5.1 La crisi dello Stato francese e gli sconvolgimenti del 1789-90

Per riprendere il filo…

Nel corso del Settecento diversi sovrani europei avevano risposto agli stimoli dei pensatori illuministi intraprendendo progetti di riforma. Nella Francia ferita dalla Guerra dei Sette anni, sotto Luigi XV e Luigi XVI, furono tentate varie riforme (revisione delle spese di corte, tasse più alte per i proprietari terrieri, riduzione dei privilegi nobiliari, stimoli per la libera circolazione delle merci) ma gli esiti furono altalenanti e spesso lontanissimi da quelli sperati: ai fallimenti di questi progetti si aggiunsero anche problemi di approvvigionamento per i ceti meno agiati, che finirono per inasprire le tensioni sociali. Nel frattempo l’Inghilterra, contraddistinta fin dal Seicento da un sistema politico maggiormente centrato sul parlamento, era stata interessata da una sostanziosa crescita demografica e dalle prime importanti trasformazioni del sistema industriale: l’immenso Impero britannico messo in piedi nei secoli precedenti fu tuttavia minato dalla ribellione dei coloni nordamericani, che riuscirono a ottenere la loro indipendenza. Fu proprio la rivoluzione americana ad avere un grande impatto sull’opinione pubblica europea, incontrando il pieno consenso di coloro che intendevano mettere in discussione la legittimità dei regimi monarchici al fine di sovvertirli.

5.1 La crisi dello Stato francese e gli sconvolgimenti del 1789-90

Il fallimento delle riforme
Dopo l’ascesa al trono di Luigi XVI nel 1774, ebbe inizio in Francia una fase di gravi difficoltà economiche. Per diversi anni ci furono cattivi raccolti e il paese non riuscì a dotarsi degli strumenti necessari per affrontare la crisi. Nelle campagne i legami fra signori e lavoratori si mostrarono molto resistenti, ostacolando la sperimentazione di nuove tecniche e l’incremento della produttività: di conseguenza il mercato finì nella morsa della stagnazione.
Dal 1774 al 1776, Jacques Turgot [▶ cap. 3.4] cercò di riformare il sistema fiscale facendo pesare il prelievo sui ceti abbienti e privilegiati, ma si scontrò con le loro forti opposizioni e fu costretto ad arrendersi. Anche i piani di liberalizzazione del commercio, fondati sull’abbattimento delle dogane e sull’eliminazione di vincoli come il controllo dei prezzi, si tradussero in una disfatta. Molti operatori cominciarono a speculare sui beni primari facendo lievitare i prezzi e nel 1775 scoppiò una “guerra delle farine”, con il governo che fu accusato di aver affamato i più poveri. La politica estera non offrì scenari migliori: la Guerra dei Sette anni (1756-63), oltre a decretare la dissoluzione della Nuova Francia, aveva svuotato le casse dello Stato, facendo emergere il bisogno urgente di nuove risorse. In definitiva, l’assolutismo illuminato auspicato dai filosofi illuministi stava andando incontro a un fallimento proprio nella terra che si poteva definire, con buone ragioni, una delle patrie dei Lumi.

Dal 1776 al 1781 fu il banchiere di origine ginevrina Jacques Necker (1732-1804) a occuparsi delle finanze in qualità di direttore generale del tesoro regio. Dovendo sostenere i coloni americani che combattevano contro la Gran Bretagna, Necker continuò a far crescere il debito pubblico ricorrendo a prestiti da grandi banchieri che imponevano gravosi tassi d’interesse. Cercò di compensare le perdite riducendo i benefici per i membri della corte, abolendo alcune cariche amministrative non necessarie, riservando al governo centrale la gestione delle imposte sui consumi. Gli fu tuttavia fatale la decisione di pubblicare un rendiconto con il bilancio, tradizionalmente considerato un segreto di Stato. Le reazioni più violente arrivarono dai nobili, poiché il documento elencava nel dettaglio le pensioni e le grazie a loro concesse dal re, esponendoli all’indignazione della pubblica opinione. In stampe, giornali e discorsi si sottolineava sempre più spesso il divario fra il loro mondo dorato e la miseria del popolo.

 >> pagina 148 

Le ragioni della crisi
La crisi aveva in effetti radici profonde che andavano al di là delle contingenze. Fino agli anni Settanta la Francia aveva conosciuto uno sviluppo complessivo paragonabile a quello dell’Inghilterra nel campo dell’artigianato, dell’agricoltura e del commercio. Ciò nonostante, permanevano problemi strutturali evidenti: i coltivatori dovevano pagare tributi alle autorità ecclesiastiche, ai detentori di diritti feudali e allo Stato. Circa il 35% delle terre era posseduto dai coltivatori, mentre la restante parte era nelle mani di ricchi possidenti (35%), nobili (20%) e clero (10%), che tendevano a sfruttare il lavoro senza fare investimenti sull’innovazione. Le grandi proprietà, quindi, assorbivano quelle piccole, messe in difficoltà anche dalla soppressione degli spazi destinati all’uso collettivo, come i corsi e i bacini di acqua, i prati per i pascoli e i boschi per la raccolta della legna. Gli aumenti dei prezzi pesavano quasi esclusivamente sulle masse lavoratrici che non vedevano aumentare i loro salari. Anche le borghesie più attive composte da mercanti e piccoli imprenditori avevano le loro ragioni di malcontento. Erano frequenti le frustrazioni derivanti da tentativi di scalata sociale non andati a buon fine e molto difficile rimaneva l’accesso agli ambienti della nobiltà e delle élite privilegiate, compresi i salotti dei più prestigiosi illuministi.
Alle difficoltà economiche si accompagnava la paralisi istituzionale. Risaliva al lontano 1614 l’ultima convocazione degli Stati generali, l’assemblea plenaria del clero, della nobiltà e del “Terzo Stato”, vale a dire i tre “ordini” o “Stati” in cui era divisa la società francese. Il potere di rappresentanza era quindi passato ai parlamenti che, pur avendo funzioni prevalentemente giudiziarie, si consideravano custodi delle consuetudini del regno assumendo il ruolo di mediatori fra il sovrano e i sudditi e sorvegliando sulla legittimità di molte decisioni cruciali prese dal potere centrale, comprese quelle in materia religiosa (influivano sulle nomine di vescovi e abati, oltre a essere custodi della  tradizione “gallicana”). Le battaglie portate avanti dai parlamenti contro l’arbitrio regio trovarono un importante alleato nella stampa e finirono per favorire lo sviluppo di uno spazio pubblico sempre più vivace, accanto all’azione dei filosofi, delle accademie, dei frequentatori dei caffè e delle logge massoniche [▶ cap. 1.2]. Ma il loro ruolo fu ambivalente: infatti, se da un lato si ponevano contro l’inasprimento dell’assolutismo, dall’altro lato rivelavano la loro natura conservatrice rinnovando la tradizionale alleanza che li legava alla nobiltà di toga e a quella di sangue, rendendo difficili le riforme fiscali e amministrative, appoggiando i detentori di  cariche venali che abusavano delle posizioni occupate per rafforzare il potere delle loro famiglie.

Nel 1783 il controllo dell’economia francese passò nelle mani di Charles-Alexandre de Calonne (1734-1802), che introdusse un’imposta fondiaria basata sulla rendita ed estesa anche a nobili ed ecclesiastici. Per porre un freno all’ingerenza dei parlamenti, nel febbraio del 1787 propose al re di riunire un’assemblea di notabili, vale a dire nobili di antico lignaggio, membri delle alte gerarchie ecclesiastiche, consiglieri di Stato e autorevoli rappresentanti dei poteri locali. Con questa pratica ormai in disuso, sperava di ottenere il sostegno necessario per imporre le misure progettate, ma si trovò di fronte a un’ostinata opposizione che di fatto lo portò a essere sollevato dall’incarico. Fu sostituito dall’arcivescovo di Tolosa Étienne-Charles de Loménie de Brienne (1727-94) che tuttavia, pur tentando delle mediazioni, ottene risultati non molto differenti da quelli del suo predecessore.

 >> pagina 149 

La convocazione degli Stati generali e la mobilitazione del popolo francese
L’atmosfera era ormai diventata caldissima. Un’ampia stampa, prendendo atto della debolezza del potere monarchico e delle gerarchie governative, si scagliava contro il re e sua moglie, facendo spesso ricorso a toni scandalistici e denigratori, denunciando la corruzione dei costumi nobiliari e attribuendo ai membri della corte una smodata propensione al vizio e allo spreco. La lotta per la libertà dei coloni americani aveva colpito l’immaginario dei francesi e acuito la loro diffidenza verso un governo considerato un mero esecutore della volontà del sovrano e della sua cerchia e incapace di tenere conto degli interessi dei sudditi.

Raccolse sempre più consensi l’idea di permettere agli Stati generali di pronunciarsi sulle riforme da mettere in atto. Così nel luglio del 1788 il re ruppe gli indugi, convocando l’assemblea dei tre ordini per il 1° maggio dell’anno seguente e invitando le persone “istruite” a trasmettere suggerimenti e memorie per poter risolvere la crisi [ 1]. Tutto sembrava ricondursi alla logica del compromesso, che aveva regolato il rapporto fra re e gruppi dominanti in  antico regime.

Nondimeno in questo caso il dibattito pubblico cambiò le carte in tavola. L’invito di Luigi XVI suscitò infatti una mobilitazione senza precedenti. I francesi di ogni ceto e livello culturale contribuirono alla compilazione di circa 60 000 quaderni di doglianze (“cahiers de doléances”) da affidare ai loro deputati diretti a Parigi, avanzando richieste, denunciando abusi, reclamando un cambiamento radicale. Uno stimolo decisivo a questa enorme partecipazione fu dato dal pessimo raccolto del 1788 e dal conseguente raddoppio dei prezzi di beni primari come il pane, che costrinse molte persone a mendicare e altre a ribellarsi, finendo vittime di violente repressioni [▶ eventi, p. 150].

 >> pagina 150 
Il parlamento di Parigi prese posizione sullo svolgimento degli Stati generali, dichiarando che doveva essere adottato lo stesso sistema del 1614: i tre ordini – il clero, la nobiltà e il Terzo Stato – dovevano prendere separatamente le loro decisioni ed esprimere un voto ciascuno. Risultò subito chiaro che un metodo del genere avrebbe favorito le istanze di clero e nobiltà, condannando all’irrilevanza il Terzo Stato, che rappresentava la maggioranza della popolazione. Cominciò quindi un’intensa campagna di stampa che denunciò le storture di quanto si stava pianificando, chiedendo che fossero i singoli membri dell’assemblea a pronunciarsi con un voto individuale (per “testa”) al fine di approvare le risoluzioni a maggioranza.
Decisivi furono due opuscoli dell’abate Emmanuel-Jospeh Sieyès (1748-1836): il Saggio sui privilegi pubblicato nell’autunno 1788 e Che cos’è il Terzo Stato, risalente al gennaio 1789. I ceti privilegiati, secondo Sieyès, erano inutili e dannosi per la “nazione”. Ad assumere una nuova centralità era proprio il concetto di nazione. Essa era intesa come un insieme di individui accomunati da lingua, tradizioni e cultura, ma anche dotati del diritto di partecipare alla vita politica, in quanto unici fautori del benessere collettivo mediante il lavoro e il pagamento delle tasse. Le idee di Sieyès si rivelarono cruciali negli anni successivi per il consolidamento del concetto di rappresentanza.

La ridefinizione dell’ordinamento sociale diveniva un problema nazionale e seguiva principi nuovi: la libertà era un diritto di tutti e non un privilegio; la distruzione delle vecchie gerarchie passava attraverso un allargamento della partecipazione politica. Tuttavia quest’ultima non poteva essere sempre diretta, come avveniva nell’antica Grecia. L’azione fondamentale del cittadino era quindi quella della scelta dei deputati chiamati a rappresentarlo, ovvero a sostenere le sue istanze e a salvaguardare i suoi bisogni.

  eventi

Il tumulto di Saint-Antoine

Il 23 aprile del 1789 l’imprenditore Jean-Baptiste Réveillon, specializzato nel campo del tessile e delle tappezzerie – aveva, tra l’altro, contribuito anche alla costruzione della mongolfiera – propose all’assemblea del suo distretto, nel sobborgo parigino di Saint-Antoine, di inserire nel quaderno di doglianze un progetto molto articolato sulla competitività delle merci da immettere sul mercato: stando alla tesi dei suoi oppositori, il progetto era finalizzato solo ad abbassare il costo finale dei prodotti per aumentare le vendite e avrebbe condotto inevitabilmente a una diminuzione del salario degli operai. Nel giro di pochissimi giorni, la questione arrivò a occupare le discussioni dei lavoratori, innescando forti tensioni che esplosero in una violenta protesta il 27 aprile. Réveillon fu costretto alla fuga e riuscì a scappare, qualche settimana più tardi, verso l’Inghilterra. Le forze di polizia cominciarono sparare sui manifestanti armati prevalentemente di sassi e armi rudimentali. Le fonti sullo scontro sono contrastanti, ma probabilmente fra i ribelli ci furono circa 300 morti.

 >> pagina 151 

La creazione dell’Assemblea nazionale e la presa della Bastiglia
Gli Stati generali si aprirono a Versailles il 5 maggio del 1789, ma i lavori si impantanarono presto proprio sul sistema di voto, con il re che prese le parti del clero e della nobiltà. Il 17 giugno il Terzo Stato, seguendo le indicazioni di Sieyès, scelse di radunarsi in una sala diversa (detta della “pallacorda”, dal nome di un gioco con palla e racchette, precursore del moderno tennis), si autoproclamò Assemblea nazionale e pronunciò un giuramento, impegnandosi a non sciogliersi fino all’ottenimento di una Costituzione per il Regno di Francia. I membri degli altri due ordini si unirono nei giorni successivi al consesso che trasformò ancora il suo nome in Assemblea nazionale costituente.
Vedendo la situazione sfuggirgli di mano, Luigi XVI fece ricorso all’esercito irrobustito da mercenari stranieri, con l’intenzione di mettere fine a quei chiari segni di insubordinazione. Non riuscì nel suo intento. Il Terzo Stato infatti reagì cominciando a formare una sua milizia, ma fu addirittura anticipato dal popolo parigino che si mosse per primo: artigiani, bottegai, lavoratori salariati, straccioni e soldati ammutinati erano ormai esasperati dall’aumento dei prezzi e dalla penuria di cibo, ma anche eccitati da voci sempre più insistenti che denunciavano un “complotto aristocratico”, probabilmente messe in giro da alcuni sostenitori dell’Assemblea.

In preda a una rabbia crescente, i ribelli riuscirono a chiudere le principali vie d’accesso a Parigi, costringendo l’esercito a creare dei presidi esterni. Il 14 luglio si presentarono alla Bastiglia, la prigione dove erano detenuti un tempo i traditori dello Stato, per impossessarsi di armi e polvere da sparo custodite all’interno. Dopo vani tentativi per sedare gli animi, alla fine il governatore della fortezza ordinò di far fuoco sulla folla. La scelta fu fatale: i ribelli presero l’edificio, simbolo del potere monarchico [ 2]. Era così iniziata la Rivoluzione francese. Lo stesso termine “rivoluzione”, usato fino ad allora per descrivere il percorso degli astri, acquisì un significato nuovo andando a indicare una trasformazione radicale dell’assetto sociale e politico.

 >> pagina 152 

La “grande paura”

Il giorno successivo Luigi XVI annunciò il ritiro delle truppe. Nella capitale si formò un “Comitato permanente” protetto da una milizia al comando del marchese La Fayette (1757-1834), che era stato fra i protagonisti della Guerra d’indipendenza americana. Entro la fine del mese di luglio, gli insorti riuscirono a prendere il controllo dei poteri locali in quasi tutto il paese, formando nuove municipalità e milizie (“guardie nazionali”) identificate da una coccarda tricolore che combinava il rosso e il blu (colori di Parigi) e il bianco (colore della dinastia reale).

Le popolazioni rurali – l’85% del paese – si aggregarono al processo rivoluzionario, grazie a un’ondata di panico che lo studioso Georges Lefebvre ha definito “grande paura”: voci incontrollate misero infatti in allerta i contadini sul pericolo di invasioni straniere in aiuto della monarchia e su presunti attacchi di briganti al servizio dei nobili, intenzionati a svuotare le riserve di grano e a far morire tutti di fame. I castelli furono presi d’assalto, gli accantonamenti di cibo furono saccheggiati e molti archivi furono dati alle fiamme, poiché i documenti erano ritenuti legittimazioni tangibili dei diritti dei signori e dei loro abusi [ 3].

La Dichiarazione dei diritti e la Costituzione civile del clero
I membri dell’Assemblea nazionale e i loro sostenitori in tutta la Francia si erano ormai attribuiti il ruolo di patrioti, ovvero di difensori della nazione contro i nemici. Di fronte al malcontento contadino, decretarono il 4 agosto l’abolizione del regime feudale, dei titoli e dei privilegi nobiliari. Il 26 dello stesso mese fu approvata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che aveva come principi fondanti e “naturali” la libertà di pensiero, di parola e di stampa, l’uguaglianza (dei soli maschi) davanti alla legge, la divisione dei poteri, il diritto di resistenza all’oppressione, la sovranità del popolo, inteso come insieme di coloro che non sono toccati da privilegi e che vanno a comporre giuridicamente una nazione. La discussione fu vivace e fece emergere posizioni differenti fra i deputati, talvolta identificabili nella loro scelta di sedere sul versante destro o su quello sinistro della sala in cui si riunivano, per esempio al momento del voto sul potere del re nei confronti dell’assemblea [▶ FONTI]. Al re fu riconosciuto solo un diritto di veto sospensivo sulla legislazione. Posto di fronte a queste condizioni, Luigi XVI rifiutò di firmare i documenti che gli erano stati sottoposti.

Il 5 ottobre del 1789 circa 7000 manifestanti scortati dalla guardia nazionale di La Fayette marciarono in direzione di Versailles ottenendo il trasferimento della corte a Parigi. L’Assemblea si riunì nella sala del maneggio del Palazzo delle Tuileries (che era stato anche sede della famiglia reale) e cominciò a lavorare alla risoluzione dei problemi finanziari. A tale scopo, decise di incamerare i beni della Chiesa mettendoli a disposizione della nazione e cominciando a emettere buoni del tesoro (“assegnati”) utili all’acquisto. Decise inoltre, in pochissimo tempo, di stabilire imposte fondiarie proporzionali al valore delle proprietà, di sopprimere le corporazioni delle Arti e dei mestieri che mettevano vincoli ai processi produttivi ostacolando lo sviluppo della concorrenza e di affermare la libera iniziativa nel commercio e nell’industria.

Il territorio del paese fu riorganizzato e diviso in 83 dipartimenti, a loro volta frazionati in distretti, cantoni e comuni provvisti di consigli elettivi. I potenti parlamenti di antico regime furono soppressi e con loro le cariche venali: il sistema giudiziario fu separato da quello legislativo e si stabilì la necessità della presenza di una giuria di 12 cittadini estratti a sorte per i processi penali.

Fu approvata nel luglio del 1790 anche la Costituzione civile del clero, che faceva corrispondere le diocesi francesi agli 83 dipartimenti, sottoponeva le cariche vescovili alle decisioni dei cittadini e delle autorità secolari, assegnava alle assemblee elettorali dei distretti il diritto di scegliersi i parroci, trasformati a tutti gli effetti in funzionari stipendiati dallo Stato. Qualche mese più tardi gli ecclesiastici furono chiamati a giurare fedeltà alla Rivoluzione, ma la metà dei sacerdoti e quasi tutti gli ordinari diocesani si rifiutarono, confortati nella loro scelta anche dall’ostilità di Pio VI verso tutte queste trasformazioni.

Fra i sostenitori della costituzione civile ci fu l’abate Henri Grégoire (1750-1831), che si impegnò in un’instancabile opera di propaganda [ 4]. I cosiddetti preti “refrattari” (quelli che non giurarono) divennero invece punti di riferimento per coloro che intendevano opporsi al nuovo corso in varie aree del paese, soprattutto nei territori occidentali e meridionali. L’ostilità alla Rivoluzione trasse vigore, fra le altre cose, proprio dalle tensioni generate dalla vendita dei beni nazionali incamerati dalla Chiesa, che finirono per rimpinguare i patrimoni dei ceti più abbienti.

FONTI

La discussione sulla Dichiarazione: il ruolo della destra e della sinistra

I dibattiti sul testo della Dichiarazione fecero emergere le posizioni di diversi “partiti”. Non si trattava più di “fazioni”, ovvero di gruppi che difendevano interessi particolaristici, ma per l’appunto di “partiti” capaci di interpretare istanze ampie e di farsi portavoce dei bisogni di larghe fasce di popolazione. I 1145 membri dell’Assemblea rifiutavano questi termini giudicandoli contrari allo spirito di unità richiesto dalla situazione, ma nella sala in cui si riunivano cominciarono a prendere posto nei banchi di destra e di sinistra a seconda delle loro posizioni. Si trattava di differenze sfumate e non facilmente classificabili (gli stessi “ordini” al loro interno erano divisi tra fautori di soluzioni di compromesso e sostenitori dello scontro frontale con la monarchia), ma prevalentemente il clero e la nobiltà tesero a sedersi a destra, mentre il Terzo Stato optò per la sinistra. 

Il testo della Dichiarazione sanciva alcuni principi imprescindibili, ponendo tuttavia l’accento sul concetto di “cittadino”, quindi di individuo giuridicamente appartenente a uno Stato. Ne riportiamo alcuni articoli, che sottolineano i concetti di sovranità nazionale, di legge come espressione di una volontà generale, di libertà di pensiero e opinione.

Art. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente.


Art. 6. La legge è espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere personalmente o per mezzo dei loro rappresentanti alla sua formazione. Essa deve essere la medesima per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senz’altra distinzione che quella della delle loro virtù e dei loro talenti.


Art. 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente […].


Art. 12 – La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica; questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata.


G. Dall’Olio, Storia moderna. I temi e le fonti, Carocci, Roma 2004

 >> pagina 155
Lo spazio pubblico: i club, i giornali, i sanculotti, gli alberi della libertà
Le posizioni all’interno dell’Assemblea erano diverse e talvolta contrastanti, anche perché raccoglievano istanze diffuse e oggetto di pubbliche discussioni. La partecipazione politica fu infatti forte in tutta la Francia e si rese visibile nella nascita di centinaia di circoli spontanei, detti “club”, fra i quali la “Società degli amici della Costituzione”, più tardi rinominata “Società degli amici della libertà e dell’uguaglianza”. Quest’ultima arrivò a contare nel giro di poco tempo 1200 soci e 150 società affiliate, fino ad assumere un ruolo di coordinamento nella vita politica del paese: i membri si riunivano in un ex convento di domenicani (jacobins) e da lì derivarono il nome di giacobini. Fra i gruppi concorrenti presero quota la più moderata “Società del 1789” (nella quale militava La Fayette) e i cordiglieri, così chiamati dal soprannome dell’ordine francescano che ospitava i loro incontri, contraddistinti da idee radicali che predicavano una netta rottura col passato e guidati da personaggi carismatici come l’oratore Georges Danton (1759-94).

Fra i giornali più popolari ci furono il Patriote français, l’aggressivo Ami du Peuple e il Je suis le véritable père Duchesne, foutre, un foglio satirico illustrato che si prestava fortemente a essere venduto per strada da  strilloni, incentrato sul personaggio del padre Duchesne, un uomo del popolo arrabbiato e intento a denunciare le ingiustizie, anche facendo uso di un linguaggio scomposto e sboccato [ 5].


La città di Parigi conobbe più di tutte le altre l’effervescenza del dibattito pubblico. Nelle 48 assemblee di sezione istituite dal potere rivoluzionario emerse la figura del sanculotto: artigiani, piccoli commercianti o lavoratori salariati inclini alla violenza e avversi ai ceti privilegiati, così chiamati perché vestivano senza i calzoni attillati fino al ginocchio tipici dei nobili (culotte). Sia nella capitale che nelle province, l’avvento di una “nuova era” fu salutato dall’innalzamento degli “alberi della libertà”, ovvero dei pali adornati di bandiere che portavano spesso sul punto più alto un “berretto frigio”, un cappello con la punta in avanti che fin dall’antichità era simbolo della liberazione dalla schiavitù.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900