17.4 Tre imperi alle soglie del Novecento

Il Congresso di Berlino
La seguente Pace di Santo Stefano (marzo 1878) privò la Porta di quasi un terzo del suo territorio e un quinto della popolazione: Serbia, Montenegro, Romania e una Bulgaria dai confini molto ampi (la cosiddetta “Grande Bulgaria”) ottennero l’indipendenza sotto un’influenza zarista ormai pervasiva nei Balcani, come venne ribattezzata quest’ampia area che fino ad allora era stata significativamente indicata come “Turchia d’Europa”. Su iniziativa asburgica e col beneplacito di Bismarck una conferenza internazionale fu però subito convocata per limare gli accordi russo-turchi e ottenere rassicurazioni circa le mire dello zar in Europa sudorientale, malviste anche dai britannici. Il Congresso di Berlino (giugno-luglio 1878) intervenne dunque a ridurre la sua eccessiva influenza nella regione, assegnando agli Asburgo l’amministrazione della provincia a maggioranza musulmana della Bosnia-Erzegovina, formalmente però ancora ottomana, e frazionando la “Grande Bulgaria” filorussa in modo da restituirne una parte al sultano [ 7].
Pace di Santo Stefano (marzo 1878) Congresso di Berlino (giugno-luglio 1878)

“Grande Bulgaria” indipendente (formata da Bulgaria, Rumelia orientale, Macedonia eccetto Salonicco) 

 Bulgaria indipendente ma senza Rumelia orientale né Macedonia (restituite all’Impero ottomano)

Romania indipendente (con perdita della Bessarabia, restituita all’Impero russo)

 Romania indipendente (con perdita della Bessarabia ma annessione di parte della Dobrugia) 

Serbia e Montenegro indipendenti (con ampliamenti territoriali) 

 Serbia e Montenegro indipendenti (con minime modifiche territoriali rispetto alla Pace di Santo Stefano)

Bosnia-Erzegovina ancora sotto controllo ottomano 

 Bosnia-Erzegovina amministrate dall’Impero austroungarico ma formalmente ottomane

Nel ridisegnare la cartina di un’area composita sul piano linguistico-religioso quanto cruciale per gli equilibri fra le potenze europee, l’accordo sanciva definitivamente il ruolo dell’elemento etnonazionale quale criterio per la ripartizione e l’organizzazione di comunità che per secoli si erano distinte piuttosto in base alla religione. Dove prima c’era l’Impero ottomano, nasceva infatti un mosaico di Stati indipendenti i cui confini erano sì definiti soprattutto sulla scorta di considerazioni geopolitiche, ma la cui esistenza era legittimata ora dall’essere espressione di popoli differenti fra loro dal punto di vista linguistico, culturale ed etnico, oltre che confessionale. E la stessa logica veniva applicata alle minoranze ora definite “nazionali” rimaste all’interno dell’Impero ottomano: quella armena, per esempio, il rispetto dei cui diritti fondamentali da parte della Porta era espressamente previsto dai trattati.

Lo scarso senso di appartenenza nazionale di gran parte della popolazione e il carattere spiccatamente elitario dei movimenti nazionali avrebbero però costituito il principale punto di debolezza dei nuovi Stati balcanici, costretti a ricalcare i propri Nation building su quelli occidentali e sulla contrapposizione etnoreligiosa con i popoli vicini. Questa debolezza facilitava l’ingerenza delle principali potenze continentali, trasformando i processi di indipendenza formale dalla Porta in nuove dipendenze di fatto. La ridefinizione degli equilibri orientali rientrava insomma a pieno titolo nelle più ampie dinamiche geopolitiche continentali.

La fine del Tanzimat
Il 1878 segnò per l’Impero ottomano una cesura netta anche sotto altri aspetti. La guerra e lo shock della resa portarono alla sospensione a tempo indeterminato della costituzione entrata in vigore solo due anni prima, ponendo bruscamente fine al Tanzimat che aveva caratterizzato i decenni precedenti, pur fra mille incertezze e limiti. La perdita di buona parte dei territori europei fece inoltre tramontare l’idea, a lungo inseguita, di poter tenere insieme i tanti popoli dell’impero sotto una comune identità ottomana [▶ cap. 12.5]. Ne derivò anzi una sempre più netta contrapposizione fra il movimento che intendeva ridefinire tale identità in chiave musulmana, rinsaldando lo Stato attraverso una drastica riduzione dei pluralismi, e le comunità che aspiravano all’indipendenza sulla base della propria alterità nazional-religiosa. Così, nei decenni seguenti, le diverse chiese ortodosse collaborarono con le élite locali alla nazionalizzazione dei popoli sottrattisi al controllo del sultano, e le minoranze rimaste nell’impero iniziarono a loro volta a prefigurare progetti separatisti o autonomisti.
 >> pagina 536 

Per contro, dopo il 1878 l’impero accolse oltre 750 000 turchi-musulmani fuggiti dalle rappresaglie e dalle discriminazioni subite nei paesi balcanici diventati indipendenti, caratterizzandosi sempre più come uno Stato islamico e asiatico. Tanto più dopo la perdita di molti dei suoi possedimenti africani, fra cui la Tunisia (1881), l’Egitto (1882) e sino ad arrivare alla Libia (1912).
L’autoritaria modernizzazione di Abdül Hamid II
Fu in questo clima che operò il nuovo sultano Abdül Hamid II, salito al trono nel 1876 e subito deciso a rompere con la linea riformista dei suoi predecessori. Egli riaffermò le prerogative del sultano prima con la revoca della costituzione, poi con la mancata riconvocazione del parlamento, e infine avviando una capillare attività di censura e repressione poliziesca. All’atteggiamento autoritario, tuttavia, Abdül Hamid accompagnò la prosecuzione dello sforzo modernizzatore, concretizzatosi in una vasta opera di infrastrutturazione viaria e telegrafica, nello sviluppo di un’agricoltura capitalistica e da esportazione, nella limitazione dell’influenza religiosa nell’istruzione, nella capacità di attrarre capitali stranieri e nella nascita di un fitto tessuto di piccole imprese (per lo più gestite da cristiani).

I limiti e i costi di questa politica risultarono però superiori ai vantaggi. Fortemente indebitato con alcune delle principali potenze continentali, l’impero vide via via aumentare la loro ingerenza nelle vicende interne. Già forte grazie alla massiccia presenza di compagnie occidentali cui era da tempo consentito di sfruttare risorse e spazi della Porta a condizioni molto favorevoli, l’influenza di Londra, Parigi e Berlino giunse fino a sottrarre  asset vitali per l’economia del paese come il controllo del canale di Suez, e a dettare scelte strategiche in vari campi [ 8]. Sempre che non si trasformasse in vere e proprie aggressioni, come la breve guerra anglo-egiziana con cui i britannici presero il controllo dell’Egitto nel 1882, pur lasciandolo formalmente alla Porta [ 9].

Malcontento e islamizzazione della Porta

Una così palese soggezione politica ed economica ad altre potenze, mista al fastidio per la stretta conservatrice e alle trasformazioni sociali prodotte dalla modernizzazione, alimentò un diffuso malcontento e soprattutto l’astio nei confronti di un Occidente considerato non solo infedele in quanto largamente cristiano, ma anche colpevole di causare e approfittare della crisi dell’impero. Emersero così due proposte politiche differenti ma convergenti proprio nel comune disegno antioccidentale:

  • il cosiddetto “revivalismo islamico”, un movimento di matrice popolare che associava le aspirazioni dei ceti inferiori a migliori condizioni di vita all’idea di riportare l’impero ai suoi fasti passati tramite una profonda opera di rigenerazione religiosa della società;
  • l’idea panislamista di un’unità dei popoli musulmani su base religiosa, che si differenziava tanto dal panslavismo russo quanto dal pangermanesimo tedesco, fondati invece su base etno-linguistica. I Giovani ottomani si richiamavano al panislamismo già nei primi anni Settanta per legittimare le mire espansionistiche della Porta, ma in questa fase esso divenne uno strumento per liberare l’impero dalla sudditanza nei confronti delle potenze cristiano-occidentali ormai egemoni pure nello spazio musulmano (il Regno Unito in India, la Francia nel Maghreb, il Regnodei Paesi Bassi in Indonesia), dopo la caduta di tutte le altre grandi dinastie islamiche (i Moghul in India, i Safavidi in Persia).
 >> pagina 537 

Sfruttando queste ideologie e rivolgendosi alle masse musulmane “revivaliste” come ai ceti superiori, più colti e ricchi, Abdül Hamid tentò di coagulare attorno a sé un impero altrimenti diviso, islamizzando lo Stato e coinvolgendo come mai prima d’ora le province arabe nella vita culturale e istituzionale. Era l’idea di un nuovo ottomanismo, sia perché veicolava il concetto di patria ottomana attraverso i tipici strumenti occidentali di Nation building (i simboli nazionali come l’inno e la bandiera, la scuola e il materiale didattico-cartografico, la semplificazione della lingua ottomana per favorirne la diffusione), sia perché era fondato non più sull’uguaglianza di tutti i sudditi a prescindere dalla fede, ma al contrario sull’identità religiosa comune alla maggioranza della popolazione e sull’idea (mai però concretamente perseguita sul piano politico-militare) di una comunità islamica riunita sotto una sorta di sultano- califfo.

La diffidenza nei confronti delle comunità cristiane rimaste all’interno dei confini imperiali divenne sempre più palese, così come i timori dei sudditi non musulmani per la propria incolumità, tanto più dopo le ritorsioni contro i greco-ortodossi in seguito all’annessione greca di Creta (1897) e i massacri degli armeni ordinati dal sultano nel 1894 e nel 1896 [ 10] in risposta al tentativo del movimento nazionalista armeno di coinvolgere nella sua causa l’Impero russo e il Regno Unito (le potenze maggiormente interessate a mettere le mani sull’Anatolia). Il secolare sistema ottomano di pacifica coabitazione interreligiosa e interetnica era ormai un ricordo, cancellato dai nazionalismi interni e dalle ingerenze internazionali.

 >> pagina 538 

17.4 Tre imperi alle soglie del Novecento 

Le sfide della modernità

L’Impero austro-ungarico, l’Impero russo e l’Impero ottomano entrarono dunque nel nuovo secolo reduci da passaggi sovrapponibili solo in parte e in condizioni non uguali, ma accomunati da alcune caratteristiche di fondo.  

Lungi dall’essere soltanto l’immobile e anacronistico residuo di un passato preindustriale, ognuno affrontò le sfide poste dalla modernità e dalla globalizzazione. Lo fecero con alterne fortune, stravolgendo i tradizionali assetti socioeconomici interni, non riuscendo a coinvolgere che limitate porzioni dei loro immensi territori e vedendo nel complesso accrescersi la distanza che li separava dalle principali potenze continentali e dai più avanzati paesi extraeuropei: disomogeneità, tensioni intestine e forme di dipendenza economico-finanziaria dai capitali stranieri che costituivano gravi elementi di debolezza soprattutto nel caso ottomano.

Tuttavia, ciò non toglie che nell’ultimo trentennio dell’Ottocento gli assetti produttivi dei grandi imperi dell’Est Europa conobbero profonde trasformazioni, sia dove ciò significò la nascita o lo sviluppo di importanti distretti industriali come quelli boemi o il Donbass, sia dove ciò si tradusse nella specializzazione in produzioni agricole funzionali a una divisione del lavoro su scala mondiale che si faceva sempre più netta, come per i grani ucraini e delle province meridionali dell’Impero russo destinati a invadere i mercati occidentali a partire dagli anni Settanta. Non si spiegavano altrimenti né la nascita anche in questi paesi di partiti di orientamento socialista, né il loro progressivo affermarsi nella sempre più numerosa classe operaia, né le agitazioni e le manifestazioni che da un lato imposero ai governi riforme anche in ambito sociale e dall’altro li costrinsero a forme di repressione non di rado assai violente. 

Allo stesso modo, passi avanti furono fatti dal punto di vista delle infrastrutture, con porti e fiumi resi accessibili alle navi a vapore, ciclopiche opere d’ingegneria come il canale di Suez, reti ferroviarie più fitte, alcune tratte transcontinentali e almeno le città principali dotate di fogne e illuminazione elettrica. Erano d’altronde le università, i teatri e i salotti di centri come San Pietroburgo, Odessa, Mosca, Vienna, Praga, Budapest e Costantinopoli a ospitare i protagonisti di una fioritura culturale ovunque di alto livello, anche se dai tratti diversi nei vari paesi: sempre più sospesa fra islam e Occidente quella ottomana, slavofila invece almeno parte di quella russa. 

Insomma, industrializzazione, interconnessione dei mercati, sviluppo scientifico, ricche produzioni artistiche e questione sociale non erano certo fenomeni esclusivi né dei capofila dei processi d’industrializzazione né dell’Occidente. 

 >> pagina 539 

Imperi nell’età delle nazioni
Proprio il desiderio di non devolvere ai rispettivi governi centrali le risorse derivanti dall’ingresso nei circuiti commerciali e finanziari globali fu però uno dei fattori che, assieme al diffondersi dei sentimenti nazionali e all’attaccamento a vecchi privilegi, fomentò le resistenze di élite locali e popoli sottomessi ai tentativi di modernizzazione politico-istituzionale posti in essere tanto dal regime zarista quanto dagli Asburgo e dai governi ottomani. Già da tempo avviati sulla strada delle riforme come la Sublime Porta del Tanzimat, oscillanti fra aperture liberali e brusche svolte autoritarie come gli zar, oppure costretti da repentini mutamenti dell’assetto istituzionale come nel caso dell’Impero asburgico divenuto Duplice monarchia austro-ungarica, tutti e tre i grandi Stati multilingue promossero infatti importanti riforme in campo giuridico e istituzionale. Senza mettere mai in discussione gli ampi poteri del sovrano, ed anzi rafforzandoli come nel caso dello zar, essi provarono a rispondere almeno in parte al desiderio di partecipazione politica degli emergenti ceti borghesi. 

Alle riforme elettorali e alle nuove Carte essi accompagnarono però politiche di accentramento del potere, nel tentativo di riprodurre su più ampia scala gli efficienti meccanismi dello Stato amministrativo di matrice napoleonica, di formare una burocrazia competente e fedele, di ridurre i particolarismi, di ottenere un controllo effettivo su tutti i rispettivi territori e di affrontare i problemi connessi alla convivenza di popoli diversi per lingue, culture e confessioni religiose. 

In una fase contrassegnata in Europa centroccidentale dalle unificazioni nazionali d’Italia [▶ cap. 13] e Germania [▶ cap. 16], nell’altra metà del Vecchio continente si andarono quindi gradualmente stemperando il pluralismo, il plurilinguismo e i tradizionali meccanismi giuridico-istituzionali che avevano consentito la tenuta degli imperi multinazionali. Essi furono sostituiti da una maggiore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini, da obblighi più gravosi ed effettivamente imposti loro in nome dell’uniformità amministrativa e dei bisogni di quello stesso Stato, nonché da distinzioni più nette fra le comunità fondate sulla lingua o sulla religione. Ciò acuì non solo l’insofferenza nei confronti dei poteri centrali e dei loro emissari, ma anche le dispute tese a definire i rapporti di forza fra le diverse comunità, fomentando le rivendicazioni di chi non si vedeva riconosciute dalle autorità imperiali le prerogative e le concessioni fatte ad altri. Era d’altronde all’interno di questi nuovi fragili equilibri che si collocava un altro tratto comune a questi imperi, ma anche a molti paesi occidentali come la Francia e l’Impero tedesco: il montare dell’antisemitismo. Le discriminazioni vigenti nella Duplice monarchia asburgica e i pogrom organizzati nell’Impero russo rappresentarono alcune delle massime espressioni dell’intolleranza nei confronti degli ebrei, ponendo le basi di una concezione biologica del razzismo antisemita e spingendo migliaia di persone a emigrare in luoghi più sicuri come gli Stati Uniti o la Palestina. Insomma, non l’arretratezza politico-istituzionale ma semmai la modernizzazione era la causa principale non solo delle tensioni fra il potere centrale e le periferie, ma anche degli attriti fra i vari gruppi etnolinguistici che costringevano i governi imperiali a investire enormi risorse per provare a controllare le diverse, concomitanti e a volte contrapposte spinte centrifughe interne.

 >> pagina 540 

Imperi e imperialismi
Le difficoltà nel controllare i popoli sottomessi erano in realtà un tratto comune a tutti gli imperi, da quelli asiatici come il cinese a quelli coloniali europei [▶ cap. 12.2]. In casi come quello ottomano essa diventava però pretesto utile alle altre potenze per giustificare le loro mire e ingerenze. Ciononostante, dotati di eserciti tecnologicamente meno avanzati di quelli occidentali ma assai numerosi e ormai ricalcati sul modello tedesco (pochi esenti dalla leva, riserve addestrate periodicamente), nessuno dei tre grandi imperi rinunciò mai a ragionare come grande potenza e a coltivare aspirazioni espansionistiche quanto meno regionali, nella convinzione di riuscire a negoziare spazi di manovra all’interno degli equilibri geopolitici affollati da nuovi attori (l’Italia unita, gli Stati Uniti usciti dalla Guerra di secessione, il Giappone) e dettati dalla dominante forza tedesca e dalla spinta imperialista franco-britannica.  

La netta sconfitta nella Guerra russo-turca del 1877-78 aveva per esempio privato la Sublime Porta di molti suoi possedimenti europei e della possibilità di essere protagonista nel Vecchio continente, ma le lasciava territori immensi sparsi fra la costa settentrionale dell’Africa, la penisola arabica e il Medio Oriente. Tanto meno la successiva perdita di regioni anche importanti come la Tunisia, l’isola di Cipro o l’Egitto, ne azzerò le velleità imperialiste in quelle aree e gli sforzi per assoggettare i popoli più riottosi come gli armeni. 

Allo stesso modo, il trionfo prussiano nella corsa all’egemonia sull’area tedesca non fece altro che imporre agli Asburgo di spostare l’asse della loro politica estera verso i Balcani, dove seguitarono a giocare un ruolo decisivo dal punto di vista diplomatico e militare, rafforzando la propria presenza con l’acquisizione del diritto ad amministrare la Bosnia ottomana sancito dal Congresso di Berlino del 1878. 

Infine, la cocente delusione per lo sfortunato esito della Guerra di Crimea [▶ cap. 12.3] non impedì agli zar di contrastare con un certo successo l’espansione britannica e l’emergente potenza giapponese in Cina, di estendere il loro dominio in Asia centrale come nel Caucaso, e pure di mantenere una qualche influenza sugli Stati balcanici resisi indipendenti proprio grazie al decisivo intervento russo nella Grande crisi orientale e nella guerra del 1877-78. 

I grandi imperi entravano dunque nel nuovo secolo dilaniati da incomponibili divisioni interne e da crisi di rigetto ai loro tentativi di riorganizzazione interna, ma appunto pur sempre come grandi imperi. In pochi, insomma, ancora a inizio Novecento avrebbero mai potuto presagirne il crollo di lì a un ventennio. Eppure, come vedremo, così sarebbe andata. Ma non certo come prevedibile punto d’arrivo di un lento e costante declino.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900