T1 - Francesco e Xi Jinping, l’asimmetrica partita dei due imperatori

T1

Francesco e Xi Jinping, l’asimmetrica partita dei due imperatori

Martina Cvajner e Giuseppe Sciortino, Limes, Il mondo dopo Wall Street, 2008

Cina e Santa Sede sono due entità diverse ma entrambe imperiali. Pechino vorrebbe che l’intesa con il Vaticano contribuisse a sedare i sinofobi americani, ma teme le intrusioni politiche dei vescovi cinesi. Ricordando Lutero.

L’avvicinamento tra Santa Sede e Cina ha mille facce. Sono in gioco questioni di fede, di avvicinamento di anime, di tensione verso l’aldilà, ma anche di comunicazione con l’al di qua. Tutti punti importantissimi. Ma vista dalla Cina la partita è essenzialmente di potere. Geopolitica. Per il beneficio dell’incontro è dunque opportuno capire la posizione cinese. In tre atti, come nelle tragedie classiche.


Confronto tra imperi


La Santa Sede è innanzitutto un impero che deve essere comparato con quello che di fatto è l’impero cinese. Capire l’impero cinese è più semplice di quanto spesso si immagini. Perché è un insieme etnicamente piuttosto omogeneo, che oggi conta circa 1,4 miliardi di anime. Di queste, circa il 95% sono di etnia cinese e parlano o capiscono il mandarino. Dal 1980 Pechino ha imposto con durezza la politica del figlio unico, che ha sottratto alla sua popolazione in quarant’anni forse 400 milioni di nuovi cittadini. Già addolcita, in questi giorni la legge del figlio unico potrebbe essere completamente eliminata. Ciò potrebbe di nuovo rilanciare le nascite e quindi la crescita della popolazione, evitando la trappola dell’invecchiamento progressivo della nazione, con impatto evidente sulla qualità della vita e sullo sviluppo economico.

La Cina è dunque la più grande massa unitaria di popolazione su questo pianeta. Inoltre, dal 1980 la sua economia è cresciuta mediamente di oltre l’8% all’anno, cifra che garantisce il raddoppio del pil ogni dodici anni. In questo quarantennio la ricchezza dei cinesi è aumentata di circa il 3000%. […]

Che cosa è il Vaticano? Visto nella sua essenzialità si tratta di mezzo chilometro quadrato incastonato nel centro della capitale d’Italia, con nemmeno un migliaio di abitanti che entrano e escono liberamente dai suoi confini. Ai cinesi pare di primo acchito una curiosità geopolitica, come San Marino o Andorra. Ma la vera dimensione della Chiesa prescinde dal minimo spazio e dagli scarsi abitanti del Vaticano. È la più grande entità religiosa unitaria del pianeta. La Chiesa conta 1,3 miliardi di battezzati nel mondo, quasi quanti sono i cinesi. Il loro numero sta aumentando, specialmente in Africa, fra tutti il continente con la maggiore crescita demografica. Ma il massimo serbatoio di potenziali fedeli da evangelizzare è l’Asia e in particolare la Cina, dove i cattolici restano piccola minoranza. […]

Quello vaticano è quindi un impero leggero, morbido, a cerchi concentrici, con influenza diretta e via via sempre più indiretta sulla metà circa della popolazione globale: in tutto quasi 4 miliardi di persone. Papa Francesco ha rimarcato più volte di non essere semplicemente interessato ai “suoi”, di voler parlare a tutto il mondo, anche ai

cinesi e agli indiani che non sono cristiani o musulmani, ai tanti animisti sparsi per il mondo, agli atei e agli agnostici.

Ma che tipo di autorità ha il papa sul suo impero? In Cina è chiaro chi comanda: il presidente Xi Jinping, o chi per lui, ha potere di vita o di morte sui suoi soggetti. Il funzionario che non gli obbedisce può essere licenziato, mandato in prigione o addirittura giustiziato. Viceversa il papa, come appare chiaro dalla catena di scandali e rivelazioni vere o false che continua a investire la Santa Sede, non ha o non vuole avere il potere nemmeno di licenziare i suoi collaboratori che mancano alle norme più elementari di sicurezza e di riservatezza. Un potere senza potere, visto da Pechino. Un potere quasi inutile.

Eppure non è così. Le polemiche dilagate sulla stampa mondiale sulle mancanze del papa o della Curia romana, le spinosissime controversie sulla normalizzazione delle relazioni tra Santa Sede e Cina, rivelano il potere anomalo ma reale del papa e della sua Chiesa. Potere che ad alcuni può apparire persino superiore a quello del presidente cinese. Infatti nel 2015, quando le visite di Stato in America di Xi Jinping e del papa quasi coincisero, i politici e il pubblico americano diedero molta più importanza al papa rispetto al presidente/imperatore della Cina. Per molti cinesi fu una specie di shock culturale.

Qui sta il dramma e la confusione della Cina nel confronto con il Vaticano. Se la Santa Sede non è un potere reale, non conta, è inutile, non vale la pena parlarci. Se è un potere reale, che conta, ha un irradiamento immenso, allora va considerato e affrontato con estrema cautela. Nei decenni passati l’atteggiamento predominante a Pechino era il primo. Negli ultimi anni comincia a rivelarsi il secondo. Xi Jinping è convinto che con la Chiesa cattolica romana bisogna dialogare, ma occorre evitare che futuri cambi di linea a Roma – per esempio l’avvento di un papa avverso a Pechino o comunque meno disponibile al dialogo – influenzino direttamente l’opinione pubblica, la politica interna e la postura geopolitica della Cina.

Rischi di corto circuito


Ma come può il potere cinese, che per tradizione imperiale è assoluto entro il suo territorio, incrociarsi e trovare il modo di convivere con il potere della Chiesa? Qui si tocca l’identità stessa dello Stato cinese. Il primo impero unificato conferì un’autorità quasi divina all’imperatore. L’ideogramma che lo descrive (wang) è formato da tre linee parallele orizzontali unificate al centro da una linea verticale, a disegnare l’entità che unificava i tre mondi – il cielo, la società umana, la natura. Sicché l’imperatore cinese riuniva in sé caratteri religiosi e geopolitici, similmente al faraone egiziano. Niente a che vedere con la polis greca o con la repubblica romana, basi della concezione occidentale dello Stato.

In Occidente si è stabilita una dicotomia tra potere della Chiesa e potere dello Stato. Tale dicotomia non si è mai data in Cina. Dove non è mai esistita una vera e propria religione di Stato. Per secoli i cinesi sono stati liberi di praticare e seguire qualunque religione preferissero. Ma vigeva il principio che l’autorità ultima all’interno della Cina, superiore a qualsiasi fede, spettava all’imperatore.

Questo principio si rivelò ad esempio fondamentale nella controversia sui riti che separò i gesuiti da francescani e domenicani nel XVII e XVIII secolo. La scommessa dei gesuiti era di risolvere la contraddizione convertendo l’imperatore e per conseguenza tutta la Cina. Scommessa quasi neocostantiniana: si trattava di fare dell’imperatore e dell’impero cinese quello che i cristiani nel quarto secolo avevano fatto con Costantino e con l’impero romano. La scommessa fallì perché i gesuiti cedettero a due spinte opposte e contrarie: l’imperatore cinese non si convertì perché il cristianesimo non s’era adattato sufficientemente alla realtà cinese, mentre la Chiesa non si era inculturata fino in fondo perché temeva di corrompersi e quindi autodistruggersi.

Oggi la situazione è molto diversa, ma esistono punti di contatto con il passato. La diversità fondamentale è che oggi il presidente cinese non pretende di avere alcuna autorità religiosa. Inoltre, l’ideologia dominante è quella marxista, esplicitamente atea, areligiosa ma non antireligiosa. Quanto alla Chiesa, con la fine dello Stato Pontificio

ha smesso ogni pretesa di potere temporale. Perciò le “zone di autorità” di governo cinese e Santa Sede non si toccano: l’una è politico-civile, l’altra spirituale-religiosa. Si tratta quindi di inventare uno spazio in cui Cina e Chiesa possano convivere.

Di fatto però esiste un’enorme zona grigia nella quale i due poteri si toccano e si incontrano. Lo scopriamo studiando la questione della nomina dei vescovi, fondamentale per la Chiesa. I vescovi sono i garanti dell’unione nella fede tra comunità locale dei credenti e papa, egli stesso vescovo, la cui autorità gli deriva dall’essere successore di Pietro e capo della Chiesa di Roma. Ma i vescovi incarnano anche un forte potere sociale, sicché in territorio cinese potrebbero esercitare una sorta di autorità non solo religiosa.

Lo spinoso problema dei rapporti fra episcopati locali e Roma corre lungo tutta la storia della Chiesa. Difatti richiama la questione delle investiture che ha tormentato i rapporti tra il papa e il sovrano del Sacro Romano Impero nel Medioevo. Negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo, quando la Chiesa cercava un rapporto con la Cina, tale questione era stata affrontata e gestita dalla Associazione patriottica cattolica cinese, cui il presidente/imperatore aveva concesso poteri speciali di autonomia nei rapporti con lo “straniero” (il Vaticano in questo caso), in maniera simile a quello che accadeva nei periodi imperiali. Allora l’autorità suprema dell’Impero del Centro serbava il suo potere complessivo ma concedeva delle enclave religioso-culturali a varie entità di fede. Queste concessioni però avevano creato confusioni profonde nella società e nel sistema cinese, come fu chiaro all’inizio degli anni Duemila. Tutti i vescovi nominati da Pechino avevano chiesto perdono al papa di nascosto dalle autorità della Repubblica Popolare. Dal punto di vista del puro potere Pechino pensava di poter contare su metà dei vescovi come suoi, essendo l’altra metà legata al papa, e di poter trattare con Roma sulla base di tale bipartizione.

Dopo il 2000 Pechino si rese conto che il papa aveva in realtà tutti i vescovi dalla “sua parte”, cioè tutti avevano chiesto di essere riconosciuti dal papa di nascosto da Pechino, sicché non aveva niente su cui trattare. Questo diede inizio a un profondo ripensamento di tutta la questione vaticana da parte della Cina. Le autorità cinesi compresero che il nesso tra vescovi e papa era intoccabile per la Chiesa cattolica. Ciò portò gradualmente Pechino all’ammissione di principio dell’autorità religiosa del papa in Cina.

Ma qui si crea un corto circuito nell’incontro dei poteri del papa e del presidente/imperatore cinese. Se il potere del papa nella Chiesa e sui vescovi è relativamente debole, come abbiamo visto nel primo atto, perché Francesco insiste tanto nel pretendere di nominare i vescovi? E se invece il potere del papa sui vescovi locali è forte, perché non riesce a rimetterli in riga, a imporre la sua linea dialogante con la Cina alle tante frange cattoliche che ogni giorno cercano di sabotarla?

Naturalmente la Cina non pone queste domande in modo diretto. E a questi interrogativi è molto difficile trovare risposte compiute da parte della Chiesa, perché non ricadono entro un ordine politico ma investono aspetti religiosi particolari, che appaiono esoterici alla Cina, estranea alla tradizione cristiana. In mancanza di risposte compiute e comprensibili da parte della Santa Sede su tale questione, Pechino chiede maggiori garanzie amministrative sul suo territorio per la vita della Chiesa. Ma ciò crea problemi e lacerazioni alla Chiesa stessa, per la quale la questione cinese è importante, ma deve essere ricompresa in un contesto molto più ampio.

Ricordando Lutero


Dai cortocircuiti fra politica e religione si passa a questioni che sono principalmente geopolitiche. Mentre nel recente passato i colloqui tra Cina e Santa Sede avvenivano in un’atmosfera relativamente tranquilla sia su scala internazionale che all’interno dei due soggetti, negli ultimi anni la situazione è cambiata. C’è tensione crescente tra America e Cina. Washington e altre capitali del mondo occidentale temono che la normalizzazione dei rapporti tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese sia di ostacolo al confronto duro che stanno perseguendo con Pechino. Allo stesso tempo, oggi gravi questioni morali – dalla comunione ai divorziati al rispetto degli omosessuali – e di autorità stanno lacerando la Chiesa. Le posizioni tradizionali della Chiesa su tali temi appaiono antiquate o incomprensibili alla gran parte delle società occidentali.

Allo stesso tempo, intorno a tali dispute e alle divisioni che provocano al suo interno si gioca l’unità della Chiesa universale. Molti cattolici tradizionalisti o comunque critici di Francesco, che vedono la Cina come un mostro comunista totalitario – specie negli Stati Uniti ma non solo – considerano le aperture del papa incomprensibili e pericolose. E attaccando il papa per le sue relazioni pericolose con Pechino intendono metterne in questione la strategia religiosa e geopolitica, giudicata fallimentare.

Quando nel 1517 Lutero affisse le sue celebri tesi, Roma probabilmente avrebbe potuto riassorbirlo, financo santificarlo come era stato tre secoli prima con san Francesco. Oppure avrebbe potuto semplicemente schiacciarlo o marginalizzarlo, come nel caso dei valdesi, quasi contemporanei di Francesco d’Assisi. Il fatto che Lutero sia diventato il padre della riforma protestante, levatrice della grande spaccatura geopolitica e culturale tra Europa del Nord e del Sud, lo si deve al contesto storico. Alcuni principi tedeschi volevano ottenere autonomia e indipendenza dall’imperatore asburgico. Lutero fornì loro una bandiera e un’ideologia. Senza le ambizioni geopolitiche dei principi tedeschi la Chiesa non si sarebbe spaccata. Qualcosa di simile potrebbe accadere oggi? La Cina potrebbe contribuire a dividere la Chiesa, a produrre un altro scisma? E poi, come tenere insieme una Chiesa nella quale molti fedeli sono ostili a Pechino? E per di più nell’atmosfera di scontro fra impero americano e impero cinese?

Per Pechino l’ideale sarebbe che la Chiesa rimanesse unita e riuscisse a serbare nel suo grembo, sedandone le pulsioni sinofobe, quei fedeli americani e occidentali che parrebbero pronti a sostenere la guerra contro la Cina e non vogliono le riforme del papa. In tal caso la Chiesa di Roma avrebbe un valore per la Repubblica Popolare, che vuole evitare lo scontro con l’Occidente. Se viceversa la Chiesa rompesse sulla Cina, come vorrebbero molti cattolici americani e occidentali, il valore del Vaticano per Xi Jinping scadrebbe alquanto. Quanto a Francesco, teme di trovarsi nella situazione in cui più parla con Pechino più si allontana dall’America.

La questione dell’approccio del Vaticano alla Cina forse può essere affrontata solo in termini geopolitici. Se la Chiesa riesce a farsi ponte tra Cina e Stati Uniti non solo risolve tante sue diatribe interne ma crea uno spazio immenso per il futuro della sua missione evangelizzatrice. Se invece fallisce in questa alta mediazione geopolitica la Chiesa rischia di frantumarsi. O almeno di perdere rilevanza in modo esponenziale.

Il rischio per la Chiesa in Cina è quindi mille volte superiore a quello prodotto dagli scandali sessuali e finanziari che la dilaniano. Ma i vantaggi dell’eventuale intesa con Pechino sono forse tali da indurre Francesco a giocare fino in fondo la partita cinese.


La chiesa in cina (2016)

Numero di cattolici

9-10,5 milioni (stima)

Numero di diocesi

144 (112 diocesi + 31 diversi centri amministrativi)

96 (secondo il governo)

Numero di vescovi

109

Vescovi della chiesa ufficiale

Vescovi della chiesa clandestina

72

37

Numero di sacerdoti

 

Preti della chiesa ufficiale

Preti della chiesa clandestina

2500

1300

Numero di seminari e seminaristi

 

Seminari principali

Seminari minori

Seminari della Chiesa clandestina

9 seminari, con 464 seminaristi

20 seminari, con 300 seminaristi

10 seminari, con 200 seminaristi

Numero di suore (dati del 2015)

 

Suore della Chiesa ufficiale

Suore della Chiesa clandestina

3170 in circa 87 congregazioni

1400 in circa 37 congregazioni

Fonte: Holy Spirit Study Centre

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comprensione del testo

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Cina e Santa Sede, due imperi diversi e simili. Spiega perché. (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


b. La Cina potrebbe contribuire a dividere la Chiesa, a produrre un altro scisma? (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


c. Esplicita il problema dei rapporti fra episcopati locali e Roma. (massimo 10 righe)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Analisi e riassunto

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


 

Francesco e Xi Jinping, l’asimmetrica partita dei due imperatori

Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

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COMMENTO

L’autore propone un parallelismo tra la lotta per le investiture medievale e la diatriba sulle nomine dei vescovi della Curia cinese. Cerca di ricostruire la tesi dell’autore e di contestualizzarla rispetto alle tue conoscenze storiche sui conflitti tra papato e Impero tra l’XI e il XII secolo.

T2

L'etica protestante e la crisi del capitalismo

Paolo Naso, Limes, Alla guerra dell’euro, 2011

L’antico assunto weberiano che vede nel calvinismo il principio della virtù economica appare superato dai fatti. Oggi le locomotive globali esulano dal perimetro storico della Riforma, mentre l’Occidente annaspa nei debiti. Ma Calvino ha ancora qualcosa da dire.

1. Che ne è dell’etica protestante che secondo la celebre analisi di Max Weber avrebbe animato lo spirito del capitalismo e aperto le porte a un moderno pensiero politico ed economico? Ha ancora senso affermare la centralità di quella «ascesi intramondana» tipica del calvinismo, che già alla metà del Seicento seppe fondare quel «possente cosmo dell’economia moderna legata ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica che oggi determina una forza coattiva invincibile […] e forse continuerà a farlo finché non sia bruciato l’ultimo quintale di carbon fossile?»1.

Si potrebbe facilmente obiettare che il carbon fossile ha fatto spazio al petrolio e all’atomo e che il capitalismo del XXI secolo ha una dimensione finanziaria sconosciuta al tempo della materialità produttiva delle prime rivoluzioni industriali. Il paradigma weberiano che stabilisce un legame di necessità tra il capitalismo nascente e l’etica religiosa del calvinismo – in particolare della sua espressione puritana in Olanda, Inghilterra e quindi nelle prime colonie americane – potrebbe andare definitivamente in frantumi.

E con esso buona parte della sociologia religiosa che guarda a Weber ancora con il rispetto che si deve a uno dei padri fondatori della disciplina. Insomma: è davvero esaurita la forza propulsiva della cosiddetta rivoluzione protestante2?

Ben consapevoli dei cento e passa anni che ci separano dall’analisi weberiana, in queste righe proveremo a verificare empiricamente il suo paradigma guardando ai fondamentali economici attuali di alcuni paesi nei quali la tradizione protestante ha avuto particolare fortuna culturale e sociale. Come noto, un tema tipicamente weberiano è quello del Beruf – mestiere, ma anche vocazione che Dio rivolge a ciascun uomo e che dovrebbe costituire la stella polare del cammino di ogni sincero credente.

In questo senso, Beruf non è fede, Chiesa o spazio sacro: nella sua accezione più ampia è piuttosto il senso profondo dell’agire cristiano, ciò che impegna a compiere alcune scelte e a evitarne altre. In opposizione alla tensione extramondana tipica della  teologia medioevale e persino del luteranesimo, il Beruf produce un’ascesi intramondana e sposta l’ambito della vita di fede dal convento alla piazza o, seguendo il nostro filo di riflessione, al mercato.

È questa la drammatica frattura che libera il lavoro materiale da un’antica condanna teologica legata al peccato originale e gli apre nuovi orizzonti di senso. Non a caso, Weber cita il più grande poeta della tradizione puritana, John Milton, che vede Adamo abbandonare il Paradiso “perduto” senza alcuna nostalgia. L’umanità esce dall’Eden forte di un nuovo “sapere” profano che gli apre nuovi orizzonti e che darà senso al suo lavoro: «Meno allor ti dorrai del tuo perduto / Paradiso, ché un altro assai più bello, più felice di questo in te medesmo / ne sorgerà»3.

«Dio vuole che il cristiano operi nella società, poiché vuole che la forma sociale della vita sia ordinata secondo i suoi comandamenti. […] Il lavoro sociale del calvinista nel mondo è esclusivamente “ad maiorem gloriam Dei”»4. In questa prospettiva, il dovere professionale diventa «un’obbligazione morale»5  e «l’ascesi non è più inquadrata nei tre voti monastici. La disciplina del matrimonio e della vita domestica sostituisce il celibato; la povertà cede il posto alla sobrietà e a una gestione dei beni materiali e del denaro indirizzata al risparmio e all’investimento»6.

È facile comprendere come una teologia di questo genere abbia prodotto un’etica coerente, costruita su un’idea positiva del lavoro e quindi del guadagno come “ritorno” della propria azione e come quest’etica abbia modellato una particolare figura di imprenditore rigoroso, sobrio, determinato. Con una forzatura, potremmo affermare che in lui l’impegno per il profitto e la ricerca della salvezza si intrecciavano indissolubilmente, cosicché gli altri potessero dire di lui «God blessed his trade»7.

Non è un caso che uno dei personaggi ai quali Weber dedica più pagine sia Benjamin Franklin, del quale non sappiamo dire se brillassero di più le doti di homo puritanus – per tradizione culturale più che per fede personale, dal momento che si definiva un teista – o quelle di homo americanus, tanto è forte l’intreccio tra la sua cultura religiosa e la sua celebrata virtù civile.

L’impegno patriottico, il successo negli affari, l’intelligenza messa a servizio di invenzioni utili a tutti - dal parafulmine alle lenti bifocali - sono gli elementi essenziali di una personalità che descrive meglio di tante parole cosa intendesse Weber all’inizio del secolo scorso per intreccio tra ethos protestante e spirito del capitalismo. Lo stesso valga per grandi capitalisti come Henry Ford o John D. Rockefeller, che potrebbero aver fatto propria la parola d’ordine di John Wesley, fondatore del metodismo: «Guadagna tutto quello che puoi, risparmia tutto quello che puoi, dona tutto quello che puoi».

2. Oggi, nel mezzo di una grave crisi finanziaria innescata da speculazioni nate proprio dove l’intreccio tra puritanesimo calvinista ed economia degli affari ha prodotto i risultati più solidi, che ne è del paradigma weberiano? Un nodo preliminare di ordine georeligioso consiste nel fatto che nei quasi cent’anni che ci separano dagli scritti weberiani, la dislocazione protestante è sensibilmente mutata.

Tra i 60 paesi al mondo con la più alta concentrazione attuale di credenti protestanti, più di quaranta appartengono all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Chi oggi voglia studiare il nesso tra economia e protestantesimo deve guardare alla Namibia o alla Corea del Sud con la stessa attenzione con cui analizza la Svizzera o la Germania. Anche il protestantesimo, infatti, ha subito un processo di delocalizzazione, che a fronte della crisi indotta dai processi di secolarizzazione nordeuropei gli ha consentito di crescere in alcune aree dell’Asia e in molte dell’Africa8.

Al contrario i grandi flussi migratori – sia quelli della “grande migrazione” transoceanica a cavallo tra Ottocento e Novecento, sia quelli più recenti che hanno investito l’Europa – hanno sensibilmente modificato il profilo religioso di paesi che cinquant’anni fa avremmo definito senz’altro “protestanti”. Se la nazione più protestante del mondo è uno sperduto scoglio del Pacifico – l’isola di Tuvalu, dove i seguaci della Riforma ammontano al 98,4% dei poco più di diecimila abitanti – “resistono” i paesi scandinavi (Danimarca al 91%, Norvegia al 90%, Svezia all’86%, Finlandia all’85%) che però sono anche quelli dove l’identità religiosa è divenuta più cultura che fede.

Nella parte alta della classifica dei paesi “più protestanti” troviamo anche Sudafrica, Guatemala, Ghana e Nigeria. Gli Stati Uniti sono ormai al 20° posto e la Germania addirittura al 29°. D’altra parte, pur se ridimensionata nel suo aspetto quantitativo, la tradizione protestante continua a segnare alcuni aspetti dell’etica civile di molti paesi che hanno subìto processi di secolarizzazione o di pluralizzazione delle appartenenze religiose.

A fianco dei paesi “a maggioranza protestante” è necessario considerare quelli a solida presenza protestante. Limitandoci alle economie più solide – i primi trenta paesi per prodotto interno lordo (pil) - troviamo Canada, Brasile, Francia, Corea del Sud, Olanda, Svizzera, Messico, Indonesia e Australia. Fra i paesi nei quali il protestantesimo è una minoranza e poco ascoltata nel dibattito pubblico, troviamo il Belgio, la Spagna, l’Italia e la Turchia9 .

I paesi a maggioranza protestante continuano a essere quelli in cui il reddito pro capite medio supera i 40 000 dollari l’anno, fatta eccezione per i due estremi opposti: Norvegia (oltre 84 000 dollari) e Sudafrica (poco più di 6000 dollari).

Un po’ meno prevedibile il dato relativo al pil assoluto. Se i paesi “protestanti” mantengono infatti un solido primato, con una media di oltre 3500 miliardi di dollari (dai 14 500 degli Stati Uniti ai 363 del Sudafrica), i paesi “a solida presenza protestante” sono superati da quelli dove il protestantesimo ha un peso scarso o nullo: in primo luogo Giappone e Cina (con un pil di oltre 5000 miliardi di dollari), ma anche Russia, Italia, Spagna, India, Turchia, Iran. Se il petrolio può spiegare che l’economia saudita abbia oggi un peso specifico analogo a quello del Belgio e superiore a quello austriaco, è un dato incontrovertibile che il capitalismo oggi cresca anche in assenza dell’etica calvinista.

3. L’ipotesi che il paradigma weberiano, per alcuni aspetti ancora realistico e funzionale, vada perdendo la sua vitalità è ben confermata dal grafico 3, che illustra il tasso annuale di crescita del pil in rapporto all’incidenza del protestantesimo. L’inclinazione è esattamente opposta a quella del grafico 1, icona del passato e forse del presente, ma difficilmente del futuro. Di più: dei sei paesi che crescono più rapidamente e in cui cultura ed etica protestanti hanno peso scarso o nullo, solo uno è a maggioranza cristiana, l’Argentina.

Gli altri – India, Cina, Taiwan, Thailandia e Turchia – vedono prevalere altre culture. Qualcosa che nulla ha a che fare con l’etica protestante muove lo spirito del capitalismo di questi paesi. Con buona pace di Calvino e di Weber.

Quest’ultimo poneva alla base dello spirito capitalistico poche e chiare regole: «Ricordati che il tempo è denaro»; «Ricordati che il credito è denaro»; «Ricordati che il denaro è per sua natura fecondo e produttivo»; «Ricordati che chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno»10. Il protestantesimo, soprattutto nella sua versione calvinista, inverte una certa tradizione teologica pauperistica che respingeva il denaro

come tentazione maligna per porre il lavoro – e quindi il denaro da esso prodotto – sotto l’ombrello della grazia che Dio concede agli uomini.

Lavorare e guadagnare non è più un peccato, lo è semmai sperperare il frutto delle proprie fatiche o utilizzarlo per finalità vane e incoerenti con la glorificazione di Dio. Spirito capitalistico ed etica protestante sono quindi alla base di un atteggiamento rigoroso nei confronti degli affari e del denaro che implicano rispetto, responsabilità e professionalità.

Lavorare, vivere all’altezza delle proprie possibilità senza eccessi, non contrarre debiti e rispettare i tempi di restituzione dei prestiti costituiscono tratti fondamentali del paradigma attribuito da Weber al capitalista protestante che vive il suo momentum tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Oggi quest’etica virtuosa del capitalismo segnato dalla tradizione protestante appartiene a un passato ormai remoto. I paesi a maggioranza protestante non appaiono più virtuosi di quelli che hanno vissuto altre vicende culturali e religiose.

I paesi più ricchi sono anche quelli più indebitati rispetto alla loro ricchezza e, tra questi, quelli protestanti non fanno eccezione. Se tra le prime trenta economie del mondo sono due paesi non protestanti – Giappone e Italia – a detenere il primato del debito pubblico in rapporto al pil, in Germania tale rapporto supera l’80%. Escludendo l’“anomalia” giapponese, peraltro, la terza colonna si abbassa di molto, evidenziando come i paesi protestanti (che coincidono in buona parte con le economie più sviluppate) sono quelli più indebitati, mentre quelli in cui il protestantesimo ha avuto minore incidenza appaiono i più virtuosi.

4. Un capitolo importante dell’etica economica individuale è quello del risparmio. Purtroppo non sono disponibili dati omogenei sul risparmio individuale; possiamo però provare a calcolare la percentuale di risparmio sul pil. Anche in questo caso il dato (grafico 4) rafforza l’idea che la convinzione weberiana secondo cui l’etica protestante fonda comportamenti economici e finanziari virtuosi sia ormai acqua passata. I paesi che risparmiano di più sono infatti quelli in cui il protestantesimo ha meno influenza, mentre quelli intrisi della tradizione di Lutero e Calvino risultano i meno risparmiosi.

Di fronte alla crisi in atto e, più in generale, all’attuale ciclo dell’economia capitalistica, la “cassetta degli attrezzi” della tradizione protestante non sembra dunque offrire strumenti particolarmente efficaci. Il volano culturale delle economie più dinamiche è un altro.

C’è però un dato in controtendenza, che potrebbe aprire un diverso filone di analisi. Un filone meno centrato sull’economia e più sulla società e la politica: è l’indice di sviluppo umano elaborato dalle Nazioni Unite, che misurando la qualità della vita e la tutela di diritti fondamentali, intende offrire un parametro di sviluppo meno economicistico di quelli tradizionali.

In questa particolare classifica, primeggia un paese protestante come la Norvegia e si piazzano bene anche gli Stati Uniti (quarto posto), la Germania e la Svezia (nono e decimo). L’etica calvinista non sembra poter fare molto per le economie in crisi del capitalismo occidentale, ma forse ha ancora qualcosa da dire sul piano della coesione civile e della vita democratica.

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COMPRENSIONE DEL TESTO

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Qual è la tesi weberiana richiamata dall’autore dell’articolo? (massimo 10 righe)












b. Commenta il grafico 3 e spiega come mai la tesi weberiana fa difficoltà a spiegare alcuni fenomeni della contemporaneità. (massimo 10 righe)












c. Che cosa dimostra l’indice di sviluppo umano e in che senso è definito un dato in controtendenza rispetto agli altri presentati? (massimo 10 righe)











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ANALISI E RIASSUNTO

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


  L'etica protestante e la crisi del capitalismo
Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

COMMENTO

Quali connessioni esistono, nella nostra contemporaneità, tra morale religiosa ed etica del lavoro? Puoi fare riferimento alla tua esperienza personale, di studente, chiedendoti se hai mai associato i tuoi obblighi verso la scuola a un obbligo superiore, di carattere religioso o morale.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715