19.1 Lo splendore degli imperi asiatici

Per riprendere il filo…

Tra il XIV e il XV secolo il desiderio di esplorare nuove terre e la necessità di aprire nuove vie di commercio aveva spinto alcuni Stati europei a destinare risorse a nuovi viaggi oceanici, con lo scopo, in particolare, di raggiungere l’Oriente via mare. La spedizione di Colombo aveva condotto alla scoperta di un continente ignoto agli europei, aprendo una fase completamente nuova del commercio internazionale e, più in generale, dei rapporti fra i continenti. Il Cinquecento vide infatti affermarsi pienamente il colonialismo, un’imponente forma di sfruttamento del Nuovo Mondo a opera di Spagna e Portogallo. 

In Europa, nel frattempo, fra conflitti religiosi, politici e dinastici, erano proseguiti i processi di consolidamento dei grandi apparati statali. Ma anche l’Asia aveva conosciuto la fioritura di grandi imperi, che sarebbero presto entrati in relazione con l’Occidente.

19.1 Lo splendore degli imperi asiatici

La Cina dei Ming

Nel Seicento la Cina era un impero di oltre 150 milioni di persone (contro un’Europa che ne contava fra i 100 e i 110) esteso all’incirca da Canton, a sud, a Pechino, a nord, e, verso l’interno, fino al Tibet e alla Mongolia [ 1]. L’unità politica di una compagine statale tanto vasta era garantita dalla figura dell’imperatore, considerato l’intermediario fra la terra e il cielo: egli era definito “figlio del Cielo”, e il suo dominio terreno “regno di mezzo”.

Il potere imperiale, nella prima metà del secolo nelle mani della dinastia Ming (1368-1644), era legittimato sul piano filosofico dal confucianesimo, la dottrina che prendeva nome da Confucio (Kong Fuzi, latinizzato in Confucius dal gesuita Matteo Ricci), un pensatore vissuto tra il VI e il V secolo a.C. Considerato una filosofia più che una religione, il confucianesimo dava priorità ai legami familiari e sociali che si creano nella sfera terrena piuttosto che alla proiezione delle aspettative umane in un mondo ideale o trascendente e prescriveva rispetto e obbedienza al fine di assicurare che le relazioni umane fossero improntate alla giustizia e all’armonia.

L’agricoltura era fiorente soprattutto nelle regioni meridionali, dove si producevano grandi quantità di riso, tè e cotone, e altrettanto rilevante era l’artigianato, soprattutto nei settori della fusione del ferro, della tessitura e della manifattura di porcellane [ 2].

Il territorio era diviso in 15 province, dove agivano burocrati imperiali ben istruiti e scelti per le loro competenze amministrative attraverso un rigoroso esame pubblico. Nonostante gli avanzati criteri di selezione, tuttavia, essi non erano immuni dalla corruzione e talvolta abusavano del loro potere a danno dei ceti produttivi, soprattutto dei contadini, sfiancati dal prelievo fiscale. Fu proprio questo sistema – unito alla difficoltà di difendere i confini e di contenere i contrasti interni – a far vacillare, alla metà del secolo, il potere della dinastia Ming.

L'avventura dei Qing

Dalle difficoltà dei Ming trassero vantaggio le tribù della Manciuria, stanziate oltre i confini settentrionali, che approfittarono di una ribellione interna all’impero e, dopo avere oltrepassato con facilità il confine fortificato dalla Grande muraglia [▶ luoghi], conquistarono la capitale Pechino nel1644. L’imperatore Chongzhen, assediato dai nemici, fu costretto a suicidarsi e al suo posto si insediò la nuova dinastia dei Qing, destinata a mantenere il potere fino al1911 (quando la Cina sarebbe diventata una repubblica). Nonostante questo lunghissimo regno, in virtù delle loro origini manciù i Qing furono a lungo identificati come un gruppo “altro”rispetto a un’identità cinese intesa in senso proprio.

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Il nuovo corso non bastò a risolvere i problemi di salvaguardia dell’unità interna. Le aree meridionali furono affidate al governo dei capi militari che avevano aiutato i Qing nella conquista, ma presto molti di loro mirarono a instaurare governi autonomi. Fu l’imperatore Kangxi (1661-1722) a ristabilire l’ordine. Il suo lunghissimo regno, in buona parte contemporaneo a quello del Re Sole in Francia, fu segnato sul piano interno da un forte accentramento del potere, tanto che alcuni missionari europei, dopo averlo incontrato di persona, portarono i loro racconti alla corte di Luigi XIV, che rimase profondamente impressionato dall’immagine di potere e regalità offerta dalla suprema autorità cinese, arrivando ad additarla come modello per il suo stesso regno [ 3].

L’impero era minacciato anche da nemici esterni. La capitale Pechino divenne, a tutti gli effetti, una finestra sulla frontiera settentrionale del paese, oltre la quale si estendeva la Siberia conquistata proprio in questi anni dalla Russia. Molte apprensioni erano causate inoltre dai movimenti delle popolazioni nomadi dell’Asia centrale, provenienti dalla Mongolia, dal Turkestan e dal Tibet. I Qing, essi stessi espressione di un popolo straniero che era riuscito a dominare la Cina, reagirono attuando una politica di migrazione forzata verso queste aree situate nel cuore del continente. Pascoli e foreste furono trasformati in coltivazioni, mentre il controllo del territorio fu affidato a una rete di funzionari sostenuti da guarnigioni militari.

  luoghi

Il confine settentrionale cinese e la Grande muraglia

La Grande muraglia è una struttura fortificata lunga all’incirca 6000 km. Situata nella Cina nordorientale, aveva lo scopo di difendere lo Stato dalle invasioni. Si estendeva dalla costa, a nordest di Pechino, fino al passo di Jiayuguan, nell’odierna provincia di Gansu, in direzione nordovest.

Il nucleo originario della costruzione risale al primo imperatore della dinastia Qin, Shi Huangdi (221-210 a.C.). Gli ultimi significativi lavori di rafforzamento, che conferirono all’opera la fisionomia attuale, furono invece commissionati dalla dinastia Ming.

Sul piano pratico, l’efficacia militare della fortificazione fu limitata. Se i piccoli gruppi di incursori si trovarono in difficoltà nel superarla, i mongoli nel XIII secolo e i mancesi nel XVII riuscirono a farlo senza grossi problemi. Bisogna inoltre considerare che i confini stessi dell’impero oltrepassarono in più tratti la muraglia, ridimensionandone di fatto l’importanza.         

I segni di crisi

Nel corso del XVIII secolo, esauritasi la spinta assolutistica dell’imperatore Kangxi, lo Stato cinese mostrò evidenti segni di indebolimento. La politica estera diventò sempre più esitante e l’espansione commerciale si arrestò. L’agricoltura e l’industria manifatturiera furono frenate da una scarsa propensione all’innovazione e da una sempre minore capacità di reggere la concorrenza internazionale: la produzione rimaneva infatti legata alle prestazioni di una manodopera che doveva accontentarsi di compensi bassissimi. Ad approfittare della crisi furono gli inglesi, che si mostrarono sempre più intraprendenti in questo immenso mercato puntando al commercio dell’oppio, un narcotico da fumare che provoca una forte dipendenza. In tal modo riuscirono a compensare gli squilibri derivanti dalla massiccia importazione di , che imponeva il trasferimento di grandi quantità di argento dalla Gran Bretagna alla Cina.

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Il Giappone nell’era Tokugawa

In età moderna, le isole nipponiche erano formalmente sottoposte a un’autorità imperiale, considerata di stirpe divina, ma il potere reale era esercitato dallo shōgun: nato come incarico militare temporaneo, lo shōgunato aveva finito per assumere un ruolo guida nell’amministrazione dello Stato, divenendo ereditario tra esponenti di casate prestigiose. Nel XVI secolo il potere dei funzionari centrali venne gravemente minato dall’ascesa dei daimyō, signori locali proprietari di terre che diedero vita a veri e propri domini regionali. Le prerogative dei daimyō erano molteplici, ma particolarmente rilevante era la loro capacità di essere “signori della guerra”, garantendo l’impiego di cospicue forze militari, in caso di bisogno, contro nemici interni o esterni. Erano inoltre governatori dei loro territori, all’interno dei quali godevano di un ampio ventaglio di autonomie.

Il potere dei daimyō era solido anche grazie alla forza militare dei guerrieri loro fedeli, i samurai, membri dell’aristocrazia che si esercitavano anche nell’uso della scrittura e si distinguevano per il servizio prestato ai loro signori. La loro fedeltà, tuttavia, non era sempre garantita. Quando veniva a mancare il loro punto di riferimento (per morte o per altre circostanze legate alla perdita di potere e prestigio), i samurai diventavano figure senza vincoli (rōnin) e si abbandonavano ad azioni poco edificanti, come saccheggi e violenze [▶ idee]. All’inizio del XVII secolo lo shōgunato passò alla famiglia Tokugawa, che rafforzò il controllo centrale a scapito dei poteri territoriali, anche se rimase una certa frammentazione politica [ 4]. Sotto il loro governo, che durò oltre due secoli e mezzo, la capitale fu trasferita da Kyoto a Edo (l’odierna Tokyo), che arrivò a superare abbondantemente il mezzo milione di abitanti.

Il Giappone aveva sempre avuto solidi legami con la cultura e l’economia della terraferma asiatica, ma sotto i Tokugawa i contatti con l’esterno furono drasticamente limitati: si giunse in questo periodo all’espulsione (e all’uccisione) dei missionari e alla chiusura dei porti ai mercanti stranieri, con qualche eccezione per olandesi e cinesi, ai quali comunque erano consentiti solo accessi molto limitati. Il mercato interno, del resto, era abbastanza largo da stimolare le attività produttive, consentendo un florido commercio e il mantenimento di colture specializzate che arricchivano i proprietari delle tenute più vaste. L’agricoltura era infatti vitale, al punto di riuscire a creare profitti derivanti dalla vendita di cotone, canapa, canna da zucchero, ortaggi e tè.

Un problema consistente era rappresentato dalle aristocrazie, che esercitavano un potere ancora forte e chiedevano alle ricche borghesie grossi crediti per mantenere uno stile di vita alto. I loro sprechi stridevano fortemente con i sacrifici delle masse contadine, costrette a vivere in povertà. Fu proprio la paralisi di queste ultime a creare un arresto della crescita demografica, con conseguenze negative su tutto il sistema economico.

   idee

È mai esistito un Medioevo giapponese?

Analogie...

Gli studiosi occidentali hanno spesso descritto la società giapponese usando categorie interpretative proprie del mondo europeo. Alcune analogie sono in effetti innegabili, anche se rimangono frutto di semplificazioni che non sempre trovano riscontro nella realtà storica: la tendenza al particolarismo territoriale, la difficoltà di identificare un potere centrale unico, il sistema delle dipendenze personali fra signori e sottoposti. Tutti questi elementi hanno spinto molti a parlare indistintamente di un “Medioevo giapponese”, quasi come se l’universo nipponico fosse comprensibile solo attraverso le lenti della nostra storia.

... e differenze

In realtà, le dinamiche di quel mondo rimangono specifiche e di certo non descrivibili in maniera esaustiva con assimilazioni arbitrarie. Il rapporto che legava i samurai ai loro signori, per esempio, non è equiparabile a quello fra signore e vassallo del contesto europeo: nel vecchio continente i vincoli di fedeltà erano di natura diversa, come pure la concezione del potere, legata alla cultura cristiana e incline a considerare la gerarchia terrena come uno specchio di quella celeste. Il contesto giapponese era invece impregnato di dottrine confuciane che, pur concentrandosi sulla morale e sulla politica, erano segnate da un chiaro disinteresse per la metafisica e per l’ultraterreno in generale.

Il Medioevo europeo fu dunque radicalmente diverso da epoche della storia giapponese definite spesso nello stesso modo. Il Giappone e l’Europa – pur essendo legati da numerose connessioni promosse da mercanti, missionari e viaggiatori – rimasero in questi secoli due universi distanti e dotati di loro specificità.

La Persia safavide

Contrastanti processi di rafforzamento delle strutture statali e di aumento del particolarismo territoriale riguardarono anche parti dell’Asia centrale più vicine all’Europa. All’inizio del XVI secolo la dinastia safavide impose sulla Persia un dominio che durò per oltre due secoli. Sotto la loro guida lo Stato si estese dall’India all’attuale Iraq, strappato all’Impero ottomano, e alle regioni del Caucaso [ 5]. La frontiera politica e geografica corrispondeva anche a una frontiera religiosa, tra l’islam sunnita e quello sciita, fede imposta nel regno safavide anche attraverso la forza.

Il culmine fu raggiunto sotto lo ▶ scià Abbas il Grande (1571-1629), che affermò la presenza di uno Stato centrale forte piegando la resistenza dei gruppi guidati dai capi militari territoriali (kizil-bash), reprimendo le ribellioni interne e creando un esercito permanente. Ciò nonostante, i Safavidi faticavano a dominare un impero che, diversamente da quello cinese o giapponese, era abitato da popolazioni molto diverse per lingua, religione, modi di produzione e stili di vita. Nel corso del XVII secolo questo complesso organismo cominciò a mostrare segni di debolezza, soprattutto per la difficoltà di difendere i confini, minacciati a ovest dall’Impero ottomano, a nord dalla Russia, a nordest dagli uzbechi e dall’India musulmana dei moghul. I successori di Abbas furono incapaci di preservare la struttura creata nei decenni precedenti e subirono le ingerenze dei capi religiosi conservatori (ulema).

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Il paese si chiuse alle influenze culturali esterne e il potere centrale cominciò a ricorrere alla violenza per combattere il dissenso delle minoranze religiose. La capitale Isfahan fu posta sotto assedio nel 1722 dai pashtun Ghilzai, popolazione proveniente dall’Afghanistan orientale. Era la fine del potere safavide e l’inizio di un processo che avrebbe condotto qualche decennio più tardi (1747) alla nascita di un vero e proprio Stato afghano.

L'India e le sue religioni

La millenaria civiltà indiana si era plasmata sui caratteri della religione induista, che prescriveva il rispetto delle tradizioni e dell’ordine sociale vigente, organizzato secondo una rigida divisione in caste. Mentre il buddhismo era praticamente scomparso verso il XIII secolo, le successive invasioni di popoli islamizzati avevano creato estesi Stati musulmani nel Nord del subcontinente [▶ cap. 3.1], radicandosi anche tra i nativi. Nonostante le enormi e inconciliabili differenze, le due religioni riuscirono a convivere anche perché l’islam pur diffondendosi restò sempre una minoranza, mentre la grande massa della popolazione rimase fedele all’induismo. La presenza musulmana era comunque percepita come un fattore estraneo allo spirito di una società fortemente chiusa e legata alle proprie tradizioni.

Agli inizi dell’età moderna, infine, mercanti e missionari europei introdussero nel paese il cristianesimo, che però non riuscì a incidere in maniera significativa.

L’Impero islamico dei moghul

Il progetto di ricostruire un grande impero asiatico fu ripreso da un condottiero militare di stirpe turco-mongola, Babur (1483-1530), diretto discendente di Tamerlano [▶ cap. 7.2]. Babur in un primo momento si affermò sull’area dell’attuale Afghanistan, formando un principato con Kabul come capitale, quindi in pochi decenni riuscì a estendere il suo dominio ai sultanati dell’India settentrionale (1526) [ 6]. Il complesso organismo politico originato dalla conquista si richiamava apertamente al mito di Gengiz Khan, tanto da prendere il nome di Impero moghul (“mongolo”, in persiano), e sotto Akbar il Grande (1556-1605) si era ormai esteso a tutto il Nord del subcontinente. In questo periodo si costituì una solida organizzazione statale, basata su una burocrazia ben radicata sul territorio e composta da funzionari di religione musulmana, ma anche sulla venerazione del monarca. Il potere centrale raggiunse il suo apogeo sotto il lungo regno di Aurangzeb (1658-1707), che riuscì a unificare quasi tutta la penisola e a intensificare il controllo sulla società.

Da un punto di vista economico, il sistema agricolo indiano non era particolarmente produttivo, rimanendo fondato su villaggi che vivevano di autoconsumo. Più dinamico era l’artigianato, con la produzione di stoffe pregiate che attiravano l’attenzione dei mercanti occidentali e trovavano sbocco nei porti europei. Aurangzeb diede un forte impulso all’economia investendo ricchezze pubbliche, incentivando attività produttive e di conseguenza accumulando nuove risorse da redistribuire, soprattutto nel settore militare: in sintonia con le origini etniche e culturali dei moghul, radicate nei khanati mongoli-timuridi delle steppe dell’Asia centrale, l’organizzazione militare aveva un’assoluta centralità nel sistema sociale e politico.

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Come si è detto, i moghul erano riusciti a creare una rete amministrativa molto articolata anche grazie al ruolo della religione, con il reclutamento di funzionari devoti ai sovrani perché legati alla stessa fede. Verso le altre religioni era stata osservata una certa tolleranza, ma nella seconda metà del Seicento con Aurangzeb la componente islamica acquisì un’importanza sempre maggiore all’interno dello Stato, arrivando a imporre la shari’a – la legge dettata, secondo i musulmani, direttamente da Allah – a tutti i territori sottoposti alla giurisdizione imperiale. Gli sforzi di trovare una convivenza fra le pratiche indù e quelle musulmane non ebbero fortuna e il potere centrale finì per affermare una linea intransigente, avvalendosi di religiosi e teologi che imponevano conversioni forzate ai non musulmani. La repressione religiosa innescò numerose rivolte, specialmente nei principati indù del Centro e nei regni del Nord; le continue lotte, insieme alla riottosità della nobiltà locale, finirono per indebolire l’impero, che infatti dopo la morte di Aurangzeb andò incontro a un rapido declino.

I contrasti con la Persia, le invasioni e la frammentazione

Durante il regno di Muhammad Shah (1719-48), l’arresto dell’espansione territoriale fu accompagnato dall’insorgere di guerre civili, che condussero l’intera area in una spirale negativa. Gli scontri con la Persia e le invasioni di gruppi provenienti dall’area afghana diedero il colpo di grazia a un apparato statale che era ormai in preda all’insorgere di poteri locali, difficili da ridurre all’obbedienza. L’economia conservò tuttavia un suo dinamismo fino all’ultimo quarto del Settecento: come in Cina, poteva infatti sfruttare una numerosa forza lavoro a basso costo che produceva beni alimentari, cotone, tessili, acciaio e ceramiche.

La debolezza dovuta alla frammentazione politica era comunque evidente e lasciò grossi margini di manovra agli europei, detentori di sfere di influenza sempre più ampie all’interno della società indiana. Furono in particolare gli operatori inglesi a intensificare l’azione speculativa, aumentando i profitti ai danni di comunità locali che venivano logorate da pesanti impegni lavorativi senza essere adeguatamente ricompensate.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715