11.6 I Quarantotto italiani: le insurrezioni e la guerra austro-piemontese

11.6 I Quarantotto italiani: le insurrezioni e la guerra austro-piemontese

Autonomismo, municipalismo, antiassolutismo e nazionalismo
L’inconciliabile pluralità dei progetti unitari promossi nel decennio precedente era solo uno dei fattori che rendeva complicata la situazione italiana. Vi si aggiungeva infatti una lunga serie di questioni irrisolte sin dalla Restaurazione, ulteriormente aggravate dalla stretta autoritaria seguita ai moti degli anni Venti e Trenta [▶ cap. 9]: il fastidio dei borghesi per lo scarso coinvolgimento nei processi decisionali e per le politiche economiche dei governi restaurati; l’insofferenza delle nobiltà locali ai vincoli imposti da amministrazioni statali sempre più dirigiste, e in alcuni casi in mano a funzionari stranieri; l’irrequietezza di popoli come i sardi, i liguri e i siciliani, inglobati in Stati che non consideravano propri.
Così, quando il Quarantotto irruppe nella penisola, esso assunse molteplici significati. In Sicilia finì con il coincidere con le tradizionali rivendicazioni autonomiste della “nazione siciliana” nei confronti di quella napoletana. In Piemonte e nel Mezzogiorno continentale vide convergere istanze antiassolutiste e adesione al movimento per l’unificazione nazionale italiana. In Toscana, l’antiassolutismo dei nobili liberali si mischiò al municipalismo, reclamando un decentramento amministrativo che limitasse l’invadenza di uno Stato centrale oppressivo e inefficiente. Infine, nel Lombardo-Veneto le rivolte nate come autonome ribellioni alla dominazione asburgica si intrecciarono presto con gli indipendentismi locali e con il conflitto fra il Regno di Sardegna e l’Impero asburgico per il controllo del Nord Italia [ 10].
I primi eventi
Il primo accenno di rivolta si ebbe a Palermo, dove il 12 gennaio i democratici Rosolino Pilo e Salvatore La Masa guidarono gli strati poveri della popolazione alla sommossa. L’esercito borbonico si ritirò oltre lo Stretto [ 11] e i rivoltosi ottennero prima una costituzione liberale (29 gennaio) e poi la proclamazione di un Regno di Sicilia indipendente con un suo Statuto, sul modello di quello votato nel 1812 [▶ cap, 6.4]. Nonostante la presenza al governo di alcuni mazziniani, come l’agrigentino Crispi, lo Stato siciliano fu presto egemonizzato dall’aristocrazia isolana che, pur di liberarsi dal giogo dei Borbone e prevenirne un’azione militare restauratrice, arrivò a offrire (invano) il trono al secondogenito di Carlo Alberto di Savoia.
Mentre la rivolta si propagava nel Mezzogiorno continentale, perdendo via via ogni connotazione autonomista in favore di un carattere prevalentemente antiassolutista, la notizia della sollevazione parigina spinse il granduca di Toscana a concedere una Carta (febbraio 1848) e i torinesi a pretenderne a loro volta una. Il timore di una deriva repubblicana sostenuta dalla neonata Seconda Repubblica francese e la volontà di gestire il processo di costituzionalizzazione piuttosto che subirlo spinsero il governo sabaudo a redigere uno statuto ricalcato sulla Carta francese del 1814. E in effetti la promulgazione del cosiddetto “Statuto albertino” [▶ FONTI, p. 344], avvenuta il 4 marzo, sortì un duplice positivo effetto. Da un lato, accontentò le richieste della maggioranza dei liberali, prevenendone lo slittamento su posizioni democratico-repubblicane. Dall’altro, garantì un enorme consenso ai Savoia, e in particolare al re Carlo Alberto. Gli antiassolutisti di tutta la penisola iniziarono infatti a considerarlo un riferimento, sebbene il sovrano da cui lo Statuto prendeva il nome fosse stato ironicamente definito “il Re Tentenna” proprio per la sua indecisione nel firmarlo.

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FONTI

Lo Statuto albertino

Frettolosa risposta al rischio di una deriva repubblicana del Quarantotto torinese, lo Statuto era il tentativo dei Savoia di conquistare consenso fra i liberali conservando alla Corona la più ampia autonomia possibile. Esso era infatti una Carta concessa, molto flessibile (poteva essere modificata con una legge ordinaria o un decreto regio), alquanto caotica nella distribuzione degli articoli e lontana tanto dalla sovranità popolare delle costituzioni americana, rivoluzionarie e napoleoniche, quanto dalla più moderata Costituzione di Cadice del 1812. Lo Statuto combinava infatti le costituzioni orleanista e belga, scritte in una lingua ben nota alla classe dirigente sabauda in cerca di modelli rapidamente accessibili, ma s’ispirava soprattutto a quella francese del 1814, in quanto considerata “la più monarchica” fra i testi redatti nei decenni precedenti.


Con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai Nostri amatissimi sudditi col Nostro proclama dell’8 dell’ultimo scorso febbraio, con cui abbiamo voluto dimostrare, in mezzo agli eventi straordinarii che circondavano il paese, come la Nostra confidenza in loro crescesse colla gravità delle circostanze, e come prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore fosse ferma Nostra intenzione di conformare le loro sorti alla ragione dei tempi, agli interessi ed alla dignità della Nazione. Considerando Noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto Fondamentale come un mezzo il più sicuro di raddoppiare coi vincoli d’indissolubile affetto che stringono all’Italia Nostra Corona un Popolo, […] ed ordiniamo […]: 


Art. 1. La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi. 


Art. 2. Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario […]. 


Art. 3. - Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei Deputati. 


Art. 4. La persona del Re è sacra ed inviolabile. 


Art. 5. Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere […] 


Art. 9. Il Re convoca in ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei Deputati; […] 


Art. 24. Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari […] 


Art. 26. La libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive. 


Art. 28. La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. […] 


Art. 29. Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili […] 


Art. 32. È riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi […]. Questa disposizione non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici, od aperti al pubblico, i quali rimangono intieramente soggetti alle leggi di polizia. 


Art. 33. Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re […] 


Art. 50. Le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità. Art. 65. Il Re nomina e revoca i suoi Ministri. 


Art. 68. La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce.


Art. 77. Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.

L’insurrezione nel Lombardo-Veneto

Sfruttando l’euforia per l’insurrezione scoppiata a Vienna pochi giorni prima, a metà marzo a insorgere furono le principali città del Lombardo-Veneto.

In Lombardia, la pressione fiscale e la privatizzazione delle terre demaniali operata da nobili e possidenti si erano sommate alla crisi agricola, inducendo una parte delle masse contadine a superare il tradizionale conflitto fra i loro interessi e quelli delle classi urbane. Così, Milano fu liberata dopo cinque giorni di combattimenti, noti come le “Cinque giornate” (18-22 marzo). Gli insorti mostrarono però sin dalle prime battute la frattura esistente fra la componente aristocratico-moderata, favorevole a trasformare la rivolta in vera e propria guerra attraverso una formale richiesta di aiuto all’esercito di Carlo Alberto, e i repubblicani capeggiati da Cattaneo, contrari al coinvolgimento dei piemontesi.
Nel frattempo, il 17 marzo era insorta Venezia. La nazionalità italiana della maggior parte dei soldati asburgici acquartierati in Veneto agevolò i rivoltosi, che nominarono un governo provvisorio guidato da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. In un primo tempo, la natura locale del movimento insurrezionale portò l’esecutivo a ricostituire la Repubblica di San Marco. Il 5 luglio, però, l’assemblea dei deputati della provincia di Venezia votò l’annessione della Repubblica al Regno di Sardegna, così come aveva fatto nel frattempo Milano con un plebiscito [ 12].

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Le richieste di annessione al regno sabaudo si legavano alla scelta di Carlo Alberto di attaccare l’Impero asburgico, avviando la guerra austro-piemontese (23 marzo) e ottenendo le prime vittorie a Goito e Pastrengo (9 e 30 aprile).

La rivincita asburgica
Si trattava però di vittorie effimere, agevolate dal contemporaneo impegno delle forze imperiali nella repressione delle rivolte slave e magiare. In più, la lentezza con cui si mosse l’esercito sabaudo consentì al nemico ritirate senza gravi perdite.
Perciò, pacificata Vienna e riconquistata Praga, fu chiaro che il conflitto avrebbe preso un’altra piega. Ferdinando di Borbone, il granduca Leopoldo di Toscana e Pio IX si affrettarono a ritirare le truppe che avevano prima inviato in aiuto dei Savoia sotto la pressione delle rispettive élite liberali, oltre che per favorire una soluzione moderata in caso di vittoria. Pur abbandonato dagli alleati, il governo sabaudo non volle approfittare appieno dell’entusiastica disponibilità di volontari e democratici a combattere una guerra dal forte sapore patriottico e utile a unificare almeno il Nord Italia. La disparità di forze e la diffidenza verso i patrioti di non certa fedeltà monarchica portarono dunque i piemontesi alla sconfitta di Custoza (22-27 luglio), ad abbandonare Milano, a ritirare il sostegno ai veneziani e infine a firmare l’Armistizio di Salasco (9 agosto).
La ripresa delle ostilità e la Repubblica romana
La delusione degli insorti veneti e lombardi si sommò allo scetticismo verso i Savoia dei repubblicani e dei democratici, parte dei movimenti insurrezionali attivi a Roma e Firenze. Davanti a quello che appariva un tradimento della causa nazionale, ripresero dunque le agitazioni. A Venezia fu ripristinata la repubblica sotto il controllo di un triumvirato. A Firenze il granduca fu sostituito da un governo provvisorio repubblicano. A Roma il tentativo riformista di Pio IX fu frustrato dal clero più conservatore, mentre i rivoltosi accentuarono il loro radicalismo sino a uccidere il capo del governo, Pellegrino Rossi. Per non dover reprimere nel sangue o scendere a patti con un movimento ormai inconciliabile con l’autocratico potere papale, il pontefice riparò a Gaeta.

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A quel punto, i democratici colsero l’occasione per dichiarare decaduto in città il potere temporale del papa e proclamare la Repubblica romana sotto la guida dei triumviri Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini (9 febbraio 1849). L’esperienza romana produsse la più democratica costituzione di questa fase [▶ FONTI, p. 348]. e sembrò dimostrare la fattibilità del progetto mazziniano di unificazione “dal basso”.
In realtà, però, la Repubblica romana e tutte le altre insurrezioni si rivelarono episodi effimeri. Già il 23 marzo le truppe imperiali sconfissero definitivamente a Novara l’esercito con cui Carlo Alberto aveva ripreso la guerra, sperando di approfittare di un nemico impegnato anche a sedare le nuove rivolte. Ad aprile le armate asburgiche riconquistarono poi la Toscana, con l’aiuto dei moderati e delle masse contadine avverse alla repubblica. La Repubblica romana cadde invece a inizio luglio, nonostante l’eroica difesa opposta da Garibaldi [▶ protagonisti], Pisacane e dal poeta Goffredo Mameli [▶ altri LINGUAGGI, p. 351] alle truppe inviate da Ferdinando di Borbone e dal neopresidente francese Luigi Napoleone: il primo ansioso di ripristinare l’ordine in uno Stato confinante dopo averlo fatto nel suo, riprendendo a maggio la Sicilia e sciogliendo il parlamento; il secondo desideroso di bilanciare l’influenza asburgica nella penisola e di compiacere l’elettorato cattolico in patria, ergendosi a primo difensore del papato. Venezia, infine, si arrese in agosto, fiaccata da un lungo assedio, dal colera e dalle velleità secessioniste di alcune aree venete interne che mal sopportavano il controllo della città lagunare già quando era capitale della Serenissima repubblica.

  protagonisti

Giuseppe e Anita Garibaldi

Nato a Nizza nel 1807, Giuseppe Garibaldi si imbarcò presto su navi mercantili. Vi conobbe Émile Barrault, esule francese le cui idee sansimoniane lo avviarono al mazzinianesimo. Partecipò quindi all’insurrezione piemontese del 1834 e finì in esilio in Brasile. Qui entrò nella comunità degli esuli e fece il marinaio finché, «stanco di trascinar un’esistenza tanto inutile», nel 1837 prese a combattere da corsaro per i ribelli secessionisti del Rio Grande.

Conobbe così Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, una ragazza politicizzata ed emancipata tanto da aver lasciato il marito. Ana restò affascinata da Garibaldi, che non esitò a dirle «Devi essere mia», e a sposarla. In seguito, Giuseppe e Anita (diminutivo spagnolo di Ana) furono protagonisti audaci ma indisciplinati della guerra fra Uruguay e Argentina, che li rese celebri soprattutto grazie alla propaganda mazziniana. Condottieri esperti e devoti alle cause di liberazione nazionale, i due erano infatti ritenuti da Mazzini perfetti capi militari. E tali furono sia quando nel 1848 aiutarono Carlo Al­berto contro gli Asburgo, anteponendo l’unificazione all’obiettivo repubblicano; sia quando poi difesero la Repubblica romana, fuggendo dalla quale Anita morì per la febbre guadagnandosi con il marito il soprannome di “eroi dei due mondi”.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900