2.1 La Chiesa nel contesto dei poteri medievali

Per riprendere il filo…

Nell’alto Medioevo i sovrani franchi avevano legittimato la loro sovranità dichiarandosi eredi del potere imperiale romano e presentandosi come i supremi difensori della cristianità. In stretto collegamento con la sede vescovile di Roma, Pipinidi e Carolingi influenzarono profondamente lo sviluppo del cristianesimo occidentale medievale, sia sul piano teologico, sia su quello delle disposizioni pratiche. Nel corso del X secolo, con la fine della dinastia carolingia e l’ascesa degli Ottoni alla guida dell’Impero germanico, il contesto dei poteri europei andò però complicandosi. Si delineò, in particolare, una dicotomia fra un impero che si presentava come istituzione universale, nonostante fosse attraversato da vasti processi di frammentazione e di dispersione del potere sul territorio, e un papato che cominciava anch’esso a rivendicare, con inedita forza, un’autonomia e un’aspirazione all’universalità presto destinate a entrare in conflitto con le autorità civili.

2.1 La Chiesa nel contesto dei poteri medievali

Potere civile e potere religioso

 In un’Europa caratterizzata da un’estrema frammentazione politica, e nella quale la mentalità religiosa dominava ogni aspetto della vita collettiva, il confine fra potere politico (regnum) e potere sacerdotale (sacerdotium) era quanto mai labile e indefinito.

  • Le autorità civili, i sovrani, rivendicavano per sé un carattere sacrale e si ponevano a guida e protezione del “gregge di Dio”, cioè dei fedeli. Sulla base di questo presupposto si sentivano legittimati a intervenire anche nel mondo ecclesiastico, soprattutto attraverso la nomina di abati e vescovi, o dettando norme sul comportamento dei chierici.
  • Le autorità religiose, i vescovi, tendevano da parte loro a porsi in maniera antagonistica nei confronti delle gerarchie civili. Pur consacrando e legittimando il potere regio, affermavano la supremazia di chi amministra i ▶ sacramenti e si ponevano dunque su un piano di superiorità anche rispetto a re e imperatori [ 1].

 >> pagina 66 

Il ruolo dei vescovi                

L’estensione delle prerogative vescovili oltre l’ambito religioso non era una novità: per gran parte dell’alto Medioevo l’episcopato aveva ricoperto ruoli di supplenza dei poteri civili, fortemente indeboliti dal crollo del sistema istituzionale di Roma antica, e intorno al X secolo continuava a ispirarsi a un modello di potere di derivazione romano-imperiale: il vescovo, cioè, si presentava spesso come garante dell’ordinamento pubblico, tanto da assumere il governo di importanti realtà urbane  [▶ fenomeni].

Anche la Chiesa, tuttavia, era stata profondamente influenzata dalla trasformazione in senso signorile dei poteri dell’Occidente europeo, che aveva accentuato la frammentazione e la dispersione dell’autorità pubblica sul territorio. Anzi, poiché una larga parte dell’episcopato proveniva dall’aristocrazia e disponeva quindi di proprietà e clientele militari sia in ambito urbano che rurale, era più vicino a un modello privato e familiare di gestione del potere, di tipo signorile, che al modello pubblico di derivazione antica. Questi due elementi convivevano nella vita ecclesiastica ancora all’inizio dell’XI secolo e nemmeno il vescovo di Roma, la figura più autorevole e rappresentativa della cristianità, si sottraeva a questa pesante ambiguità.

Nel quadro di questa interrelazione fra aristocrazia militare e ambito ecclesiastico si colloca anche l’istituto delle chiese e dei monasteri privati. I potenti, infatti, fondavano monasteri e chiese sulle proprie terre affinché il clero pregasse per i membri della famiglia e intercedesse per loro al momento della morte, ma anche per sfruttarne le grandi capacità di controllo sociale ed economico, dal momento che per le popolazioni rurali dipendenti tali istituzioni religiose fungevano da concreto punto di riferimento morale e materiale.

La costruzione di chiese private, però, riguardò anche gli episcopati e le abbazie, che le erigevano in concorrenza con i poteri ▶ laici. Non si trattava quindi unicamente di un’ingerenza laica nell’organizzazione della Chiesa, quanto piuttosto di un’interdipendenza ambigua fra due strutture di potere, l’episcopato e l’aristocrazia, che pur essendo distinte nascevano dallo stesso ambiente sociale ed economico e traevano la propria forza dal possesso e dal controllo della terra.

 >> pagina 67

  fenomeni

Il mito storiografico del “vescovo-conte”

L’interpretazione tradizionale

A differenza di quanto ancora comunemente affermato in molti ambiti della divulgazione storica, la figura del “vescovo-conte” non è mai esistita. Tradizionalmente la storiografia riteneva che alcuni imperatori, e in particolare Ottone I (962-973), dinanzi alle difficoltà dovute alla patrimonializzazione degli uffici pubblici da parte dei grandi aristocratici (cioè al fenomeno in base al quale le cariche pubbliche e i benefici connessi tendevano a diventare parte del patrimonio familiare privato di chi le deteneva), concedessero la carica di conte ai vescovi, per i quali le norme canoniche avrebbero impedito il matrimonio e dunque la trasmissione ereditaria della carica.

La revisione del concetto

Bisogna ricordare invece che, da un lato, come spieghiamo in questo capitolo, il matrimonio del clero fu formalmente proibito solo alla fine dell’XI secolo; dall’altro, che esercitare funzioni proprie di un conte non vuol dire essere un conte. Il fatto che un vescovo ricevesse diritti di natura pubblica su territori corrispondenti alle circoscrizioni am­ministrative carolingie (comitati, marche) non significava infatti che questi fosse un funzionario pubblico. Egli infatti esercitava quei diritti in virtù della concessione delle immunità di cui esso già godeva in ambito cittadino (districtus). Il fatto, poi, che alcuni vescovi fossero legati all’autorità regia o imperiale non rese mai le concessioni di diritti pubblici delle prerogative relative alla singola persona, ma sempre alla sede episcopale nella sua interezza e dunque a tutta la comunità urbana.

La pretesa supremazia papale                       

Fu in questo contesto che, nel corso dell’XI secolo, il vescovo di Roma affermò la superiorità del suo potere sia nell’ambito dell’organizzazione ecclesiastica, sia nei rapporti con le autorità laiche, e in particolare con la principale istituzione politica del tempo in Occidente, l’Impero. All’interno della cristianità, la pretesa supremazia papale portò a un durissimo scontro con le Chiese orientali circa l’estensione delle proprie sfere di influenza in Italia meridionale, nei Balcani e nell’Europa settentrionale, cui si aggiunsero non meno rilevanti contrapposizioni di carattere teologico. Nell’ambito di questo scontro papato e Impero si trovarono ancora alleati ma, sulla base di tali premesse, anche i loro rapporti erano destinati a deteriorarsi.

Vedremo meglio i caratteri e l’esito di queste vicende nei prossimi paragrafi. Prima, però, è necessario soffermarsi su un altro fondamentale aspetto del processo che la storiografia ha definito “riforma” della Chiesa: la denuncia dei comportamenti immorali del clero e il rifiuto, da parte di alcune correnti della cristianità, della commistione fra potere civile e religioso che abbiamo fin qui descritto.

2.2 Tensioni di riforma e nuove sensibilità: monaci, vescovi, laici

La (falsa) questione della moralità del clero

Fin dal IX secolo, nel mondo cristiano erano maturate richieste ed esperienze di rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche. A posteriori, queste istanze sono state interpretate quasi esclusivamente come una protesta contro comportamenti di dubbia moralità mantenuti da parte del clero; a destare scandalo sarebbero state in particolare le pratiche della simonia e del concubinato. Il primo termine deriva da un personaggio degli Atti degli apostoli, Simon Mago, che aveva cercato di acquistare da Pietro il potere della guarigione, e indica per questo il commercio di beni spirituali (indulgenze, assoluzioni, consacrazioni) e la compravendita delle cariche ecclesiastiche. L’altra principale critica alla moralità del clero riguardava i costumi sessuali dei prelati e in particolare la pratica del concubinato (ossia un’unione stabile tra uomo e donna non sancita da vincolo matrimoniale), molto diffusa nella società e anche nel clero, a tutti i livelli.

In realtà, rispetto a quanto ancora spesso si afferma, si tratta di accuse che hanno acquisito una rilevanza straordinaria solo a causa delle dinamiche di scontro interno che agitarono la cristianità dell’XI secolo. La simonia, per esempio, era una prassi condannata e combattuta dagli stessi imperatori, non solo dai movimenti di riforma nati“dal basso”. L’accusa di simonia era però un efficace strumento di lotta politica, utilizzata contro gli avversari, in un campo e nell’altro: di questo clima polemico è rimasta forte traccia nei testi che ci sono stati tramandati, e di conseguenza il tema ha assunto nel dibattito storiografico una rilevanza che nella realtà non aveva.

Quanto alla questione del concubinato, si trattava, come si è detto, di una prassi del tutto corrente nel cristianesimo altomedievale occidentale nonché nelle Chiese orientali, quindi la sua condanna deriva soltanto da un mutamento di sensibilità rispetto alla capacità del sacerdote di svolgere il suo ruolo di mediazione con Dio: quanto più puro egli fosse stato, tanto più efficacemente avrebbe svolto il suo compito.

 >> pagina 68 

Il movimento cluniacense

È proprio per un generale mutamento di sensibilità che nel corso del X secolo, fra alcune élite di chierici e monaci, spesso con il sostegno dei laici, maturarono nuove istanze religiose e modelli innovativi di vita in comune. Particolarmente significativa è la vicenda del monastero di Cluny, fondato nel 909 o 910 a Mâcon, in Borgogna, su iniziativa di Guglielmo I duca di Aquitania e dell’abate Bernone. Il monastero si ispirava al monachesimo benedettino, accentuandone però l’aspetto liturgico e rituale attraverso l’importanza attribuita ai momenti della preghiera comune, del canto, delle processioni, dello studio della Bibbia.

Dipendente direttamente da Roma e non dal vescovo territoriale, Cluny divenne nel tempo il centro di una potenza signorile enorme, accresciuta da donazioni e lasciti testamentari. La congregazione arrivò a contare centinaia di ▶ priorati e monasteri sia minori sia anche importanti, anch’essi direttamente legati a Roma e quindi indipendenti dai poteri locali. All’abate di Cluny, sempre proveniente da famiglie aristocratiche, era riconosciuta da principi e sovrani una capacità di consiglio ve mediazione che ne faceva una figura politica di primo piano [ 2]. Così, se da una parte questa “aristocrazia della preghiera” – come l’ha definita lo storico Giuseppe Sergi – offriva un modello di disciplina che teneva insieme la santità del monaco e la giustizia del signore, dall’altra la commistione fra potere civile e religioso riproduceva uno di quegli aspetti negativi che aveva inteso superare [ 3].

Esperienze eremitiche

Riprese vigore in Occidente, in questo periodo, anche l’eremitismo, inteso come rifiuto del potere e riavvicinamento alla povertà evangelica. Personaggio eminente di questa tensione religiosa, che conquistò anche importanti esponenti dell’aristocrazia, fu Romualdo di Ravenna (952ca.-1027). Alla sua predicazione si ispirarono diversi eremi, il più importante dei quali fu quello di Camaldoli, e al suo insegnamento fecero riferimento figure di grande spessore culturale, come Pier Damiani (1007-72), suo allievo e successivamente ▶ cardinale [  4].

Dotato di ricca cultura retorica, Pier Damiani affrontò in modo molto efficace, nelle sue lettere, alcuni temi che divennero fondamentali nel processo di riforma politico-istituzionale della Chiesa, sia per quanto riguarda l’organizzazione interna del papato e i suoi rapporti con le altre autorità, sia in relazione ai problemi morali da più parti denunciati.

I nodi principali toccati dalla sua elaborazione furono:

  • il rapporto fra cardinali e pontefice, concepito in modo analogo a quello che esisteva, nell’antica Roma, fra i senatori e l’imperatore;
  • la necessità di dare alla Chiesa un’organizzazione burocratica e accentrata, sul modello della curia imperiale romana;
  • il concetto di libertas Ecclesiae, ossia di libertà e di autonomia della Chiesa rispetto a ogni ingerenza esterna;
  • la condanna del ▶ nicolaismo e del concubinato per gli ecclesiastici, basata sull’idea che la castità del sacerdote e del monaco fosse requisito essenziale per l’efficace mediazione con Dio;
  • la condanna della compravendita di cariche ecclesiastiche (simonia).
 >> pagina 70 

  protagonisti

Ildegarda di Bingen, una mistica pop

Fin da giovanissima Ildegarda, entrata nel monastero benedettino di Disibodenberg a otto anni, ebbe esperienze visionarie. Messe per iscritto, hanno costituito il nucleo del Liber Scivias (sci, “conosci”, vias “le vie”, 1141-53) che racconta, con stile drammatico e potente, le sue visioni di Cristo. Il contesto che Ildegarda fornisce di queste esperienze di conoscenza è originale: la debolezza femminile diventa un valore positivo, paragonata alla debolezza di Cristo stesso. In un altro testo, il Liber divinorum operum (1163-70), Ildegarda illustra i temi della corrispondenza tra universo (macrocosmo) e uomo (microcosmo) e l’idea della creazione come manifestazione delle idee eterne presenti nella mente di Dio, temi cari alla scuola di Chartres.

Ildegarda, badessa del suo monastero dal 1136 e fondatrice di un altro monastero nei pressi di Bingen, ebbe anche una vasta cultura medica, documentata da una serie di scritti raccolti sotto i titoli di Physica e Causae et curae, dove pure si notano sorprendenti intuizioni sull’eliocentrismo e la circolazione sanguigna. Compilò anche composizioni poetico-musicali (Symphonia armonie celestium revelationum), drammi morali (Ordo virtutum) e un nutrito epistolario, dal quale emerge il suo ruolo nella lotta per la riforma della Chiesa e la moralizzazione della vita del clero.

Una lettura moderna

Proclamata santa e Dottore della Chiesa nel 2012 da papa Benedetto XVI, Ildegarda vive anche una grande fortuna nella cultura pop contemporanea: protagonista di libri e spettacoli teatrali e musicali, la badessa tedesca è reinterpretata sia come donna di potere, capace di esprimere insieme mistica e sensualità, sia come precorritrice di tendenze naturopate e ambientaliste. Una banalizzazione, questa, della figura di Ildegarda, che tuttavia non ha influito su un’attenta opera filologica recente di edizione di suoi testi, che consente ora di indagare più a fondo nella complessità della sua vita e del suo pensiero.

La nascita di nuovi ordini monastici

In polemica con la congregazione cluniacense, tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo si svilupparono alcune nuove proposte di vita comune e istanze di rinnovamento all’interno di quella benedettina  [▶ protagonisti].  Dall’esperienza di Bruno di Colonia (1030 ca.-1101), maestro a Reims e asceta nella valle della Chartreuse (presso Grenoble), nacque nel 1084 l’ordine dei certosini, monaci che vivevano in solitudine per gran parte della giornata, riunendosi con gli altri solo nei momenti di preghiera comune.

Una simile integrazione fra pratica eremitica e vita in comune è anche alla base del modello cistercense, proposto nel 1098 da Roberto di Molesme (ca. 1028-1111) a Cîteaux (in latino Cistercium), nella foresta presso Digione, in Borgogna. Basandosi su una rigida osservanza della regola benedettina, e contestando il modello cluniacense persino nel colore delle vesti (nere quelle cluniacensi, bianche quelle cistercensi), questi monaci organizzarono la propria congregazione secondo una parità riconosciuta a tutte le abbazie, coordinate da un ▶ capitolo generale annuale, e a differenza di Cluny si collegarono strettamente alla struttura ecclesiastica territoriale, sottoponendosi alla giurisdizione dei vescovi locali e ottenendone l’appoggio. I cistercensi rifiutarono inoltre le modalità signorili di gestione delle proprietà e almeno inizialmente basaroo il proprio sostentamento sulla conduzione diretta delle terre e sulla costituzione di aziende agrarie, le grange, improntate a criteri di razionalità ed efficienza.

 >> pagina 71 

La congregazione visse il suo massimo momento di sviluppo con Bernardo (1090-1153), fondatore dell’abbazia di Clairvaux, nota anche in italiano come Chiaravalle. Figura chiave della cristianità occidentale del XII secolo, egli fu uno strenuo difensore della gerarchia ecclesiastica successiva alle riforme di papa Gregorio VII – di cui parleremo a breve – e dell’ascetismo monastico, contro i tentativi di impiegare concetti logici e filosofici nel campo delle discussioni teologiche. Intransigente con gli avversari, in particolare i cluniacensi, alla sua morte Bernardo lasciò un ordine cistercense ricco e potente, il cui modello organizzativo venne assunto dall’intero monachesimo occidentale [  5].

Tensioni di riforma nel mondo laico

Anche il mondo laico partecipò ai fermenti di riforma propri del mondo monastico, rinnovando la propria richiesta di partecipazione alla vita ecclesiastica sulla base di un ritorno alla povertà evangelica che non vedeva praticata dagli alti esponenti del clero. Un esempio di questa tensione ▶ pauperistica, che coinvolse laici e chierici, si sviluppò a Milano con il movimento patarinico o della patarìa, da cui il termine patarini (derivato forse da patée, vocabolo spregiativo dialettale con cui si indicavano robivecchi e straccivendoli). Sotto la guida del chierico Arialdo (1010 ca.-66), i patarini contestarono duramente la gerarchia ecclesiastica della città, e l’▶ arcivescovo in particolare, ottenendo per un certo periodo l’appoggio della Chiesa romana.

Vi fu anche, tuttavia, una partecipazione laica meno radicale e contestatrice, come quella degli imperatori tedeschi della casa di Franconia, Corrado II, Enrico III, Enrico IV ed Enrico V, che cinsero la corona imperiale tra il 1024 e il 1125. Essi, anche al fine di ottenere l’appoggio dei movimenti riformatori sorti nei loro territori, intervennero a più riprese e con grande vigore per imporre nel ruolo di pontefici alcune personalità riformatrici e colte provenienti dalla Chiesa tedesca, che era ancora sotto lo stretto controllo imperiale, contrastando in ogni modo, anche sul piano militare, i tentativi dell’aristocrazia romana di mantenere il controllo dell’elezione del pontefice.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715