12.1 Il rafforzamento degli apparati statali

Per riprendere il filo…

La fine del XV secolo fu segnata dall’apertura di nuove vie di navigazione oceanica, dal declino del Mediterraneo come centro dei traffici, dalla diffusione della cultura umanistica, dall’acuirsi delle tensioni religiose. Questi fenomeni si accompagnarono alle trasformazioni delle grandi monarchie, come la Francia e la Spagna, che mentre all’interno dei propri confini cercavano di arginare i particolarismi e i privilegi territoriali, nel panorama continentale si impegnarono a rafforzare la loro posizione attraverso un massiccio impegno bellico contro i nemici esterni. Se il mondo tedesco poteva contare sulla parziale protezione garantita dal potere imperiale, non si può dire lo stesso per le piccole compagini territoriali italiane che, pur godendo di un periodo di pace, erano controllate da famiglie aristocratiche incapaci di accumulare le risorse economiche necessarie per organizzare buoni eserciti e apparivano sempre più deboli di fronte a grandi casati come quelli degli Asburgo o dei Valois.

12.1 Il rafforzamento degli apparati statali

Centralismi e particolarismi

Secondo le interpretazioni più largamente condivise dagli studiosi, la storia politica europea del XV e del XVI secolo fu segnata da un processo di graduale rafforzamento dei poteri monarchici, pur all’interno di dinamiche complesse e differenziate sul piano geografico [ 1]. Il consolidamento del potere centrale, riscontrato in particolare in grandi Stati come la Francia, la Spagna e l’Inghilterra, riguardò da un lato la definizione delle prerogative del sovrano, la sua indipendenza giuridica da altre fonti di potere, il monopolio dell’uso della forza; dall’altro lato la costruzione di un’autorità forte sul piano simbolico, capace di imporre il rispetto della legge, ma anche di trasmettere ai sudditi un comune senso di appartenenza.

Le tendenze centralistiche faticarono per lungo tempo a imporsi, dovendo confrontarsi con la persistente presenza di poteri particolaristici. Le aristocrazie, le comunità cittadine e rurali, i detentori di poteri signorili, gli ecclesiastici continuavano a esercitare forme di intervento sul corpo sociale, facendo leva in prevalenza su rapporti personali. Di fronte a forti spinte centrifughe, risultava oltremodo difficile affermare un sistema giudiziario, burocratico e fiscale omogeneo. Le frequenti controversie, che generavano conflitti fra individui e gruppi, venivano risolte sulla base di accordi privati, senza il ricorso a regole valide per tutti. Le corti o le assemblee territoriali tendevano a prendere decisioni indipendenti dalle direttive centrali, contribuendo a fare in modo che individui e famiglie percepissero come distante il potere del sovrano.

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Le reti clientelari rimanevano molto forti ed erano spesso soggetti privilegiati – appartenenti per lo più a casati influenti – a garantire protezione ai loro sottoposti sulla base di alleanze “verticali” o “trasversali”. Sarebbe infatti un errore considerare la nobiltà, il clero, i mercanti o i lavoratori della terra come soggetti collettivi omogenei e solidali al loro interno: è certamente più opportuno pensare a corpi diversificati, le cui singole componenti si legavano ad altri attori di diversa condizione sociale, andando a formare consorterie o fazioni radicate sul piano territoriale. Raramente era il censo a stimolare la formazione e il consolidamento di reti di mutuo sostegno: la fedeltà, l’onore e la nascita valevano spesso più delle ricchezze. Per questa ragione, gli storici preferiscono descrivere la società europea dei secoli XVI, XVII e XVIII distinguendo con attenzione fra il concetto di ceto (fondato soprattutto sui privilegi del sangue) e quello di classe (incentrato sulla condizione economica) [▶ fenomeni].

  fenomeni

Società di ceti e società di classi

Nelle società di antico regime, le espressioni più usate per identificare gruppi sociali erano “ceto” e “stato”. L’idea di fondo era che i ruoli sociali fossero preordinati, senza la possibilità di effettive trasformazioni nel corso del tempo. I nobili erano tali per nascita e, in virtù dei loro privilegi, monopolizzavano l’accesso alle alte sfere della gerarchia clericale, essendo gli unici a poter usufruire di un’istruzione adeguata. La parte restante della popolazione rientrava nella variegata categoria dei lavoratori, che comprendeva contadini, artigiani, mercanti. Chi accumulava le ricchezze necessarie poteva comprare titoli aristocratici messi in vendita dai poteri monarchici per fare cassa, ma le nobiltà prive di antichi lignaggi e di recente formazione erano comunque guardate con disprezzo o diffidenza.
Il concetto di “classe”, pur essendo già in uso nel Settecento, si consolidò solo nel secolo successivo, quando – dopo le grosse trasformazioni intervenute con la rivoluzione industriale – le differenze fra i singoli componenti del corpo sociale si andarono a definire in base alla posizione economica e al ruolo che essi occupavano nel processo produttivo. Quando si parla di “classe” si privilegiano quindi i ruoli professionali, gli stili di vita, i modelli di investimento, di scambio e di consumo.

Il consolidamento dell’apparato amministrativo

Oltre a regolare i feudi e le giurisdizioni locali, i governi si impegnarono nella riorganizzazione dei sistemi fiscali e nello sviluppo di organi di mediazione estranei a logiche territoriali e dotati di compiti burocratici, nei quali la struttura contava più delle singole personalità coinvolte. Per superare forme di esercizio del potere basate su arbitri e interessi personali, si affermò – sia pure in maniera discontinua e non senza generare controversie – il concetto di “ufficio”: a contare non doveva più essere l’autorità dell’individuo che deteneva l’incarico, quanto la carica in sé, coperta per conto di uno Stato inteso come ente astratto e identificabile solo nella figura del re.

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I funzionari impiegati in queste strutture erano tenuti a possedere competenze ben definite, acquisite anche attraverso una formazione universitaria. In tal modo, anche soggetti benestanti che non appartenevano per nascita al ceto aristocratico potevano accedere ai gradini più alti dell’amministrazione pubblica, guadagnando un prestigio sociale fino a quel momento loro precluso. Con il loro contributo, i monarchi cercarono di svincolarsi dai rapporti privati e dalle pratiche consuetudinarie che li legavano ai casati aristocratici. Al contempo, tesero a dotarsi di rappresentanze diplomatiche ugualmente provviste di una preparazione specifica, in modo da rendere percepibile anche all’esterno dei loro confini la presenza di un potere unico e non frammentato [ 2].

In questa fase gli Stati accrebbero le loro prerogative tenendo conto solo parzialmente delle identità nazionali, intese come insiemi dei fattori che legano tra loro i membri di una collettività: tradizioni storiche, linguistiche, culturali, religiose. La Spagna, per esempio, si configurava come una compagine multietnica nella quale convivevano realtà differenti e disarticolate, ciclicamente protagoniste di situazioni conflittuali. Non è un caso se uno dei nodi centrali della gestione del potere in età moderna fu proprio la possibilità di conservare l’unità politica in territori le cui popolazioni rimanevano divise sul piano linguistico e religioso e prive di un sistema di valori condivisi.

Furono proprio questi fenomeni a stimolare la riflessione di giuristi, letterati e teologi sull’organizzazione della vita pubblica e sulla natura stessa del potere, sulla funzione della religione nella politica, sul ruolo del sovrano e sugli eventuali limiti da imporre alla sua azione, specialmente nel rapporto con i ceti eminenti e i sudditi. Il contesto degli Stati italiani – colpiti, come vedremo più avanti, da una violenta crisi politica e sociale – si rivelò particolarmente fertile nell’elaborazione di nuove idee, soprattutto grazie alle opere di pensatori come Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Francesco Guicciardini (1483-1540), che si interrogarono su temi cruciali quali la conservazione e stabilizzazione dello Stato, la difesa della comune prosperità, il discernimento del giusto dall’ingiusto, il rispetto delle leggi umane e divine [▶ idee, p. 378].

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  idee

La nascita dello Stato moderno

Nel corso dell’Ottocento gli studiosi di diritto pubblico e di scienza politica rintracciarono nei processi di razionalizzazione in ambito politico e amministrativo messi in atto dai regni europei nel XV e XVI secolo l’origine della formazione dello Stato moderno. Con questa espressione indicavano un modello di organizzazione finalizzato al controllo dei comportamenti individuali e all’af­fermazione di un’entità governativa centrale capace di affermare le sue prerogative a scapito di altri gruppi di influenza e centri di potere esistenti su un determinato territorio. Ancora oggi gli storici continuano a mostrare divergenze intorno all’idea di Stato moderno: i modelli di sviluppo all’interno del contesto europeo, infatti, non furono affatto univoci, così come non è chiaro se questo concetto possa essere impiegato per definire forme politiche diverse esistenti in altre aree del globo.

La forza e il potere per Machiavelli

Uno degli stimoli principali al rafforzamento del potere del sovrano fu certamente la guerra: per affrontare i nemici esterni furono assemblati eserciti permanenti e organizzati, solidi apparati burocratici capaci di raccogliere le risorse necessarie allo sforzo bellico, senza dimenticare le corti di giustizia e i corpi diplomatici. Questi sforzi furono accompagnati e sostenuti anche da elaborazioni teoriche, come quella di Niccolò Machiavelli (1469-1527) che sottolineò – in opere come Il principe (1513) – la necessità di separare l’ambito della politica da quello della morale e della religione: i detentori del potere, secondo lui, dovevano ricorrere a tutti i mezzi necessari per garantire il benessere e l’integrità dello Stato, senza inseguire astratti precetti morali. Chi conquistava o esercitava il potere non poteva trasformare gli uomini in creature buone, ma era chiamato a domare la loro natura, incline al­l’inganno e alla salvaguardia di interessi particolari ed egoistici.

Le riflessioni di Guicciardini

Diverso, ma altrettanto rilevante, il pensiero di Francesco Gucciardini (1483-1540), che rifiutava la possibilità di offrire ai governanti regole precise, affidandosi invece alla loro capacità di distinguere nello specifico le situazioni che di volta in volta si presentavano ai loro occhi, trovando opportune soluzioni, stringendo patti e alleanze, accettando compromessi. Nella Storia d’Italia – scritta fra il 1537 e il 1540, ma pubblicata solo un ventennio più tardi – il pensatore sottopose ad analisi le sue stesse esperienze politiche alla luce degli eventi che avevano interessato la penisola dopo il 1492: guardò con molta attenzione ai personaggi più importanti che avevano segnato quegli anni (come per esempio Rodrigo e Cesare Borgia), offrendone dei veri e propri “ritratti”, ma giunse alla conclusione che non esistevano modelli interpretativi utili a prevedere o gestire le azioni degli uomini.

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La guerra dei cavalieri, la guerra degli eserciti

Un’altra significativa novità riguardò la creazione di eserciti permanenti alle dipendenze del sovrano, fenomeno che stimolò a sua volta il rafforzamento degli apparati statali e si accompagnò a una trasformazione del modo di fare la guerra. Le fanterie e le artiglierie diventarono decisive nei conflitti, permettendo ai sovrani – almeno a quelli che erano in grado di concentrare nelle loro mani grandi risorse finanziarie per garantire la paga ai soldati – di emanciparsi dal supporto della nobiltà cavalleresca, tradizionale nerbo degli eserciti medievali. Un ruolo importante sui campi di battaglia fu inoltre giocato dai grandi corpi di mercenari, soldati di professione che combattevano non per spirito di servizio nei confronti del sovrano o per senso appartenenza a uno Stato, ma unicamente per ricevere un compenso. Grazie all’apporto dei mercenari e all’arruolamento di soldati di estrazione popolare (dunque non professionisti) si arrivò a costituire eserciti di massa, guidati però sempre da ufficiali di estrazione nobiliare.

Sul piano propriamente militare, la cavalleria di età medievale risultava ormai inefficace contro una fanteria organizzata e disposta in quadrati compatti e conservava un ruolo importante solo come arma ausiliaria, per le rapide scorrerie nel campo nemico o per l’inseguimento dei soldati in fuga. Le sciabole e le armi da fuoco sostituirono gradualmente le pesanti armature di ferro e le lance [ 3]. Si trattò di trasformazioni che riflettevano ed erano allo stesso tempo causa di un profondo cambiamento culturale e sociale. Difficilmente un cavaliere avrebbe potuto accettare l’uso di un’arma che consentiva di colpire da lontano il nemico: poiché lo scontro doveva essere una dimostrazione di coraggio, oltre che di abilità tecnica, un tale gesto sarebbe stato considerato espressione di viltà. Le figure dei guerrieri medievali tendevano così a essere relegate nell’ambito della letteratura, che le trasfigurava in personaggi leggendari, animati da sentimenti di fedeltà verso il signore e dalla necessità di salvaguardare l’onore sul campo di battaglia. Il trauma culturale generato dalle nuove pratiche belliche è ben testimoniato dai poemi epico-cavallereschi prodotti all’ombra delle corti italiane [ 4], centri all’avanguardia sul piano della promozione delle arti e delle lettere ma ormai incapaci, sul piano militare, di reggere la concorrenza delle potenti corone del continente.

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Un periodo di grandi cambiamenti

Questi processi si verificarono nel quadro di altre profonde trasformazioni che interessarono il continente europeo fra il XV e il XVI secolo.

  • L’allargamento degli orizzonti geografici. L’azione di sovrani disposti a investire il denaro derivante da un più organizzato sistema di prelievo fiscale costituì un fattore di stimolo per la scoperta e la conquista di nuove terre [▶ cap. 11].
  • Le fratture del panorama religioso, e in particolare la Riforma protestante che studieremo nel prossimo capitolo. L’inasprirsi dei conflitti religiosi spinse infatti i grandi monarchi e i principi territoriali a sviluppare nuovi strumenti di controllo volti a garantire l’unità culturale e confessionale del corpo dei sudditi.
  • L’affermazione di nuove idee nell’ambito della cultura. Un’innovazione tecnologica come l’introduzione della stampa a caratteri mobili [▶ cap. 10] aumentò in modo considerevole lo scambio di notizie e la riorganizzazione dei saperi, ma anche la diffusione di inquietudini legate alla fede e al rapporto con l’autorità.

Il rafforzamento degli apparati burocratico-amministrativi e diplomatici, infine, trovò un valido appoggio nella crescita di ceti istruiti e dotati di dimestichezza con la scrittura, capaci di produrre nuovi linguaggi specialistici e promuovere scambi interculturali che favorivano la circolazione delle idee.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715