14.1 La Chiesa e la convocazione del Concilio di Trento

Per riprendere il filo…

L’affermazione della Riforma protestante determinò un radicale cambiamento del quadro politico e religioso del continente europeo. La crisi toccò da vicino anche le gerarchie ecclesiastiche romane, che cominciarono ad accogliere alcune istanze di rinnovamento e valutarono l’ipotesi di un’apertura alla nuova confessione luterana, cercando con essa dei punti di contatto. I tentativi, tuttavia, non ebbero successo e l’impossibilità di sanare la frattura divenne presto evidente. 

L’idea di una cristianità ormai divisa contribuì al tramonto del progetto universale di Carlo V, che cercando di accreditarsi come autorità morale dell’Impero e pacificatore dei conflitti interni si era fatto garante dell’ortodossia cristiana e fautore della concordia dei principi cristiani.

14.1 La Chiesa e la convocazione del Concilio di Trento

La crisi religiosa, la crisi politica, il ruolo del pontefice

La Chiesa di Roma aveva cominciato a riflettere sulla propria organizzazione interna già prima della crisi provocata dalla diffusione del messaggio luterano [ 1]. Nel 1513 i religiosi veneziani Pietro Querini e Paolo Giustiniani avevano inviato un lungo memoriale a papa Leone X (1513-21) nella speranza di poter incidere sulle decisioni che si stavano prendendo nel V Concilio ecumenico lateranense (1512-17).

Il documento non produsse alcun effetto concreto, ma testimoniò la presenza di posizioni intransigenti negli apparati clericali: suggeriva infatti di porre un freno alla selva di ordini e congregazioni religiose nate nei secoli precedenti, ma anche di inasprire le misure contro gli ebrei che rifiutavano di convertirsi, contro le pratiche devote non obbedienti alle liturgie ufficiali e contro la lettura di libri contenenti dottrine eterodosse.

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Il ruolo politico della Chiesa era in questi anni oggetto di importanti trasformazioni. L’indebolimento degli Stati italiani, ormai del tutto esposti alle mire egemoniche delle grandi monarchie europee, aveva messo in evidenza l’importanza strategica del papato, che sempre più trascurava i propri compiti spirituali per dedicarsi alla difesa e al consolidamento del potere temporale. Importanti personalità della politica e della cultura, come Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini [▶ cap. 12.1], avevano rivolto decise critiche verso questo orientamento del papato, raccogliendo il favore di filosofi, teologi e sacerdoti, che cominciarono da parte loro a maturare esigenze di cambiamento e a cercare di costruire intorno a queste un consenso più ampio. Le loro voci, tuttavia, rimasero in gran parte inascoltate, anche per la mancanza dei necessari appoggi politici: le famiglie dominanti contavano infatti un alto numero di rappresentanti ai vertici delle gerarchie clericali e i poteri secolari della penisola confermarono, sia pure in diversa misura, il loro sostegno a Roma.

Gli Stati italiani e le idee luterane

Alcuni centri come Milano, Venezia, Modena, Ferrara, Lucca si mostrarono aperti alle novità d’Oltralpe. A Napoli si formò un folto gruppo di nobili, sacerdoti e funzionari intorno al teologo spagnolo Juan de Valdés (1500 ca.-42), che seguendo la strada tracciata da Erasmo predicava un cristianesimo meditativo e libero dalle ritualità imposte dalle convenzioni [ 2]. In sintonia con un libretto – uscito anonimo e di incerta attribuzione – intitolato Beneficio di Cristo (1543), molto diffuso e apprezzato in quegli anni in Italia e in Europa, de Valdés arrivò a differenziare il suo pensiero da quello di Erasmo, facendo propria l’idea della giustificazione per sola fede [▶ cap. 13.2], sottraendo così al clero buona parte delle sue funzioni di mediazione fra il fedele e Dio.

La diffusione delle suggestioni luterane e calviniste si rivelò comunque difficile nel contesto italiano, dove furono invece le correnti più moderate degli ambienti riformatori ad avere reali opportunità di introdurre dei cambiamenti: le loro posizioni dottrinali erano infatti molto duttili e i loro progetti non rappresentavano una minaccia per gli equilibri politici esistenti. Ciò nonostante, il collegio cardinalizio non mostrò alcun interesse ad accogliere tentativi di conciliazione con le istanze riformatrici e, pur essendo diviso fra molteplici posizioni, conservò una maggioranza intransigente, che mise all’angolo le voci dissonanti.

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La guerra al dissenso e il silenzio volontario
 All’inizio degli anni Quaranta le posizioni della Chiesa romana si erano ormai irrigidite nella difesa dell’ortodossia dottrinale, chiudendo di fatto a ogni possibilità di sviluppo delle istanze di riforma e i poteri secolari seguirono le indicazioni della Chiesa di Roma impegnandosi nella repressione dei fermenti protestanti [▶ protagonisti]. I valdesiani (i seguaci di de Valdés) furono costretti a riabbracciare l’ortodossia o ad abbandonare l’Italia; intellettuali come Pietro Paolo Vergerio, Pietro Martire Vermigli e Bernardino Ochino dovettero riparare in Svizzera. Molti altri pensatori di fede protestante preferirono coltivare in silenzio i loro sentimenti religiosi, per non incorrere in censure ufficiali. Il loro atteggiamento fu definito “nicodemismo”, con richiamo a un personaggio evangelico, Nicodemo, che si recava solo di notte da Gesù per non dichiararsi pubblicamente suo seguace.

L’abitudine a celare il dissenso nel segreto delle coscienze individuali favorì il raggiungimento, da parte del potere pontificio, dell’obiettivo di ottenere obbedienza e rispetto delle proprie disposizioni dalla maggioranza delle popolazioni degli Stati italiani. L’atmosfera si inasprì ulteriormente negli anni Cinquanta, quando numerosi credenti in odore di protestantesimo lasciarono la penisola per propria scelta o ne furono allontanati con la forza. I pochi che non vollero piegarsi e continuarono a divulgare messaggi giudicati fuori dall’ortodossia finirono per pagare un prezzo altissimo: il vescovo Vittore Soranzo fu processato nel 1557 e condannato in contumacia, mentre il ▶ protonotario apostolico Pietro Carnesecchi fu condannato e giustiziato nel 1567 a Roma, nei pressi di Castel Sant’Angelo.

  protagonisti

Il cardinal Carafa e la chiusura al dialogo

Gian Piero Carafa (1479-1559), futuro papa Paolo IV, fu una figura chiave nel definire l’atteggiamento della Chiesa di fronte alle sfide riformiste. Proveniva da una famiglia dell’alta nobiltà napoletana e, pur essendo inizialmente su posizioni favorevoli a una riforma della Chiesa, fu indotto dalla gravità della crisi luterana a scegliere la difesa dell’ortodossia e del primato pontificio.

Carafa divenne cardinale nel 1536 e ben presto entrò in rotta di collisione con un altro nobile prelato, il veneziano Gasparo Contarini. Questi infatti tentò nel 1541 la strada del dialogo con i teologi della Riforma, promuovendo i colloqui di Ratisbona (che si rivelarono fallimentari), mentre Carafa agì diversamente, facendo pressioni su Paolo III per l’istituzione della Congregazione del Sant’Uffizio, che divenne uno dei principali centri propulsori del potere della Chiesa di Roma.

Dopo la morte di Paolo III (1549), Carafa forzò gli esiti del conclave bloccando la candidatura del cardinale riformatore inglese Reginald Pole e continuò a vincolare l’operato del nuovo papa Giulio III (1550-55) utilizzando i fascicoli processuali segreti a cui aveva accesso facendo leva sul suo ruolo di inquisitore.

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Il concilio fra Chiesa e poteri secolari

A seguito della diffusione delle tesi di Lutero, l’imperatore Carlo V aveva più volte caldeggiato l’apertura di un nuovo concilio, che discutesse a fondo alcuni cardini dottrinali della fede cristiana e ripensasse il funzionamento del corpo ecclesiastico. La Santa Sede aveva invece manifestato dubbi sull’opportunità di un’iniziativa del genere, temendo di veder messo in discussione il suo primato e di assistere all’affermarsi di posizioni conciliariste  [▶ cap. 6.4]. Inoltre le guerre fra l’Impero e la Francia  [▶ cap. 12] erano state causa di ulteriori rinvii, dal momento che al concilio avrebbero dovuto partecipare anche prelati provenienti dalle zone interessate dai combattimenti.

Un problema rilevante riguardava inoltre il luogo destinato a ospitare le sessioni. La scelta di Roma avrebbe reso manifesta la volontà del papa di esercitare un controllo sui lavori, mentre uno spostamento nell’area tedesca poteva essere interpretato come una resa alla tutela imperiale e alle richieste del fronte protestante. La soluzione di compromesso fu Trento, principato ecclesiastico appartenente all’Impero ma di cultura e lingua italiane.

Convocato da Paolo III Farnese (1534-49) per il 1° novembre del 1542, il concilio si aprì effettivamente solo nel 1545, mostrando subito evidenti squilibri nella composizione dell’assemblea: la maggioranza dei 25 vescovi presenti era infatti composta da italiani. Tra interruzioni, pause e spostamenti di sede l’attività del Concilio ▶ tridentino proseguì per quasi un ventennio, fino al 1563, risentendo della successione dei diversi papi e dunque del mutare degli orientamenti della Chiesa, come anche dei cambiamenti in corso nella politica europea.

La Francia era sempre più dilaniata dalle divisioni religiose interne e l’Impero che era stato di Carlo V andava consolidando la sua separazione in due tronconi: da un lato il fratello, Ferdinando I, si affermò come imperatore tedesco; dall’altro il figlio, Filippo II, assunse la corona di Spagna, mantenendo l’egemonia nella penisola italiana e cercando di organizzare al meglio il controllo dei vasti domini coloniali. Nell’ultima fase del concilio, fra il 1562 e il 1563, i partecipanti arrivarono a essere ben 255, sempre con una larga maggioranza italiana che, per forza di cose, sosteneva le posizioni del “proprio” sovrano Filippo II.

14.2 Il concilio: l’ortodossia, il clero e la società cristiana

La dottrina e la disciplina

Sul piano dottrinale, l’assemblea tridentina si preoccupò di rovesciare tutti i pilastri del pensiero luterano, riaffermando in primo luogo il valore delle opere ai fini della salvezza eterna: l’individuo poteva determinare il proprio destino ultraterreno attraverso una buona condotta e il rispetto delle prescrizioni ecclesiastiche, praticando i sacramenti (tutti riconfermati, contro le obiezioni del mondo protestante), offrendo la propria devozione alla Vergine Maria e ai santi, affidandosi all’assistenza dei sacerdoti, considerati gli unici mediatori fra Dio e i fedeli e interpreti privilegiati del testo biblico, che non doveva circolare in lingua volgare. Le decisioni furono pubblicate in una serie di documenti: la Professio Fidei Tridentina (“Professione di fede tridentina”) del 1564, il Catechismo del 1566 e i Decreti, che riportavano i nuovi ▶ canoni sui punti fondamentali della dottrina e le nuove disposizioni in materia di vita religiosa  [▶ FONTI].

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715