11.1 Le premesse di un fenomeno plurale

Per riprendere il filo…

Nonostante l’azione repressiva attuata dai governi e il ripristino di ordinamenti e simboli di antico regime, la Restaurazione era stata soprattutto un compromesso con il recente passato: molti Stati avevano fatto propri gli strumenti ereditati dal ventennio precedente, rifiutando però le aperture liberali e le autonomie nazionali invocate da parte delle classi medio-alte. Ne erano derivati trent’anni di moti costituzionali, lotte sociali, insurrezioni secessioniste e guerre d’indipendenza, che però solo di rado avevano coinvolto i ceti inferiori e rurali. Tanto meno i loro promotori erano riusciti a superare i particolarismi locali e le divisioni fra le diverse declinazioni della comune eredità ideologica di matrice liberale e rivoluzionario-napoleonica. Eppure, questi eventi avevano iniziato a scardinare il “concerto” delle grandi potenze e a porre in discussione gli assetti politico-istituzionali della Restaurazione.

11.1 Le premesse di un fenomeno plurale

Una pluralità di cause
Tra il gennaio 1848 e l’agosto 1849 un’altra ondata di rivoluzioni sconvolse l’Europa, segnando la fine dell’età della Restaurazione e apparendo già ai contemporanei come un nuovo modello di rivolta: le questioni nazionali [ 1],  le rivendicazioni dei movimenti liberali e le pressanti istanze di partecipazione politica di parte delle borghesie si combinarono sia con le richieste di emancipazione e libero accesso alle terre di contadini spesso animati da violenti sentimenti antisignorili, sia con l’accresciuto disagio delle masse operaie urbane sempre più politicizzate.

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Inoltre, a questi problemi di lungo periodo, legati in sostanza alle contraddizioni insite nei regimi restaurati e agli squilibri prodotti dall’industrializzazione, si sovrapposero situazioni contingenti che trasformarono il malcontento in rivolta. Così, in alcuni paesi le insurrezioni furono la risposta delle borghesie emergenti al rifiuto dei sovrani di concedere una costituzione e di estendere il diritto di voto, risposta che in alcuni casi si intrecciò con spinte nazionaliste e secessioniste. Altrove, ad accendere la miccia fu invece la grave crisi economica registrata nel triennio 1845-47, quando i pessimi raccolti avevano ridotto sensibilmente la disponibilità di generi alimentari, facendone aumentare il prezzo. E ciò aveva costretto i ceti meno abbienti a ridurre le altre spese per comprare da mangiare, causando dunque una contrazione della domanda di beni manifatturieri che aveva a sua volta provocato il fallimento di molte aziende e l’aumento della disoccupazione.
La grande ondata emigratoria irlandese [▶ cap. 12.1], la “rivolta delle patate” a Berlino (autunno 1847) e i tumulti agrari in Prussia furono i primi allarmanti segnali di una situazione ormai insostenibile. E ancor più allarmante fu la sanguinosa jacquerie nella Galizia asburgica (inverno 1846), in cui esplosero assieme la rabbia dei contadini – in maggioranza ▶ ruteni – per le pessime condizioni di vita e le rivendicazioni nazionali dei latifondisti polacchi: una duplice insurrezione che l’imperatore riuscì faticosamente a sedare sfruttando l’odio antisignorile e il senso di appartenenza alla nascente nazione ucraina dei primi per contrastare i progetti secessionisti dei secondi, i quali pure avevano cercato di ottenere il sostegno delle masse rurali polacche e rutene, sollecitandone l’ingresso a pieno titolo nella nazione polacca.
“Rivoluzione” o “rivoluzioni”?
Non esiste dunque un unico modello capace di spiegare gli avvenimenti del Quarantotto. L’unità del fenomeno è legata soprattutto alla retorica che accomunò le ribellioni, al loro carattere prevalentemente urbano, all’effetto domino che fece di ogni rivolta la scintilla per altre, all’interdipendenza poli­tico-militare delle diverse vicende, alla somiglianza delle fasi che ne scandirono lo svolgimento, nonché agli esiti: non disprezzabili per i contadini, che ottennero l’abolizione degli obblighi feudali e della servitù dove ancora esistevano; deludenti invece sul piano delle rivendicazioni nazionali e costituzionali, per lo meno rispetto alle grandi attese alimentate dalle conquiste iniziali. Tuttavia, le profonde differenze esistenti fra le strutture socioeconomiche e fra i sistemi politico-istituzionali dei vari paesi coinvolti fecero di ogni singolo episodio un evento a sé, con un diverso dosaggio delle istanze liberalcostituzionali, indipendentiste, democratiche e anticapitaliste.
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La cosiddetta “rivoluzione europea” non fu insomma una sola rivoluzione, ma semmai una serie di rivoluzioni [ 2]. Parimenti, essa non fu davvero “europea”, dal momento che conobbe focolai in diverse aree extraeuropee (Sud America, Canada, Ceylon), mentre risparmiò sia imperi economicamente arretrati e incapaci di esprimere consistenti forze rivoluzionarie, come quello zarista, sia Stati nazionali già industrializzati come il Belgio, i Paesi Bassi e l’Inghilterra, in cui le politiche riformatrici e l’estensione del suffragio avevano sottratto ai movimenti radicali il sostegno delle classi medie.

11.2 La Francia della Seconda Repubblica

La crisi del regime orleanista
 Anche se – come vedremo – un primo accenno di rivoluzione si era già verificato a Palermo il 12 gennaio 1848, la prima grande capitale a insorgere fu Parigi. Qui già da tempo alcune inchieste avevano sollevato il drammatico tema del pauperismo. Un forte malcontento correva però anche in altri settori della società. I contadini erano stati colpiti dai cattivi raccolti degli anni precedenti. Imprenditori e mercanti videro crollare la Borsa, scappare i capitali stranieri investiti in Francia e ridursi i lavori pubblici per mancanza di fondi. Infine, artigiani e commercianti scontarono la diminuzione della domanda interna causata dalla crescente disoccupazione e dal minor potere d’acquisto delle famiglie, messe in difficoltà dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari che le massicce importazioni di cereali non riuscivano a contenere. Insomma, fra il 1846 e il 1847 una profonda crisi agricola, industriale e finanziaria si era abbattuta su un’economia che, pur incamminata verso la modernizzazione, era ancora segnata da elementi di fragilità strutturale [▶ cap. 9.4]
In questa situazione le classi piccolo-borghesi avevano iniziato a individuare in una maggiore rappresentanza in parlamento il più efficace strumento per indirizzare la politica economica orleanista in senso più favorevole al piccolo commercio che alla grande industria (riduzione dei dazi, sostegno alla domanda interna), oltre che per rimarcare la loro distanza dalle classi inferiori urbane e contadine, verso cui mantenevano un atteggiamento diffidente.
Luigi Filippo d’Orleans e il suo primo ministro François Guizot avevano però preferito ignorare l’insoddisfazione e represso ogni accenno di contestazione, forti della solida maggioranza ottenuta alle elezioni del 1846 e convinti che l’alleanza fondante della Monarchia di luglio fra vecchia aristocrazia, nuova nobiltà e borghesia imprenditoriale e finanziaria avrebbe resistito alla crisi economica.

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La rivolta
La stretta repressiva dette avvio alla rivolta. Quando il governo vietò il banchetto pubblico di chiusura della campagna in favore della riforma elettorale, le frange più radicali del movimento promossero una manifestazione al grido “Viva la Riforma! Abbasso Guizot!”. Nel corteo parigino (22 febbraio 1848) confluirono in realtà aspirazioni e soggetti diversi: piccolo-borghesi in cerca di rappresentanza politica, operai che rivendicavano interventi a difesa dell’occupazione e dei livelli salariali, membri della guardia nazionale e persino centinaia di studenti contrari alla soppressione dei corsi dello storico antiassolutista e anticlericale Jules Michelet. Nonostante i 30 000 soldati schierati nella capitale, Luigi Filippo fu costretto a sostituire Guizot con il più liberale Louis-Mathieu Molé. E la mossa, pur di facciata, ottenne il risultato sperato: per qualche ora sembrò che la protesta potesse rientrare.
A rompere definitivamente un equilibrio ancora precario soprattutto nei quartieri popolari, fu l’incauto gesto di alcuni soldati che, sentitisi minacciati da un manifestante con in mano una torcia, aprirono il fuoco sulla folla, uccidendo oltre 30 persone. La reazione della popolazione fu immediata e violenta: Parigi si risvegliò l’indomani con quasi 1500 barricate nelle sue strade [ 3]. L’esercito, non addestrato alla guerriglia urbana, non riuscì a sgombrarle. Così, nell’estremo tentativo di salvare la monarchia, Luigi Filippo abdicò in favore del nipote di appena nove anni, affidando la reggenza alla nuora.
Il tentativo del sovrano però fallì. Memori dell’atteggiamento conciliante verso la soluzione monarchica già tenuto dalla borghesia moderata nel 1830, i repubblicani invasero il palazzo che ospitava la cerimonia d’investitura del nuovo re e proclamarono un governo provvisorio. Si trattava di un esecutivo composito sul piano sia sociale che ideologico. La maggioranza era rappresentata da notabili di idee liberali (fra cui lo scrittore Alphonse de Lamartine), propensi a una riconciliazione interclassista mediante provvedimenti in favore dei ceti inferiori, ma contrari a ogni radicale modifica dell’ordine sociale. A questi si opponeva una minoranza numerosa e agguerrita, con il radicale Alexandre-Auguste Ledru-Rollin, il socialista Louis Blanc [▶ cap. 10.6] un certo Alexandre Martin, detto “l’operaio Albert”, vero e proprio simbolo della partecipazione operaia al nuovo corso.
La Seconda Repubblica
 La dinastia orleanista venne dichiarata decaduta. Nasceva in questo modo la Seconda Repubblica (24 febbraio), così chiamata per rievocare l’esperienza istituzionale del 1792 [▶ cap. 5.2] e non a caso presieduta dall’ex rivoluzionario Dupont de l’Eure. Anche per questo richiamo alla Rivoluzione, le cosiddette “Giornate di febbraio” produssero una grande impressione, ritornando poi in tanta letteratura (L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, le Cose viste di Victor Hugo) e coincidendo significativamente con l’uscita clandestina a Londra del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels [▶ cap. 10.6]

Benché i rivoluzionari rifiutassero di adottare la bandiera rossa come simbolo della rivolta [ 4], le prime decisioni prese dal nuovo governo repubblicano mostravano di mirare a una profonda riforma politica e sociale. In breve tempo fu:

  • introdotto il suffragio universale maschile;
  • abolita la pena capitale per i reati politici;
  • abolita la schiavitù nelle colonie, da tempo oggetto di polemica all’interno e a livello internazionale.
  • ridotta la giornata lavorativa e dichiarato fondamentale il diritto al lavoro.

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Proprio per dare effettiva concretezza a quest’ultimo principio il governo istituì gli ateliers nationaux [▶ fenomeni]: fabbriche di Stato dove impiegare i disoccupati a condizioni eque e perciò ritenute un buon compromesso fra gli stabilimenti gestiti direttamente dagli operai, voluti da Blanc e la difesa dell’imprenditoria e della proprietà privata cara ai liberali.
La reazione dei moderati e dei contadini
 La portata potenzialmente eversiva di queste misure e il loro riverbero sulla pressione fiscale (la ▶ tassazione diretta aumentò improvvisamente del 45%) produssero però reazioni immediate. La componente moderata dell’esecutivo, preoccupata che si trattasse di un primo passo nella direzione di una temuta deriva socialista, iniziò a frenare la spinta riformista. Parallelamente, le masse rurali protestarono con vigore contro le nuove imposte, ma furono represse militarmente dal governo, rendendo la fase successiva alla proclamazione della repubblica ben più sanguinosa della rivoluzione in sé. 
Disprezzato dai progressisti urbani in quanto gretto e reazionario, il mondo contadino non solo era in realtà a sua volta in trasformazione [▶ cap. 10.1], ma non esitava dunque a battersi. Tuttavia, diversi erano in effetti gli scopi per cui era disposto a farlo, così come i timori che spesso lo riportavano presto su posizioni conservatrici e particolariste. In un momento in cui le lotte antifiscali erano state stroncate da un governo ormai identificato con i radicali, in cui alcune tipiche richieste contadine erano state almeno in parte esaudite (più equa ripartizione delle terre, abolizione degli obblighi feudali) e in cui si rischiava di veder attaccati i valori tradizionali, proprio l’appoggio delle masse rurali risultò così decisivo per la vittoria del partito moderato alle elezioni per l’assemblea costituente dell’aprile 1848.
Sconfitti dalla capillare propaganda clericale e conservatrice nelle campagne e con il nuovo governo pronto a rivedere alcuni provvedimenti-cardine, operai e radicali parigini provarono a “ricominciare la Rivoluzione” non appena fu emanato il decreto che di fatto chiudeva gli ateliers nationaux [ 5]. Furono però annientati nelle cosiddette “Giornate di giugno”, tre giorni di feroci combattimenti con circa 4000 morti, 1500 fucilazioni sommarie e oltre 11 000 arrestati o deportati in Algeria.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900