17.1 Due monarchie e tante nazioni: la Duplice monarchia asburgica dopo il 1867

Per riprendere il filo…

La Guerra di Crimea (1853-56), la guerra austro-prussiana (1866), l’unificazione nazionale italiana (1861) e tedesca (1871) avevano avuto forti ripercussioni anche sui grandi imperi dell’Europa centrorientale. Quello asburgico, estromesso dalla penisola italiana, aveva dovuto cedere alle pressioni ungheresi e trasformare l’impero nella Duplice monarchia austro-ungarica (1867). Quello russo aveva tratto spunto dalla sconfitta in Crimea per riforme che, pur tese a ripristinarne il prestigio internazionale e a rafforzare l’assolutismo zarista, avevano favorito una certa modernizzazione socioeconomica e una notevole fioritura scientifico-culturale. Vincitore in Crimea e ammesso fra le grandi potenze europee, l’Impero ottomano aveva invece rafforzato la spinta riformatrice e la connessa occidentalizzazione (Tanzimat ), ma risultava minato dall’irrisolta questione d’Oriente e dalle spaccature nazionali e religiose al suo interno.

17.1 Due monarchie e tante nazioni: la Duplice monarchia asburgica dopo il 1867

Cisleitania e Transleitania dopo il “compromesso”

Fra gli imperi più colpiti dai processi di unificazione nazionale c’era quello asburgico. Orfano della sua influenza sulla penisola italiana ed estromesso dall’area tedesca in favore della Prussia, nel 1867 esso si era trasformato in Duplice monarchia austro-ungherese ma ciò non aveva appianato né i problemi fra Vienna e i vari popoli che abitavano l’impero né, tanto meno, le tensioni fra i diversi gruppi etnolinguistici. Al contrario, sin da subito il governo ungherese sfruttò la posizione privilegiata garantita dal “compromesso” [▶ cap. 16.2] e il forte spirito nazionale della popolazione magiara per rafforzare il suo controllo sulle minoranze slave presenti in Transleitania e assimilarle, erodendo progressivamente gli spazi associativi e formativi (scuole, club, associazioni) concessi loro in nome della teorica eguaglianza fra tutte le lingue parlate nel paese. Il consolidamento politico-istituzionale del nuovo Regno ungherese fu accompagnato da uno sviluppo economico e infrastrutturale tale da renderlo competitivo con molte regioni cisleitane. Ma esso si svolse appunto all’insegna di un marcato centralismo su base etnolinguistica che acuì attriti internazionali nell’area.

Mentre l’Ungheria faceva l’“impero dentro l’impero” e si mostrava in grado di negoziare alla pari con Vienna, in Cisleitania l’insoddisfazione per il nuovo assetto e i persistenti problemi con le minoranze spinsero l’imperatore a procedere sulla via delle riforme. Prima fu emanata la cosiddetta “Costituzione di dicembre” (1867), che sanciva alcuni principi fondamentali fra cui l’eguaglianza davanti alla legge, la libertà di stampa, religione e associazione, l’abolizione della servitù della gleba. Poi, un governo composto in gran parte da ministri d’estrazione borghese e di orientamento liberale provvide a una prudente riforma elettorale (1873) e alla riduzione del carattere repressivo e confessionale dello Stato (nuovo codice penale, abolizione del concordato con la Chiesa cattolica). Tuttavia, la maggioranza parlamentare che sosteneva il governo liberale restava debole per l’eterogeneità sociale e ideologica della sua base elettorale, composta da proprietari terrieri avversi al conservatorismo della vecchia aristocrazia, dalla borghesia imprenditoriale e intellettuale liberista e dai ceti medi urbani, animati da un forte nazionalismo germanofilo. 

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I governi conservatori e l’inasprimento delle dispute linguistiche

Nel 1879 il governo della Cisleitania passò quindi a una coalizione di conservatori clericali tedeschi, sloveni e italiani. A questi si aggiunsero i nazionalisti cechi e la vecchia aristocrazia boema, che nei sedici anni precedenti avevano invece disertato il parlamento in polemica con la mancata estensione ai cechi delle concessioni fatte invece agli ungheresi con la “legge del compromesso” del 1867 [▶ cap. 16.2]. Attraversato dalle tensioni fra le sue diverse componenti nazionali, il nuovo esecutivo conservatore provò ad assecondarne e al contempo a bilanciarne le contrapposte rivendicazioni

A dispetto del plurilinguismo da sempre tipico dei territori cisletani, sia i nazionalisti tedeschi sia soprattutto i nazionalisti cechi presero però a fare della lingua un preciso indice di appartenenza nazionale, e del suo uso pubblico uno strumento per affermare la supremazia dei rispettivi gruppi nazionali nelle aree mistilingue [ 1]. Così, mentre i primi difendevano il tedesco come unica lingua dello Stato e della cultura imperiale, nel 1880 i secondi riuscirono a ottenere sia la parificazione fra ceco e tedesco come lingue di comunicazione fra cittadinanza e pubblica amministrazione, sia funzionari almeno bilingui nelle regioni a maggioranza ceca: due conquiste che allarmarono i germanofili, preoccupati pure dalla crescente percentuale di slavofoni nelle grandi città boeme e a Trieste. Il fatto che sempre più contadini slavi inurbati rifiutassero una germanizzazione prima considerata segno di ascesa socio-culturale era infatti sintomatico del successo ottenuto dagli sforzi di nazionalizzazione delle masse rurali profusi dalle élite ceche [▶ cap. 16.1]. Non a caso, nel 1897 questo ormai largo consenso popolare portò il gruppo nazionalista dei Giovani cechi a vincere le prime elezioni dopo l’allargamento del suffragio dell’anno precedente, e a dare ulteriore forte spinta e un sostegno normativo all’autonomismo ceco mediante leggi che imponevano il bilinguismo tedesco-ceco violentemente contestate dalla burocrazia di lingua tedesca e dalle minoranze germanofone della Boemia. 

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Le tensioni linguistico-nazionali si intrecciarono così con altre a sfondo razzista e sociale. Da un lato andava crescendo l’antisemitismo, incarnato nel leader del Partito cristiano-sociale e sindaco di Vienna Karl Lueger [ 2]. Dall’altro, una rinnovata legislazione sociale (riduzione della giornata lavorativa, assicurazione obbligatoria) non frenò né le prime agitazioni operaie promosse dal Partito socialdemocratico nelle aree più industrializzate, né i tentativi fatti dai governi locali più riformisti e riottosi al controllo di Vienna e Budapest di espandere la loro autonomia dal governo centrale. Si trattava di un intreccio fra socialismo e nazionalismo che riprendeva precedenti suggestioni [▶ cap. 10] ma che – a cavallo fra Ottocento e Novecento – avrebbe trovato i suoi più fecondi e originali sviluppi in due proposte politiche: 

  • quella di Karl Johann Kautsky, teorico marxista di nazionalità ceca, secondo cui occorreva trasformare l’Impero asburgico in uno Stato federale composto di comunità su base linguistica disposte a garantire i diritti delle minoranze; 
  • quella del cosiddetto “austromarxismo” di Otto Bauer e Karl Renner, ossia l’idea di favorire la nascita di nazioni intese come “semplici associazioni di persone” senza un preciso territorio di riferimento, a cui ogni individuo potesse scegliere di associarsi indipendentemente dalla condivisione di elementi linguistico-culturali (“principio personale”)
Progresso e debolezza della Duplice monarchia
A fine secolo, la Duplice aveva dunque aree avanzate (Boemia, Ungheria, il triestino) grazie anche al protezionismo introdotto nel 1874-75, una ricca vita scientifico-culturale [▶ idee, p. 522], un equilibrio istituzionale interno ormai consolidato ed era dotata, almeno in Cisleitania, di una costituzione e di un diritto di voto più esteso che in precedenza (5 milioni di elettori in più dopo la riforma del 1896). Gli Asburgo, inoltre, erano ancora percepiti come un prestigioso interlocutore sui tavoli della diplomazia continentale, come avevano dimostrato il ruolo giocato al Congresso di Berlino del 1878, l’occupazione della Bosnia-Erzegovina (1878) e la Duplice Alleanza antizarista con l’Impero tedesco (1879), divenuta Triplice con l’ingresso dell’Italia nel 1882 [▶ capp. 14.6 e 16.4].

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Tuttavia, l’impero era reso strutturalmente debole da almeno tre fattori:

  • l’insieme dei compromessi su cui reggeva il suo impianto, che ne facevano una “creatura ibrida” sia dal punto di vista politico-istituzionale (un moderno Stato amministrativo centralista ricco però di particolarismi), sia da quello ideologico, con gli ideali liberali che convivevano con prerogative di antico regime come la sacralità del sovrano;
  • la chiusura delle élite aristocratiche conservatrici alle pressioni delle borghesie emergenti, che produsse un progressivo slittamento in senso autoritario e antiparlamentare dell’azione di governo;
  • i numerosi contrasti che lo attraversavano: quello fra Vienna e Budapest; quello fra operai e borghesia imprenditoriale; le spinte autonomiste di diverse province e quelli linguistico-nazionali.

Per vedere l’impetuosa ascesa di partiti propriamente indipendentisti come quello croato e quello ceco si sarebbe dovuto attendere l’inizio del Novecento, quando ci fu anche il tentativo di secessione promosso dal nuovo re di Serbia con l’appoggio dello zar. Tuttavia, già a fine Ottocento la Duplice monarchia stava implodendo sotto il peso delle sue tante nazioni e delle tensioni generate da quegli stessi sforzi di modernizzazione economico-istituzionale prodotti per tenere il passo dei più avanzati concorrenti europei ed extraeuropei. Né simili tensioni potevano trovare composizione nella persona ormai anziana dell’imperatore, nelle simpatie espresse dalla sua bella e infelice consorte [ 3] o dal prestigio del “mito dinastico”, che pure gli Asburgo alimentavano con cerimonie pubbliche di antica tradizione e di grande impatto sugli ambienti rurali e ultraconservatori.

  idee

La scuola austriaca e il marginalismo

La scuola austriaca (o scuola psicologica) è una scuola di pensiero economico nata negli anni Settanta dell’Ottocento, che trae il proprio nome dal fatto che i suoi esponenti (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek) studiarono o insegnarono a Vienna. Essa condivideva con gli “economisti classici” (Smith, Ricardo) l’idea che i comportamenti economici fossero razionali e che lo Stato non dovesse influenzare il mercato, ma limitarsi a proteggere proprietà e iniziativa privata. Tuttavia, Menger aveva elaborato un metodo di analisi dei fenomeni economici basato sulle scelte dei singoli individui (individualismo metodologico), derivandone un diverso concetto di valore. Se per i “classici” il valore di un bene dipendeva dalla sua rarità sul mercato o dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, per gli “austriaci” esso era invece funzione delle attitudini e della percezione di bisogno del singolo consumatore (utilità marginale), calando man mano che egli lo acquistava: non solo – si diceva – l’acqua vale più per un assetato  che per chi non ha sete, ma anche per l’assetato il primo bicchiere vale più del secondo e molto più dei successivi, quando ha ormai placato la sete. 

Le teorie della scuola austriaca hanno subito nel tempo diverse critiche. I socialisti le hanno accusate di favorire il capitalismo, non mirando a un sistema equo bensì alla migliore allocazione possibile dei capitali investiti. Altri studiosi ne hanno invece contestato aspetti diversi: l’insistenza sull’individuo e la scarsa attenzione al ruolo di gruppi umani complessi nella spiegazione dei fenomeni economici; il presupporre un irrealistico mercato ideale, con molti venditori e compratori, un accesso uniforme alle informazioni e nessuna interferenza da parte delle istituzioni (vincoli normativi, politiche protezionistiche); infine, l’attribuire ogni malfunzionamento del sistema economico all’intervento dello Stato, colpevole delle crisi e persino della formazione dei monopoli. 

Ciò nonostante, la scuola austriaca e il suo marginalismo ebbero grande diffusione, sottolilinearono l’eccessiva astrattezza delle precedenti dottrine economiche, introdussero nuovi strumenti matematici nell’analisi economica (il calcolo infinitesimale) e contribuirono in maniera decisiva a fare dell’economia una scienza, e dell’economista una più definita figura professionale. 

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17.2 Sviluppo senza riforme: l’Impero russo da Alessandro II a Nicola II

Esaurimento e ripresa della spinta riformatrice
Nell’Impero russo, la fase di rinnovamento e modernizzazione seguita alla sconfitta nella Guerra di Crimea si esaurì alla metà degli anni Sessanta, in particolare dopo l’attentato del 1866 ai danni di Alessandro II [▶ cap. 12.4]. L’episodio ebbe effetti profondi anche sulle frange più radicali
dell’opposizione antizarista, spingendole a sospendere le azioni violente e a impegnarsi piuttosto nel diffondere il loro messaggio emancipatore e antiautoritario fra il popolo: attitudine da cui presero il nome di “populisti”. 

Preso atto della scarsa simpatia riscossa fra le masse contadine, i populisti tornarono però presto a una strategia terroristica, compiendo numerosi attentati ai danni di uomini dello Stato. A questa concreta minaccia il regime zarista oppose una duplice azione. Condusse dure campagne repressive ma al contempo riavviò il processo riformatore per sottrarre argomenti alla polemica radicale e migliorare la sua immagine internazionale, offuscata dalla sua fama illiberale e dalle mire espansionistiche nei Balcani: appetiti che – come vedremo a breve – avrebbero condotto Alessandro II a una vittoriosa guerra contro il sultano ottomano nel 1877-78. 

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Il nuovo corso autoritario di Alessandro III 
Il clima si fece nuovamente pesante dopo il 1° marzo 1881, quando una bomba uccise Alessandro II. Lo straziante spettacolo dello zar portato a palazzo gravemente ferito e poi morto fra atroci sofferenze provocarono una durissima reazione governativa. Il nuovo monarca, Alessandro III Romanov, interruppe ogni dialogo con le diverse anime del riformismo russo e avviò un decennio di controriforme il cui esplicito scopo era quello di annullare gli effetti delle aperture concesse dal suo predecessore. E infatti, non appena salito al trono, Alessandro promulgò i cosiddetti “Regolamenti temporanei”, che autorizzavano la sospensione di ogni garanzia in caso di “grave emergenza” per l’ordine costituito.

In politica estera il nuovo zar fu invece più lungimirante, riuscendo a spaccare il fronte antirusso risalente alla Guerra di Crimea e rafforzato dalla Guerra russo-turca del 1877-78 grazie all’alleanza in chiave antitedesca e antiasburgica siglata nel 1891-93 con la Repubblica francese e nota come Duplice Intesa. 

Arretratezza e industrializzazione
La politica interna della corona non cambiò nemmeno con l’ascesa al trono di Nicola II (1894). Il nuovo zar era un uomo dal carattere facilmente influenzabile, piuttosto disinteressato alle questioni di governo e poco incline a coltivare il rapporto con i sudditi e l’aristocrazia, cui preferiva la quiete della vita familiare, le lunghe vacanze in Crimea, le feste, le crociere e semmai l’impegno su temi di alto valore ideale come la regolamentazione della guerra: una questione almeno parzialmente risolta grazie alla Convenzione dell’Aia, che lui stesso aveva promosso nel 1899 [▶ FONTI, p. 526].
Eppure, egli non smise mai di celebrare e puntellare il suo regime autocratico, arrivando persino a vietare la costruzione di edifici più alti del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, la residenza ufficiale della famiglia imperiale. Ma era uno sforzo velleitario di fronte allo sviluppo della società, dell’economia e della vita politica russe, ormai permeate da fremiti di modernità che portavano in sé il germe dell’antiassolutismo. 

Grazie al favorevole ciclo economico mondiale (più che alle riforme promosse da Alessandro II negli anni Settanta), nell’ultimo ventennio del XIX secolo i territori imperiali conobbero infatti un considerevole progresso in campo industriale, profondi cambiamenti negli assetti sociali e una straordinaria fioritura culturale. Le immense aree rurali restavano in realtà segnate da una distribuzione fortemente ineguale delle terre (per il 50% nelle mani di poche decine di migliaia di proprietari e per il restante 50% divise fra circa 120 milioni di contadini) e da condizioni di vita drammatiche, dovute a un’ agricoltura di sussistenza scarsamente meccanizzata e produttiva; l’unica parziale eccezione era costituita dall’esportazione dei cereali e della barbabietola da zucchero, gestita in Ucraina e in alcune province meridionali da ricchi contadini-proprietari soprannominati kulaki (da kulak, “pugno”, e – in senso figurato – “uomo avaro, avido”). Cionondimeno, in tutti i principali centri del paese la crescita urbana andò di pari passo con l’elettrificazione, la realizzazione delle prime linee tramviarie, l’adeguamento dei sistemi fognari e la nascita di forme di associazionismo ricalcate sui modelli occidentali (club, boy scout) che cambiarono a poco a poco l’aspetto e la vita di Mosca, Varsavia, Odessa, Kiev e soprattutto di San Pietroburgo. 

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Dalle principali città si dipanava inoltre una rete ferroviaria sempre più fitta e ampia, frutto di investimenti governativi e privati (per lo più esteri) che fra il 1891 e il 1903 portarono anche alla rapida realizzazione della Transiberiana: oltre 9000 km di binari fra Mosca e le estreme regioni orientali dell’impero, che consentirono il popolamento e lo sfruttamento dell’immensa area siberiana e agevolarono la penetrazione commerciale russa in Cina [ 4]. La strategicità delle ferrovie era d’altronde ben chiara al ministro delle Finanze Sergej Witte: strenuo difensore del protezionismo, introdotto fra 1879 e 1882 a tutela delle industrie nazionali, e capace di rafforzare l’immagine dell’economia russa all’estero attraverso l’adesione al  sistema aureo.

Società e cultura
Mentre i nuovi centri siderurgici del Donbass ucraino e i giacimenti minerari di Baku, in Azerbajdžan, diventavano crogiuoli di etnie e religioni (russi, ucraini, polacchi, ebrei, armeni, georgiani), nella capitale la popolazione residente raddoppiò, gonfiandosi di manovali occupati nell’edilizia, di donne per lo più impiegate come domestiche o dattilografe, operai di ambo i sessi immigrati dalle campagne per lavorare nelle fabbriche. Ma San Pietroburgo, ben più di ogni altra città, conobbe anche la nascita di nuove classi medie composte da tecnici, insegnanti, medici e altri professionisti, desiderosi di ostentare la propria condizione sia attraverso la partecipazione alla socialità cittadina (feste, balletti, spettacoli teatrali), sia con la costruzione di case ed edifici negli stili neorinascimentali e neobarocchi tipici dell’Europa occidentale. Si creò inoltre una comunità degli affari di respiro globale, che dominava la produzione metallurgica, l’industria energetica e il settore bancario.

Se i rampolli dell’alta borghesia beneficiavano dei progressi nel sistema d’istruzione superiore sia in campo tecnico sia nei sempre più numerosi campi di studio aperti anche alle donne, fu più in generale tutta la cultura russa a conoscere in questi anni l’apice di una fioritura cominciata già nell’età delle riforme. A differenza di quanto avvenuto negli anni precedenti, in cui le innovazioni più significative (tra cui la geometria non euclidea di Lobacˇevskij e la tavola periodica di Mendeleev) erano state il frutto dell’ingegno di singoli pionieri o del mecenatismo di qualche aristocratico, ora era lo Stato a farsi promotore dello sviluppo culturale del paese, finanziando teatri, promuovendo studi sul folklore contadino, creando musei di arte russa e aprendo al pubblico il nuovo Museo di San Pietroburgo, l’Hermitage [ 5].
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FONTI

La Convenzione internazionale dell’Aia

La Convenzione dell’Aia del 29 luglio 1899 intendeva «sottoporre a revisione le leggi e gli usi generali della guerra, sia per meglio determinarli, sia per tracciar loro certi limiti, al fine di mitigarne per quanto è possibile l’asprezza». Gli stessi 27 Stati contraenti ammettevano l’impossibilità di normare tutti i casi possibili e i limiti derivanti dal fatto che l’accordo vincolava solo i conflitti fra firmatari. Eppure la Convenzione ebbe il merito di sottrarre la legislazione internazionale sulle condotte in guerra alla vaghezza dei riferimenti tradizionali: il «diritto delle genti», gli «usi vigenti fra gli Stati civili», le «leggi dell’umanità» e le «esigenze della coscienza pubblica».

Sezione I - Dei belligeranti
[...]
Capitolo II - Dei prigionieri di guerra
Art. 4
I prigionieri di guerra sono in potere del Governo nemico [...]. Essi devono essere trattati con mitezza. Tutto ciò che appartiene loro personalmente, ad eccezione delle armi, dei cavalli e delle carte militari, rimane di loro proprietà. 

 
Art. 6 

Lo Stato ha diritto d’adoperare i prigionieri di guerra in lavori corrispondenti al loro grado e all’attitudine loro. Questi lavori non saranno però eccessivi e non staranno in alcun rapporto colle operazioni della guerra. […] I lavori eseguiti per lo Stato sono pagati secondo le tariffe in vigore per i militi dell’esercito nazionale che eseguiscano gli stessi lavori. […] 

 
Art. 7 

[…] In mancanza di speciale accordo fra i belligeranti, i prigionieri di guerra saranno trattati, quanto alla nutrizione, al vestiario e all’alloggio, nello stesso modo che le truppe del Governo che li avrà catturati. 

 
Art. 15
Le società di soccorso pei prigionieri di guerra […] riceveranno da parte dei belligeranti […] tutte le facilitazioni compatibili colle necessità militari […], onde possano soddisfare al loro compito umanitario. […] 

 
Art. 18 

Ai prigionieri di guerra sarà lasciata piena libertà per ciò che riguarda l’esercizio della propria religione, compresa l’assistenza agli uffici del loro culto, alla sola condizione che si conformino alle misure di ordine e di polizia prescritte dall’autorità militare. […] 

 
Art. 20 

Conchiusa la pace, il rimpatrio dei prigionieri si farà nel più breve termine possibile. [...]


Sezione II - Delle ostilità
Capitolo I - Dei mezzi con cui nuocere al nemico, degli assedi e dei bombardamenti
Art. 23 

Oltre ai divieti sanciti da convenzioni speciali, è segnatamente proibito: a) di far uso di veleni o di armi avvelenate; b) di uccidere o di ferire a tradimento individui appartenenti alla nazione o all’armata nemica; c) di uccidere o di ferire un nemico che avendo deposte le armi o non essendo più in grado di difendersi, si è reso a discrezione; d) di dichiarare che non sarà dato quartiere1; e) di far uso di armi, proiettili o materie atti a cagionare inutili sofferenze; f) di abusare della bandiera parlamentare, della bandiera nazionale, delle insegne militari e dell’uniforme del nemico, nonché dei segni distintivi della Convenzione di Ginevra2; g) di distruggere o di sequestrare proprietà nemiche, salvo che tali distruzioni e sequestri fossero imperiosamente richiesti dalle necessità della guerra. 

 
Art. 25 

È proibito di attaccare o bombardare città, villaggi, abitazioni o fabbricati che non siano difesi. 

 
Art. 27 

Negli assedi e nei bombardamenti si dovranno prendere tutte le misure necessarie al fine di risparmiare, per quanto è possibile, gli edifici dedicati al culto, alle arti, alle scienze e alla beneficenza, gli ospedali e i luoghi di ricovero dei malati e feriti, a condizione che non siano adoperati in pari tempo a uno scopo militare. È dovere degli assediati di indicare questi edifizi o luoghi di ricovero con segni visibili speciali da notificarsi anticipatamente all’assediante. 

 
Art. 28 

È proibito di abbandonare al saccheggio una città od una località anche se presa d’assalto. 

 
Sezione III - Del potere militare sul territorio dello Stato nemico   

Art. 46 

L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata, al pari delle convinzioni religiose e dell’esercizio dei culti, devono essere rispettati. La proprietà privata non può essere confiscata. […] 

 
Art. 50 

Nessuna pena collettiva, pecuniaria od altra, può essere inflitta alle popolazioni per atti di singoli individui dei quali esse non possano riguardarsi come solidalmente responsabili. […] 

 
Art. 56
I beni dei comuni, quelli degli istituti consacrati al culto, alla carità e all’istruzione, alle arti ed alle scienze, anche se appartenenti allo Stato, saranno trattati come proprietà privata. Ogni asportazione, distruzione o guasto intenzionale di simili istituti, di monumenti storici, di opere d’arte o di scienza è vietato e deve essere punito. 

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I nuovi nemici dell’autocrazia
Per quanto ancora circoscritti, industrializzazione e inurbamento (anche solo stagionale) erodevano i cardini dell’autocrazia zarista perché riducevano l’isolamento culturale delle aree rurali, scardinavano l’organizzazione interna delle comunità di villaggio e favorivano l’autocoscienza e l’alfabetizzazione degli operai (alfabeti al 60% nel 1897). Tuttavia, in genere le masse erano ancora apolitiche
e facilmente controllabili, sia in ragione di un impianto legislativo che negava legittimità a sindacati e scioperi, sia soprattutto alle vecchie e nuove declinazioni del tradizionale paternalismo con cui molti datori di lavoro garantivano ai propri dipendenti alloggi a basso costo, scuole, luoghi di intrattenimento e persino assistenza contro le patologie più diffuse (l’alcolismo e la sifilide).

Ciò nonostante, a partire dagli anni Ottanta, operai e contadini divennero sempre più i destinatari della propaganda dei principali movimenti eversivi, in particolare i populisti e i socialisti marxisti. I primi, seguitando a incontrare scarso successo nelle comunità di villaggio contadine e nella loro azione terroristica, fondarono nel 1901 il Partito socialista rivoluzionario russo: una formazione che reinterpretava il marxismo attribuendo anche alle masse rurali un ruolo nella futura rivoluzione. I secondi, ispirati da Georgij Valentinovič Plechanov e piuttosto popolari nell’intelligencija, fondarono a Minsk nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico russo, modellato sulla marxista Spd tedesca [▶ cap. 16.4].
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Si trattava ancora di piccoli insiemi, per lo più dediti alla diffusione delle loro idee tramite il volantinaggio e gruppi di lettura. Eppure, al loro interno già spiccavano le figure note con gli pseudonimi di Julij Martov e di Vladimir Lenin, un giovane brillante proveniente da una famiglia già nota alla polizia politica zarista (un fratello era stato impiccato nel 1887 per aver progettato un attentato ad Alessandro III), che si era allontanato dal populismo in polemica con la strategia terrorista, con la scarsa scientificità della sua analisi sociale e con una visione idealizzata della comunità di villaggio russa.

Due imperi in uno: il difficile controllo del territorio
Più gravi dei nascenti movimenti eversivi, comunque, erano i problemi strutturali legati ai nazionalismi e al controllo del territorio, che minavano la solidità del colosso zarista. A fine Ottocento i domini dei Romanov erano ormai costituiti da due ampie aree fra loro assai diverse: da una parte i territori europei che dalla Russia occidentale giungevano sino alle province baltiche, alla Finlandia (annessa nel 1809) e alla Polonia, russificata dopo la rivolta del 1863-64; dall’altra, la vastissima area asiatica, costituita dal Caucaso (preso a fine anni Venti) e dall’Asia centrale, sulla quale gli zar avevano velleitariamente tentato di imporre un colonialismo ispirato a quello britannico.

I territori occidentali erano strategicamente importanti in quanto ricchi di rilevanti centri commerciali (a partire dai porti baltici) e perché costituivano una cerniera difensiva sul fronte occidentale. Il potere zarista si reggeva qui sul sostegno dato di volta in volta a gruppi diversi: i rappresentanti dei contadini in Finlandia, favoriti dall’integrazione nel sistema economico imperiale e felici di poter usare la benevolenza dello zar per limitare il peso dei nobili e dei ceti urbani; le nobiltà locali nelle province ucraine e baltiche, cooptate nell’alta burocrazia e fedeli allo zar anche al fine di contrastare la presenza economicamente e culturalmente egemone di polacchi e tedeschi nei loro territori.

Un caso a parte erano gli ebrei. Già fortemente penalizzati sotto Nicola I fra gli anni Venti e Cinquanta, a partire dagli anni Sessanta essi furono sottoposti a forme d’integrazione selettiva che escludevano una loro piena assimilazione: dovevano risiedere nelle province tradizionalmente abitate, erano ammessi all’università ma non nella pubblica amministrazione e così via. Ancor peggio andò poi all’indomani dell’assassinio di Alessandro II, quando gli ebrei furono vittime di una prima grande ondata di  pogrom. Emigrare oltreoceano o simpatizzare per i movimenti eversivi finirono così per rappresentare l’ovvia risposta di molti ebrei a una condizione destinata a peggiorare man mano che il governo zarista fece dell’antisemitismo l’altra faccia della sua caratterizzazione nazionale russa.

Ben altri problemi aveva lo zar nella parte asiatica dell’impero, che accoglieva il 25% della popolazione totale. Dopo l’esodo circasso seguito alla Guerra di Crimea e la repressione, negli anni Sessanta, della guerriglia antirussa nelle province musulmane della Cecenia e del Daghestan, nel Caucaso e nella Transcaucasia era stato possibile replicare il modello baltico, governando anche i recalcitranti ceceni attraverso la mediazione delle élite georgiane e armene di fede cristiana. Ma, così facendo, tali élite iniziarono a sviluppare a loro volta sentimenti nazionali che, nel caso armeno, avrebbero portato alla nascita della Federazione rivoluzionaria armena (1890) e a strategie rivendicative malviste dal governo zarista benché rivolte per lo più contro la presenza ottomana nella regione [ 6]

Non andava meglio, infine, in Asia centrale. La conquista di quest’area era servita soprattutto a prevenire l’acquisizione britannica dell’Afghanistan e, tutto sommato, era costata un dispendio di uomini e di mezzi limitato. Eppure le difficoltà finanziarie dello Stato zarista, il diffondersi nelle élite locali del  panturchismo e la necessità di destinare ingenti risorse alla difesa della propria influenza sulla Manciuria settentrionale ambita da Londra e dall’emergente potenza giapponese resero di fatto impossibile la modernizzazione dell’area e la realizzazione di un impero coloniale sul modello britannico, come invece avevano immaginato a San Pietroburgo. 

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Il gigante zarista continuava insomma a poggiare su basi fragili. Conglomerato di tante etnie e religioni, l’impero poteva funzionare solo a condizione di restare ciò che era stato nei secoli precedenti: una coalizione di élite e gruppi di interesse uniti pressoché esclusivamente dalla lealtà allo zar, che la ripagava con privilegi e posti nell’amministrazione locale. 

Eppure, la modernizzazione avviata negli anni Sessanta e proseguita nell’ultimo ventennio del secolo stava erodendo l’egemonia socioeconomica di queste nobiltà a favore di nuovi ceti emergenti, ancora lontani da rivendicazioni indipendentiste ma non di rado desiderosi di maggiore autonomia da San Pietroburgo e già portatori di un qualche sentimento nazionale. Di conseguenza, lo zar aveva sempre meno interlocutori disposti a conservargli intatta la fedeltà nelle province occidentali, proprio mentre le crescenti tensioni internazionali e il diffondersi del panturchismo e delle prime forme di nazionalismo minavano le basi della presenza russa anche in Asia. L’essere una potenza euroasiatica era un elemento di forza, ma anche di debolezza. 

17.3 Lo “spazio di mezzo” ottomano  

Gli effetti del Tanzimat e della globalizzazione
In area ottomana gli anni seguiti alla Guerra di Crimea erano stati segnati dall’aggravarsi della questione orientale e dai mutamenti socioeconomici innescati dalla spinta riformista (il Tanzimat) [▶ cap. 12.5]: una fase idealmente culminata nel 1876 con la promulgazione di una nuova costituzione di stampo ottomanista, che sanciva l’uguaglianza di tutti i sudditi, dichiarava l’islam religione di Stato e prevedeva un parlamento dal limitato potere legislativo composto proporzionalmente da rappresentanti delle varie comunità religiose. A partire dagli anni Settanta, furono proprio questi elementi a minacciare sempre più la stabilità e l’integrità territoriale della Sublime Porta. A mettere in crisi la compagine ottomana, in altre parole, non fu la sua presunta arretratezza, né tanto meno limiti insiti nella sua civiltà, quanto i mutamenti economici, sociali e politico-istituzionali innescati dal suo progressivo inserimento nelle dinamiche globali, che rendevano le diverse regioni del mondo sempre più interdipendenti. 

A minare alla base un sistema di convivenza che reggeva da secoli fu in particolare la convergenza di due fattori strettamente connessi fra loro. 

Da una parte, c’era la posizione geograficamente strategica dell’impero, che costituiva uno “spazio intermedio” fra Europa e Asia tale da rappresentare un nodo importante delle fitte reti lungo le quali circolavano persone, merci e idee. Ciò a maggior ragione dopo l’inaugurazione del canale di Suez nel 1869 [▶ fenomeni].

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Dall’altra parte c’erano le reazioni innescate dalla “via ottomana alla modernità”. A fine Ottocento la Porta vantava ormai un discreto sviluppo economico, strette connessioni coi mercati internazionali, un emergente ceto imprenditoriale autoctono, stili di vita più simili a quelli occidentali nonché apparati educativi e militari ricalcati sul modello tedesco, una burocrazia più efficiente e uno Stato più centralizzato. Ma era proprio il tentativo di passare dall’essere un “impero formale” a esercitare un potere concreto anche sulle province più remote ciò che generava incontenibili forze centrifughe. Le élite locali aumentarono infatti sempre più le resistenze all’intrusione del potere centrale nei loro territori al fine di mantenere per sé le crescenti risorse economiche garantite dall’aumento dei traffici internazionali. E tanto più ciò riusciva quanto più le riforme intaccavano privilegi tradizionalmente goduti da alcuni popoli (esenzioni fiscali, esoneri dalla leva), imponevano nuove tasse per coprirne gli enormi costi oppure le rivendicazioni autonomiste potevano essere legittimate ricorrendo a rielaborazioni e adattamenti delle ideologie nazionaliste originarie dell’Occidente. 

La “questione bulgara” e la Guerra russo-turca
Dal canto loro le potenze europee trovarono facilmente il modo di legittimare la loro crescente ingerenza nelle vicende interne ottomane. Esse infatti o ricorrevano a giustificazioni di matrice “orientalista” come lo stereotipo del “malato d’Europa” e l’obbligo morale di civilizzare un paese arretrato; o si richiamavano ai rischi di contagio rivoluzionario connessi alle continue insurrezioni nei Balcani; oppure adducevano il pretesto di esser state sollecitate a intervenire da élite o popolazioni locali stanche dell’oppressivo dominio ottomano.

Così accadde per esempio in Bosnia e in Erzegovina, dove fra 1875 e 1877 l’insofferenza per la sottomissione al sultano sfociò in una grande rivolta contadina. E simili furono le rivendicazioni indipendentiste che generarono le guerre di indipendenza mosse fra 1876 e 1878 dal Principato di Serbia e dal Principato di Montenegro alla Porta: una “Grande crisi orientale” che tutte le cancellerie europee osservarono con attenzione cercando di trarne il massimo profitto.
Nell’aprile del 1876 l’ondata insurrezionale raggiunse anche i territori bulgari, che pure erano profondamente ottomanizzati, avevano una popolazione in parte musulmana ed erano privi di un’élite autoctona. Qui l’astio popolare e del nascente ceto commerciale verso i rappresentanti del governo ottomano, per lo più di origine greca e incapaci di modernizzare la regione, fu fomentato dalla Chiesa ortodossa locale, che a sua volta voleva sottrarsi al controllo di quella greca. La protesta prese forza e portò alla costituzione prima di un principato bulgaro autonomo ma tributario del Sultano, e poi di una monarchia costituzionale sostenuta dallo zar. La repressione ottomana provocò sdegno nelle opinioni pubbliche europee inclini a simpatizzare per le cause nazionali, spingendo vari governi a valutare un intervento militare. A prendere le armi in difesa dei bulgari e degli altri popoli insorti fu però soltanto lo zar Alessandro II, desideroso di riaffermare la sua influenza sui Balcani. Il conflitto con la Sublime Porta – noto come “Guerra russo-turca” del 1877-78 – fu breve e si risolse con la schiacciante vittoria delle truppe zariste, coadiuvate dalle popolazioni locali.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900