9.4 Il Regno Unito fra riforme, impero e questione irlandese

Le Tre gloriose giornate e Luigi Filippo “re dei francesi”
Più incisiva fu invece l’azione politica di Carlo. In campo internazionale consolidò il prestigio francese con la guerra in Grecia e la conquista della reggenza ottomana di Algeri, anche se qui la guerriglia resistenziale delle tribù locali impediva un pieno controllo di tutto il territorio nominalmente occupato. 

In patria rinnegò le pur timide aperture liberali di Luigi XVIII e ripropose logiche, riti e simboli di antico regime [ 10]: una scelta che l’élite notabilare e borghese avversava, preferendo le forze liberali a ogni elezione. Così, a fronte della cocente sconfitta elettorale subita dagli ultras nel giugno-luglio 1830, il re sciolse la Camera appena eletta, restrinse il corpo elettorale e promulgò le ordinanze di Saint-Cloud, che in nome della «sicurezza dello Stato» sospendevano la libertà di stampa. In un clima surriscaldato dai cattivi raccolti del 1827-29 e dalla crisi industriale e occupazionale che aveva colpito le città, le misure di Carlo scatenarono le proteste dei liberali di Thiers e delle categorie più colpite dai nuovi divieti (giornalisti e tipografi). Tre giorni di sanguinosi scontri per le vie di Parigi – le “Tre gloriose giornate” (27-29 luglio 1830) – portarono alla fuga di Carlo e a un governo provvisorio guidato dai banchieri liberali Jacques Laffitte e Casimir Périer, oltre che dal generale La Fayette, eroe della Rivoluzione e già sfortunato cospiratore di orientamento repubblicano.

Proprio il timore di svolte in senso repubblicano o bonapartista, con il ristabilimento della dinastia napoleonica nella persona di Napoleone II (figlio di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, allora a Vienna), spinse Thiers a caldeggiare la candidatura a nuovo re del duca Luigi Filippo d’Orléans: un antiassolutista gradito tanto ai liberali quanto a La Fayette, che temeva le reazioni internazionali e possibili derive autoritarie. Voluto dai deputati più che dal popolo, Luigi Filippo accettò «senza restrizioni né riserve» una nuova Costituzione approvata dalle Camere, assumendo il titolo di «re dei francesi per volontà della nazione» [ 11]. Prendeva vita la cosiddetta “Monarchia di luglio” (dal mese della sua nascita), un’esperienza istituzionale segnata dalla precarietà e da un equivoco di fondo. A minarne le basi era infatti la strutturale impossibilità di conciliare l’istituto monarchico  censitario orleanista voluto dal governo con la sua origine rivoluzionaria, che aveva invece sollevato in alcuni speranze di una svolta più radicale. Questo equilibrio incerto avrebbe alimentato uno scontro costante fra quanti, come Guizot, ritenevano l’orleanismo un punto d’arrivo non suscettibile di significativi cambiamenti (il “partito della resistenza”), e quanti lo sostenevano invece quale soluzione temporanea in vista di ulteriori sviluppi in senso anticlericale,  parlamentarista, democratico ed egualitarista, oltre che solidale verso le nazioni in lotta per l’indipendenza (il “partito del movimento”).

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La Francia orleanista
Le contraddizioni del nuovo corso si manifestarono anche nell’azione del governo. Da una parte, esso rispose al desiderio di partecipazione politica dei ceti medi con l’abbassamento del censo richiesto per votare che, grazie anche a una maggior ricchezza pro capite, portò all’aumento del  corpo elettorale amministrativo di circa il 45%. Dall’altra, però, gli aventi diritto al voto rimanevano lontani dai livelli inglesi (1 elettore ogni 150 abitanti in Francia, 1 ogni 26 in Inghilterra) e il potere restava nelle mani della ristretta élite su cui si fondava il regime orleanista: una nuova alleanza fra vecchia aristocrazia, nuova nobiltà e borghesia finanziaria.

Importanti progressi furono promossi anche in ambito sociale. Tuttavia, al miglioramento dell’istruzione popolare (con la legge Guizot sull’obbligo scolastico) non si accompagnarono risposte al disagio sociale prodotto dall’industrializzazione, pur ancora circoscritto ad alcune aree. Inefficace, per esempio, fu l’innovativa legge sul lavoro minorile.

Pur nel quadro di una generale crescita economica, la grande industria non intaccava ancora il predominio di un’agricoltura largamente non meccanizzata (nel 1847 la prima produceva il 29% del reddito nazionale contro il 44% della seconda) e dell’industria a domicilio. Ciò nonostante, i progressi dovuti all’aumento significativo degli  investimenti produttivi nazionali, ai provvedimenti in favore del commercio, all’espansione dell’edilizia (spinta dall’inurbamento contadino), alla ripresa dei transfer con il Regno Unito per l’allentamento del protezionismo britannico e alla costruzione di una rete ferroviaria che iniziava pur lentamente a ridurre il divario con i paesi più avanzati (2915 km contro i 9797 della Gran Bretagna e i quasi 6000 dell’area tedesca).

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Lo sviluppo generò però anche tensioni sociali che, sommate alla delusione per un regime non compiutamente liberale, incrinarono la popolarità del re e di Guizot. Così Luigi Filippo chiamò al governo Thiers (1836). Ma vano risultò il suo tentativo di riavvicinare la borghesia urbana al sovrano celebrando le glorie passate [ 12] ed ergendosi a grande potenza nella “questione d’oriente”.

Il governo passò allora al partito della resistenza, prima a Jean de Dieu Soult (1840-47) e poi a Guizot. Il progressivo slittamento di Guizot su posizioni reazionarie spinse però le opposizioni radicali e quelle moderate guidate ora da Thiers a chiedere la riforma elettorale ostinatamente negata dal governo, preoccupato delle derive democratiche di un allargamento del corpo elettorale. Era la primavera del 1847 e nella Francia nuovamente affamata dalla crisi economica e percorsa da manifestazioni di dissenso si profilava un’altra rivoluzione.

L’indipendenza del Belgio

La monarchia costituzionale in Francia e il peso al suo interno del “partito del movimento” ruppero i precari equilibri che reggevano alcune aree d’Europa, a cominciare dalle province meridionali del Regno unito dei Paesi Bassi.

Nato nel 1815 dall’accorpamento in chiave antifrancese del Belgio e del Lussemburgo asburgici (per lo più cattolici e francofoni) con le Province Unite olandesi (a maggioranza protestante e di lingua fiamminga) [▶ cap. 7.1], il paese si dimostrò subito instabile. Il nuovo sovrano, Guglielmo d’Orange, aveva messo in atto misure fra le più liberali d’Europa, ma che finivano per scontentare tutti. Le province meridionali erano infatti sottorappresentate nell’accesso al voto e nelle istituzioni, discriminate negli alti gradi dell’esercito, infastidite dalla scelta dell’olandese come lingua ufficiale, contrarie alla sottrazione dell’istruzione all’iniziativa cattolica e penalizzate da un liberismo insostenibile per il loro apparato produttivo. Le province settentrionali soffrivano invece la presenza dei francofoni cattolici e temevano di perdere la propria posizione dominante se il sovrano avesse concesso l’ampliamento e il riequilibrio del corpo elettorale richiesti dal Sud.

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Le notizie provenienti dalla Francia accesero dunque un clima già segnato dalla contrapposizione territoriale e religiosa. Dopo una serie di incidenti minori legati anche al cattivo raccolto del 1829, dal 25 agosto 1830 gruppi sempre più folti di rivoltosi saccheggiarono edifici e distrussero macchinari industriali (accusati della crescente disoccupazione) per tutta Bruxelles. La situazione rimase in stallo per alcune settimane, sia per le incertezze di Guglielmo, sia per la confusione che regnava nella capitale e in altri centri, dove gli insorti si dividevano fra annessionisti filoasburgici, autonomisti, indipendentisti e gli irredentisti valloni che, essendo cattolici e filofrancesi, erano propensi a riunire la regione di Bruxelles alla Francia. 

Solo a settembre il re inviò l’esercito a liberare la capitale, ora occupata anche da volontari delle altre città in rivolta, operai e braccianti agricoli di recente immigrazione e simpatizzanti giunti dall’estero. Dopo sanguinosi scontri, il sovrano concesse la separazione amministrativa. Ma il governo provvisorio instaurato dagli insorti andò oltre le confuse istanze che avevano originariamente animato la sollevazione e proclamò l’indipendenza del Belgio (4 ottobre 1830), optando per un regime monarchico-costituzionale e redigendo una nuova Costituzione. Un altro popolo dopo quello greco aveva guadagnato un suo Stato [ 13], benché disomogeneo sul piano linguistico-religioso per la spaccatura tra fiamminghi protestanti e valloni cattolici e francofoni. Come in Grecia però, restava da decidere a chi affidarne la corona, rifiutata da un figlio di Luigi Filippo d’Orléans per non irritare le altre potenze. Dopo trattative tese a garantire al nuovo regno il riconoscimento internazionale e i rapporti commerciali con i mercati olandesi, a divenire “re dei belgi” (secondo la formula orleanista) fu il principe anglo-tedesco Leopoldo di Sassonia-Coburgo. Il Protocollo dei XXIV articoli siglato a Londra nel 1831 definì i confini del nuovo Stato, imponendogli perenne neutralità e la supervisione franco-britannica: una decisione rafforzata dal matrimonio di Leopoldo con una figlia di Luigi Filippo ma ratificata dal Regno Unito dei Paesi Bassi solo nel 1839, dopo aver tentato ancora a lungo di riprendere le province perdute.

L’insurrezione in Polonia
Minor successo ebbe invece l’insurrezione polacca, che pure contribuì indirettamente alla nascita del Belgio perché tenne a lungo impegnato l’esercito che lo zar, unico fra i potenti europei, era disposto a inviare in soccorso della monarchia orangista in nome degli equilibri sanciti a Vienna. Nei territori polacchi la rivolta ebbe una natura ibrida: in parte ammutinamento di giovani ufficiali di orientamenti liberali, in parte vera e propria guerra di liberazione nazionale.

Il Congresso di Vienna aveva imposto ai territori polacchi l’unione dinastica con l’Impero russo ma aveva garantito loro una Costituzione, un parlamento, un esercito autonomi e un governatore nella persona del granduca Costantino, fratello dello zar Nicola I. La progressiva ingerenza dell’imperatore aveva però creato insofferenza in ampi strati della società polacca. Così, quando il 29 novembre 1830 alcuni militari si ribellarono a Varsavia [ 14], attorno a loro si coagulò subito un vasto consenso popolare. Nel mirino dei ribelli c’era Costantino, feroce persecutore dei dissidenti e responsabile della russificazione della pubblica amministrazione . Aggredito nel suo palazzo, il granduca riuscì a fuggire solo travestendosi da donna e fu costretto a riparare fuori città assieme alle milizie russe, cacciate a fucilate dalla popolazione.

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Nelle settimane successive, la chiusura di Nicola fece naufragare ogni tentativo di mediazione con i leader moderati, che chiedevano maggiore autonomia e una nuova Costituzione. Di conseguenza, la rivolta fu egemonizzata dall’ala più radicale del movimento, quella Società patriottica che mirava a liberare l’intera  Polonia storica anche a costo di un conflitto con lo zar. Il 25 gennaio 1831 il parlamento polacco detronizzò Nicola I e sciolse così l’unione personale sancita a Vienna, affermando che «la nazione polacca era un popolo indipendente e aveva il diritto di offrire la corona polacca a chi considerava degno, da cui si aspettava fedeltà e rispetto al giuramento e alle garanzie di libertà civica».

Una simile presa di posizione non era solo una dichiarazione di guerra allo zar, ma anche la sconfessione degli equilibri della Restaurazione in nome di un rivendicato principio di autodeterminazione nazionale. E infatti le reazioni non si fecero attendere. Mentre in Europa le opinioni pubbliche filoliberali che già sostenevano la causa greca e quella belga si mobilitarono a favore dei polacchi con manifestazioni e raccolte di fondi, Nicola inviò ingenti forze, che sbaragliarono la resistenza polacca e i paralleli focolai di rivolta in Lituania. A indebolire la ribellione contribuirono due fattori:

  • la disaffezione dei ceti inferiori, delusi dalla mancata redistribuzione delle terre promessa dal governo provvisorio;
  • l’indifferenza di Francia e Regno Unito: la prima aveva bisogno di guadagnare la fiducia internazionale al nuovo regime; il secondo era preoccupato che una Polonia indipendente potesse diventare un alleato della Francia non appena questa avesse ripreso la politica di potenza solo momentaneamente interrotta.

La Costituzione fu dunque presto abrogata, mentre una dura repressione costrinse alla fuga dal paese migliaia di polacchi, diretti soprattutto in Prussia, Regno Unito e Francia (fra questi, il compositore Fryderyk Chopin e lo scrittore Joseph Conrad). Negli anni successivi questa “Grande emigrazione” avrebbe guadagnato un vasto sostegno alla causa nazionale polacca, contribuendo a rafforzare analoghi movimenti nazionali in area tedesca e in Italia.
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La Confederazione germanica fra fermenti nazionali e integrazione economica
Anche i territori tedeschi, riorganizzati a Vienna nella Confederazione germanica, erano percorsi da fermenti liberali e da un diffuso senso di appartenenza nazionale, sviluppatosi già durante l’occupazione napoleonica [▶ cap. 6.3]. La nuova Confederazione era un’entità politica assai semplificata rispetto agli oltre 300 staterelli che componevano il Sacro Romano Impero, ma rimaneva lontana dalla «Germania libera e forte» auspicata dai precursori del movimento nazionalista (il diplomatico von Humboldt e il filosofo Fichte). Gli organi federali – la Dieta di Francoforte – avevano poteri limitati e meccanismi di funzionamento farraginosi, pensati per garantire il mantenimento dell’ordine e la preminenza dei delegati asburgici e prussiani sugli altri membri: gli Stati tedeschi minori e i re d’Inghilterra, di Danimarca e del Regno unito dei Paesi Bassi, titolari rispettivamente delle corone di Hannover, Holstein e Lussemburgo.

La Dieta servì dunque in questi anni soprattutto a reprimere i movimenti liberali o nazionali, considerati alla stregua di progetti eversivi. Così, furono stroncate sul nascere non solo le manifestazioni di dissenso che sin dai tardi anni Dieci avevano infiammato l’area tedesca, ma anche le vere e proprie insurrezioni promosse da associazioni ginniche e società segrete nel triennio 1830-32 per ottenere Costituzioni e la revoca di alcune severe misure restrittive delle libertà personali emanate nel 1819 [ 15].

Maggiori progressi fecero gli Stati della Confederazione sul piano economico, grazie alla crescente integrazione commerciale concretizzatasi nello Zollverein [ 16]: un’unione doganale nata nel 1834 su iniziativa prussiana e basata sull’idea, sostenuta da Friedrich List, che lo sviluppo industriale e commerciale tedesco andasse favorito con la creazione di uno spazio economico unificato. Lo Zollverein sostituì la rete di accordi vigenti fra gli Stati tedeschi, stimolando l’ampliamento del mercato interno, standardizzando le unità di misura e ponendo l’area tedesca al riparo dalla temibile concorrenza straniera tramite dazi doganali.

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Lo Zollverein contribuì in una certa misura anche all’integrazione nazionale e al percorso che avrebbe portato all’unificazione tedesca sotto l’egida prussiana. Sia perché l’infittirsi degli scambi familiarizzò i sudditi dei diversi Stati con l’idea di condividere interessi economici e una base linguistico-culturale. Sia perché l’esclusione dell’Austria (caldeggiata da Metternich e dovuta alle misure protezionistiche già vigenti nell’Impero asburgico) portò a una progressiva identificazione degli interessi economici tedeschi e della stessa causa nazionale con il destino della dinastia prussiana degli Hohenzollern, piuttosto che con quello degli Asburgo.
Gli Stati italiani fra moti e gestione delle tensioni
Gli eventi polacchi, la monarchia costituzionale in Francia e il suo mancato intervento repressivo contro l’indipendenza belga accesero le speranze dei liberali italiani in un appoggio orleanista a eventuali insurrezioni nella penisola.

Nel febbraio 1831 un tentativo di creare uno Stato italiano monarchico-costituzionale nei ducati padani e nello Stato pontificio fu ordito a Modena dal carbonaro Ciro Menotti (1798-1831). Il tradimento del sovrano designato dai cospiratori, il duca Francesco IV, stroncò però sul nascere il progetto. Parallelamente truppe asburgiche sedarono i moti scoppiati nei territori papali del Centro Italia (Emilia, Romagna, Marche e Umbria), a Parma e nella stessa Modena, sconfiggendo i rivoltosi appoggiati da cospiratori illustri fra cui Luigi Napoleone (nipote di Napoleone e futuro Napoleone III) ma non sostenuti dalla Francia orleanista come avevano sperato.

Simili esperienze confermarono la capacità repressiva della Santa Alleanza e i limiti dei movimenti liberali. Essi erano privi di piani precisi; si illudevano di ottenere il sostegno delle potenze costituzionali o di poterne fare a meno contando sull’entusia­smo di pochi; peggio, rimanevano chiusi in ristretti orizzonti regionali e dilaniati da contrasti  municipalistici, oltre che riluttanti a coinvolgere i ceti urbani medio-bassi e le masse rurali, di cui temevano il repentino oscillare fra reazione ed egualitarismo democratico.

I moti lasciarono però alcune eredità. Da un lato determinarono il rafforzamento della presenza asburgica nell’Italia centrale e dunque dell’egemonia straniera sulla penisola; dall’altro, favorirono l’approvazione di caute riforme in senso rappresentativo (sollecitate da Metternich per prevenire richieste più radicali) oppure decisi passi verso la  monarchia consultiva, come nel Granducato di Toscana. Ciò però non accadde nello Stato pontificio e nelle Due Sicilie, dove proseguirono la clericalizzazione, l’accentramento e il contrasto alle istanze autonomiste del notabilato siciliano, esplose ancora nel 1837.

Più ambiguo fu Carlo Alberto, divenuto re di Sardegna alla morte dello zio Carlo Felice nel 1831. Da una parte egli fu autore di una vasta opera riformista (abolizione del feudalesimo, introduzione di codici sul modello napoleonico, riorganizzazione dell’esercito, riduzione dei dazi doganali) e promotore inascoltato di una lega doganale fra gli Stati della penisola sul modello dello Zollverein. Dall’altra, spinto da una profonda religiosità e dalla volontà di lavare l’onta del coinvolgimento nei moti del 1820-21, proseguì l’opera del reazionario predecessore reprimendo la cospirazione orchestrata nel 1834 dai repubblicani Giuseppe Mazzini (1805-72) e Giuseppe Garibaldi (1807-82), costringendo all’esilio liberali come Vincenzo Gioberti o Massimo d’Azeglio e facendo “attenzionare” dalla polizia politica molti antiassolutisti, fra cui il giovane ufficiale Camillo Benso conte di Cavour.

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Mazzini e la Giovine Italia
La riflessione e l’azione cospirativa di Giuseppe Mazzini (1805-72) nasceva appunto dall’inconcludenza della sua esperienza carbonara e dalla sfiducia nel contributo del “re dei francesi” e di Carlo Alberto alla causa nazionale italiana. Arrestato ed esiliato dal governo sabaudo, nel 1831 Mazzini fondò a Marsiglia la Giovine Italia, un’associazione repubblicana dal programma pubblico [▶ FONTI, p. 282] al contrario di quelli carbonari. A una spiccata vocazione pedagogica, affidata all’apostolato degli affiliati, alla diffusione di scritti e alle notevoli doti comunicative dello stesso Mazzini, si affiancava l’impegno nell’ordire cospirazioni: una doppia strategia secondo il motto «pensiero e azione», che però isolò il mazzinianesimo dalle altre forze rivoluzionarie e promosse tentativi insurrezionali fallimentari.

Mazzini non riuscì a rendere più efficace il suo progetto nemmeno inserendo la causa italiana nel più ampio quadro europeo delle questioni nazionali. Ciò sebbene ci provasse sia mediante una fitta attività pubblicistica e di coordinamento degli esuli, sia con la fondazione a Berna della Giovine Europa (1834-36), una federazione cui aderirono varie associazioni nazionali (Giovine Germania, Giovine Polonia).

Pur senza grandi successi, i democratici divennero però il principale nemico dei sovrani italiani, mentre il modello mazziniano di movimento rivoluzionario fu imitato in tutto il mondo (i Giovani turchi nell’Impero ottomano, la Giovane Argentina, la Giovane Indonesia). Anzi, paradossalmente si ispirarono a Mazzini anche organizzazioni che lottavano per popoli meno numerosi (il Giovane Tirolo, la Giovane Boemia), e che lo stesso Mazzini non reputava nazioni meritevoli di un proprio Stato secondo il cosiddetto principio della taglia minima.

9.4 Il Regno Unito fra riforme, impero e questione irlandese

L’egemonia britannica fra diplomazia e potenza militare
Il Regno Unito restò a lungo spettatore di quanto accadeva fra Vecchio e Nuovo Mondo, rispettoso dei principi sanciti a Vienna ma estraneo alle repressioni della Santa Alleanza e attento a tutelare i propri interessi economici e geopolitici per via diplomatica, come con il pronto riconoscimento dell’indipendenza delle colonie in America [▶ capp. 8.1-8.2].

Solo con le rivolte del 1830-31 e l’avvento agli Esteri del liberale filellenico Lord Palmerston il Regno Unito si fece più interventista. Certo, il nuovo corso dovette tener conto tanto delle istanze isolazioniste ancora prevalenti nel paese quanto dell’esigenza di non stravolgere l’equilibrio europeo. Perciò, il governo britannico rifiutò l’aiuto richiesto dagli insorti polacchi, limitò al piano diplomatico il sostegno alle cause liberali nella penisola iberica e garantì l’Impero ottomano dalle pretese di Ibrahim Pasha e dalle mire franco-zariste dopo l’indipendenza greca.

Nel complesso riuscì però non solo a riaffermare il ruolo del Regno Unito nelle vicende continentali e a rafforzarne l’egemonia marittima ed extraeuropea, ma anche a risolvere diverse questioni delicate preferendo al sistema dei congressi una politica che alternava la minaccia militare (la “diplomazia della cannoniera”) alla ricerca degli intrecci diplomatici e delle alleanze di volta in volta più utili. Per esempio, ottenne il riconoscimento internazionale dell’indipendenza belga facendo sponda con la Francia che l’appoggiava e, allo stesso tempo, garantendosi l’appoggio zarista, prussiano e asburgico contro le malcelate aspirazioni annessioniste della stessa Francia.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900