4.1 Gli inglesi in America

Per riprendere il filo…

Alla metà del XVIII secolo gli inglesi controllavano 13 colonie lungo la costa atlantica del Nuovo Mondo, che ospitavano più di 2 milioni di abitanti. A differenza dei francesi (propensi ad affermare una presenza più commerciale che stanziale, fatta eccezione per gli insediamenti lungo le coste del fiume San Lorenzo in Québec), i sudditi della corona inglese avevano creato nuove comunità cambiando radicalmente la fisionomia del territorio dal punto di vista sia economico sia politico. I britannici erano stati spinti a migrare dal desiderio di una vita più agiata, ma anche da motivazioni religiose, in quanto critici verso i precetti della Chiesa anglicana, giudicata troppo vicina a quella cattolica. Avevano stabilito rapporti controversi con le popolazioni native, oscillando fra conflittualità e collaborazione. La Guerra dei Sette anni (1756-63) segnò la sconfitta della Francia che fu costretta a cedere la parte settentrionale del continente americano, lasciando il controllo del territorio agli stessi coloni inglesi. Il rapporto di questi ultimi con la madrepatria, pur non essendo privo di conflittualità, sembrava fondarsi su equilibri stabili.

4.1 Gli inglesi in America

Le colonie britanniche nel Nuovo Mondo: economia e società
Nei primi decenni del Settecento, le colonie britanniche in America settentrionale conobbero un notevole sviluppo economico e importanti trasformazioni politiche, sociali, culturali e religiose. Un rapido incremento demografico aveva fatto crescere la domanda di beni alimentari e manufatti, stimolando la creazione di nuove forme organizzative e di nuove attività svincolate dal mero interesse economico (intrattenimento, letture, eventi culturali). Si erano quindi sviluppate nuove forme di socialità che consentivano agli abitanti dei diversi Stati di sentirsi parte di comunità dotate di una propria identità, capaci di far valere i loro punti di vista e le loro esigenze anche nei contatti commerciali internazionali o nelle questioni amministrative che segnavano il rapporto con la madrepatria [ 1].


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Le colonie erano comunque disomogenee fra loro. Le condizioni geografiche e ambientali di ciascuna realtà giocavano talvolta un ruolo importante nella definizione delle vocazioni economiche dei territori, insieme alla provenienza e al profilo culturale dei colonizzatori (si pensi per esempio alla prevalenza puritana nella Nuova Inghilterra, alle radici olandesi di New York, che era originariamente denominata Nuova Amsterdam, o alla corposa presenza scozzese e irlandese nell’area compresa fra l’attuale Oklahoma e il Texas). La preminenza di alcune attività produttive su altre era spesso influenzata dalla presenza di corsi d’acqua, montagne, foreste, mare, dal clima arido o umido, ma anche dalla vicinanza con gruppi di nativi e dai rapporti stabiliti con loro.

Negli Stati dell’area meridionale (Florida, Carolina del Sud e del Nord, Virginia, Delaware, Maryland e Georgia) vivevano circa 500 000 schiavi neri importati dall’Africa o dai Caraibi [▶ fenomeni]. Lavoravano in grandi piantagioni di tabacco, riso, indaco e cotone, coltivate estensivamente. Gli insediamenti rurali prevalevano su quelli urbani ed erano controllati da gruppi ristretti di grandi proprietari che destinavano i loro prodotti ai mercati inglesi scambiandoli con manufatti e beni di lusso: proprio questi ultimi avevano una funzione importante nella definizione dello status delle persone facoltose, che erano inclini a marcare in maniera forte le differenze tra il loro stile di vita e quello dei ceti inferiori. Il cattolicesimo e l’anglicanesimo erano le confessioni religiose più diffuse, ma erano affiancate da molteplici forme di  congregazionalismo, che promuovevano la gestione autonoma delle chiese locali.

Negli Stati dell’area settentrionale (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New Hampshire, New York, New Jersey, Pennsylvania) la stratificazione sociale era molto meno evidente. Le terre erano affidate a coltivatori diretti che alimentavano la circolazione interna delle merci e si affiancavano ad artigiani, pescatori e mercanti. Le relazioni commerciali con l’Inghilterra e le altre colonie inglesi erano vivaci e si fondavano non solo su prodotti agricoli, ma anche su pelli, legname, ferramenta, prodotti per la cantieristica. La predisposizione all’imprenditoria era visibile anche dallo sviluppo di attività finanziarie, investimenti, ricorsi al credito. La crescita di grandi città – prima fra tutte Boston – favoriva l’interazione fra i diversi ceti e impediva la formazione di gerarchie sociali troppo rigide. L’affermazione di questo sistema contribuì al consolidamento di élite mercantili che detenevano ampie fette di potere e si affiancavano ai proprietari esercitando il loro dominio sulla vita politica, economica, ma anche su quella religiosa. Proprio nel controllo delle cariche più importanti nelle congregazioni si manifestava infatti il potere delle famiglie benestanti.

  fenomeni

I neri d’America

I principi di libertà e uguaglianza della Dichiarazione d’indipendenza erano in forte contraddizione con la persistente condizione dei neri che vivevano in quel territorio, in gran parte schiavi: circa mezzo milione nel 1776 e più di 700 000 venti anni più tardi. La Gran Bretagna aveva nel Settecento il primato nel commercio triangolare, portando sulle sue imbarcazioni più della metà degli africani che arrivavano nelle Americhe (nel solo anno 1768, per esempio, controllò 53 000 dei 97 000 deportati complessivi nell’intero continente). Più di uno su dieci moriva durante il viaggio, visto che le condizioni igieniche e alimentari delle traversate erano decisamente precarie. Arrivati nei porti di destinazione, gli armatori scambiavano esseri umani in condizioni pietose con generi coloniali da riportare in Europa, realizzando dei profitti altissimi.

I padroni potevano disporre dei loro schiavi senza vincoli, decidendo della loro vita e della loro morte, infliggendo punizioni corporali per qualsiasi forma di insubordinazione. I tentativi di fuga erano piuttosto frequenti, ma erano puniti con estrema severità. Tuttavia spesso i proprietari decidevano di non abusare delle loro prerogative e sceglievano, al contrario, una linea morbida, favorendo l’accoppiamento dei loro schiavi e la formazione di nuove famiglie: l’obiettivo era anche farli riprodurre per avere una servitù più numerosa.

I sistemi di governo
Nonostante le enormi differenze socioeconomiche e culturali, le colonie avevano organizzazioni giuridicamente omogenee. A capo di ciascuno Stato c’era un governatore di nomina regia, diretto rappresentante del potere della madrepatria e titolare del potere giudiziario (era lui a scegliere le persone da mettere a capo dei singoli tribunali). Molte comunità cittadine o rurali godevano di ampie libertà perché le lunghe distanze fra un centro abitato e l’altro rendevano difficili le comunicazioni. Ciò portava i coloni a non percepire la presenza di un potere centrale forte, capace di dare direttive univoche in materie delicate, come la definizione dei rapporti con le popolazioni native o l’assegnazione delle terre agli immigrati che arrivavano dall’Europa. Una funzione importante era svolta dalle assemblee elettive che affiancavano i governi locali nell’attività legislativa e che aspiravano a diventare dei veri e propri parlamenti coloniali. Il loro operato esaltava le pretese autonomistiche dei territori: i membri dei consessi riuscivano a esercitare un’importante influenza sulla gestione delle finanze pubbliche, sulle politiche economiche e sulla concessione di licenze di commercio. Inoltre si ergevano a baluardo delle libertà dei sudditi residenti in America contro le ingerenze dell’esecutivo inglese.
In questi contesti si sperimentarono nuove forme di partecipazione politica, che assorbivano le suggestioni dell’Illuminismo europeo sfruttando la circolazione delle idee per l’elaborazione di progetti politici, definendo i confini dei poteri costituiti e guardando allo spazio pubblico come luogo di sorveglianza delle attività e delle decisioni dei gruppi egemoni. Altrettanto rilevante era lo sviluppo di identità politiche, sociali e culturali dotate di un grado sempre maggiore di specificità, legate proprio alla capacità delle strutture coloniali di coinvolgere un largo numero di persone nella vita comunitaria. Nelle loro lettere alla madrepatria, i funzionari imperiali rivelavano spesso la debolezza del loro operato, sottoposto a una lunga serie di negoziazioni e limiti imposti dai rappresentanti locali.
Tuttavia questi vicoli non ridimensionavano la fedeltà degli americani all’Impero britannico. Le colonie erano parte integrante di un sistema economico compatto e fungevano sia da fornitrici di materie prime sia da acquirenti dei manufatti della madrepatria. Con gli Atti di navigazione, il parlamento inglese tentò di gestire fin da metà Seicento il commercio delle colonie con altri paesi diversi dalla madrepatria, impose dazi doganali elevati per l’importazione di prodotti (anche dalle isole francesi) e proibì la produzione di manufatti che potevano fare concorrenza alle industrie britanniche. Non mancarono ovviamente gli effetti collaterali: le assemblee locali, per esempio, erano riluttanti e infastidite da queste imposizioni, senza contare il fatto che molti preferirono aggirare gli ostacoli imposti dai poteri costituiti percorrendo la via del contrabbando. Tuttavia le colonie ne traevano anche grossi benefici. I rapporti privilegiati con l’Inghilterra consentivano l’accesso a mercati protetti che garantivano profitti sicuri. Era inoltre garantita la tutela della navigazione e dei porti.

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Le immunità, i privilegi nobiliari, i rapporti feudali diffusi in Europa erano quasi sconosciuti alle colonie (un’eccezione era il Québec) e ciò alimentava l’idea di un eccezionalismo americano. Tuttavia i coloni rimanevano fedeli sudditi della corona inglese e legati ai modelli sociali e culturali della madrepatria [ 2]. Fino alla fine degli anni Trenta il compromesso fra corona inglese e colonie americane sembrava solido e capace di soddisfare le esigenze reciproche. Lo sfruttamento indiscriminato della schiavitù (soprattutto negli Stati del Sud) non incontrava radicali opposizioni, così come l’atteggiamento aggressivo nei confronti degli indiani.

4.2 Le radici del disagio e il contrasto con la madrepatria

La rottura degli equilibri

Gli equilibri si ruppero fra gli anni Quaranta e Cinquanta, con il coinvolgimento delle colonie nei conflitti che contrapponevano l’Inghilterra, la Francia e la Spagna. La Guerra dei Sette anni fu un momento di svolta, poiché consentì agli inglesi d’America di prendere coscienza della propria forza militare. Il venir meno del potere francese nella parte settentrionale del continente – soprattutto nei territori a ovest del fiume Mississippi dove operavano mercanti e cacciatori – fece inoltre cadere gli ultimi argini all’espansione verso Ovest dei coloni. La corona britannica non aveva di fatto stabilito confini netti a occidente per i migranti, lasciando ampi margini di azione per l’occupazione di nuovi territori e ponendo le basi per disegnare una nuova geografia politica in un territorio che sembrava potenzialmente sterminato. Tutte queste dinamiche contribuivano a far percepire l’America come una terra promessa, dove si potevano sperimentare forme di convivenza e di iniziativa economica impossibili nel mondo europeo.

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Proprio in coincidenza con questo fervore politico, economico e culturale, la Gran Bretagna cominciò a prelevare risorse senza consultare i coloni. Creò inoltre nuove circoscrizioni provinciali per gestire meglio la distribuzione delle terre e disciplinare l’espansione verso Ovest [ 3]. Infine inasprì i dazi doganali, esercitò un controllo più forte sull’emissione della moneta, elaborò nuovi sistemi per alloggiare e approvvigionare gli eserciti, che andavano a pesare principalmente sulle tasche degli americani.

Dallo Stamp Act al Boston Tea Party 
Nel marzo 1765 fu approvato lo Stamp Act, che imponeva una tassa sui fogli stampati di qualsiasi tipo: carte di navigazione, licenze e pratiche legali, giornali e libri. Il provvedimento venne a seguito di altre pesanti imposte su zucchero, caffè, vino e tè.

Le reazioni non si fecero attendere e riuscirono anche a stimolare un’inedita unità di intenti nelle colonie, abituate ad affrontare i loro problemi da sole senza forme di coordinamento e di organizzazione collettiva. Gli americani presero coscienza di potersi esprimere con una voce unica e forte: furono pubblicati numerosi opuscoli e dal dibattito pubblico emerse l’idea che a votare la pesante imposizione fiscale era stato un parlamento, inglese, in cui i coloni non erano rappresentati.

L’atto fu ritirato dopo un anno, ma non pose fine all’aspra politica fiscale dell’impero. Al contrario, il Declaratory Act del 1766 riaffermò il diritto dell’autorità britannica di prendere le decisioni più importanti in materia finanziaria e amministrativa.

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Nei primi anni Settanta la situazione precipitò rapidamente. La corona inglese decise di dare una prova di forza ripristinando le imposizioni fiscali, ma i coloni risposero con sabotaggi e boicottaggi sempre più frequenti delle merci della madrepatria, riprendendo il celebre motto No taxation without representation. Vi furono insurrezioni ed ebbero esiti sanguinosi: nel 1770 a Boston i soldati inglesi aprirono il fuoco sulla folla uccidendo 5 persone. Nella stessa città, il 16 dicembre del 1773, alcuni americani travestiti da indiani presero d’assalto una nave della Compagnia delle Indie orientali, che era stata beneficiata dal governo con il monopolio del commercio del tè, gettandone in mare il prezioso carico. L’evento, ricordato come Boston Tea Party, segnò l’inizio di un aperto conflitto fra americani e madrepatria inglese. La solidarietà intercoloniale era ormai fortissima e le divergenze non erano più componibili attraverso trattative o compromessi [ 4].

4.3 La Guerra d’indipendenza e le guerre indiane

I congressi continentali e la Dichiarazione d’indipendenza
Il governo inglese reagì in maniera durissima al Tea Party e chiuse il porto di Boston, pretendendo il risarcimento delle merci distrutte e imponendo la modifica delle leggi dello Stato del Massachusetts in senso fortemente repressivo. Le colonie sposarono invece la causa dei ribelli e cominciarono a costituire assemblee rappresentative straordinarie (talvolta definite Convenzioni, in altri casi Congressi provinciali) con l’intento di sottrarre potere alle autorità britanniche.

Nel 1774 si riunì a Filadelfia il primo Congresso continentale che segnò un punto di rottura importante con il passato: fu riproposto e inasprito il boicottaggio delle merci della madrepatria e furono esplicitamente rigettate le leggi del parlamento di Londra. Queste ultime furono sostituite dalle norme votate dalle assemblee.

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L’anno successivo si tenne un nuovo Congresso continentale e fu accompagnato da scontri armati fra coloni ed esercito inglese. Nel gennaio del 1776 fu pubblicato il Common Sense Addressed to the Inhabitants of America, un libello propagandistico che ebbe un impatto eccezionale sull’opinione pubblica. L’autore era il filosofo e pubblicista inglese Thomas Paine, appartenente a una famiglia di artigiani della contea del Norfolk e da poco arrivato sulle coste americane.
Il testo si scagliava contro la figura del re, mettendo in discussione la stessa idea di monarchia, le regole aristocratiche e la tradizione costituzionale britannica, affermando la necessità di instaurare una repubblica. L’idea portante del discorso di Paine era quella di un’America indipendente, capace di diventare rifugio per gli uomini che intendevano esigere il rispetto dei diritti naturali e partecipare attivamente alla vita pubblica, difendendo le loro libertà individuali. L’impatto dell’opera fu enorme in tutte le colonie. Ovunque si ebbero recensioni, letture, incontri di discussione, manifesti. Fu quindi anche la comunicazione orale ad aiutare la diffusione dei messaggi formulati dall’autore: il linguaggio, la struttura retorica e il carattere pragmatico furono la chiave della straordinaria efficacia del Common Sense, ancor più che i contenuti politici.

Il 4 luglio del 1776 fu approvata la Dichiarazione d’indipendenza, con la quale gli americani affermavano il loro diritto a darsi un governo autonomo, riuscendo a fondere i valori elaborati nel loro mondo con alcune idee portanti dell’Illuminismo europeo [▶ FONTI, p. 134] [ 5]. Si riconobbe quindi la centralità dell’uguaglianza naturale fra gli uomini, della salvaguardia della vita e della libertà individuale, della possibilità di poter cercare la propria felicità [▶ altri LINGUAGGI, p. 135].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900