecnologico. Ne derivavano culture materiali differenti. Si vedeva bene, per esempio, nelle armi da caccia e da guerra, che spaziavano dalle armi da taglio (di solito a lama corta) ad archi e frecce, pietre levigate e diversi tipi di lancia, la cui potenza di tiro era talvolta accresciuta tramite l’atlati (un’assicella di legno a prolungamento del braccio, dotata di uncino a un’estremità in cui era inserita la lancia). Inoltre, alcune tribù impararono presto a usare i fucili, rubati, sottratti ai nemici uccisi o forniti dagli stessi bianchi a gruppi ritenuti alleati. Molti popoli conservavano poi proprie armi rituali, a cui attribuivano grande valore simbolico. Fra queste vi erano gli “scudi medici”, simili a scudi da battaglia ma più sottili e leggeri perché dovevano proteggere lo spirito del guerriero e non il corpo. Ma ancor più centrale nella ritualità di guerra dei nativi era la cosiddetta “ascia di guerra”. Proprio l’ascia poteva infatti essere al contempo una pipa cerimoniale, il cui nome variava di popolo in popolo così come la fattura, le decorazioni e le sostanze che vi si fumavano. I primi coloni francesi la battezzarono genericamente calumet (da chalumeau, “canna”), ma anche questo era un oggetto presente non in tutte le tradizioni, spesso usato con funzioni diverse (innalzare preghiere durante cerimonie religiose, solennizzare accordi) e a volte strettamente connesso a leggende diffuse soltanto presso un popolo (i Sioux Lakota, per esempio, l’attribuivano alla profetessa Donna Giovane Bisonte Bianco).
Era però nelle scelte abitative che più ancora si evidenziava la varietà delle culture indiane. Le tipiche tende coniche rappresentate dalla tradizione, le cosiddette tipi con la struttura di legno e la copertura di pelle di bufalo, erano usate solo dai cacciatori nomadi delle Grandi pianure, che le smontavano per portarle con sé. Per il resto gli usi variavano secondo il clima e le esigenze: dalle spaziose case di erba, buone per i climi caldi delle pianure meridionali con i loro telai lignei piegati a forma di cupola e ricoperti di erba, ai wigwam del Nordest, simili e anch’essi fissi, ma più resistenti, in quanto dovevano sostenere inverni più rigidi; dalle asi dei Cherokee e degli altri popoli dediti all’agricoltura nella calura del Sudest (casette di ramoscelli intrecciati ricoperti d’intonaco con il tetto in erba o corteccia), alle palafitte chickee dei Seminole nella paludosa Florida (prive di mura e sollevate per evitare l’ingresso di coccodrilli e serpenti); sino a costruzioni articolate come le case in adobe dei Pueblos, contadini stanziali del Sudovest: complessi di case modulari fatte appunto di mattoni di adobe (terra, paglia e argilla, a volte rafforzati con grandi pietre), ognuna delle quali ospitava una famiglia.