7.2 I mongoli in Cina e in Persia

7.2 I mongoli in Cina e in Persia

Kubilai Khan e la Cina Yuan

Nonostante alcuni anni di contrasti interni, Kubilai era riuscito nel 1258 ad allestire una grande spedizione contro l’Impero Song, che controllava un’ampia area tra Cina meridionale e Tibet. La caduta di Hangzhou, nel 1276, costituì un evento epocale per la storia dell’Asia: per la prima volta tutto il territorio cinese era nelle mani dei mongoli, che tuttavia da anni elaboravano una complessa sintesi tra elementi culturali tradizionali dei popoli delle steppe con le grandi religioni cristiana, musulmana e buddhista e con l’altissima cultura giuridica e istituzionale degli imperi sedentari. La politica di Kubilai è particolarmente significativa in questo senso: già nel 1267 aveva ordinato la costruzione di una nuova capitale, Ta-tu o, in mongolo, Khanbaliq (“La città del khan”), sul sito dell’attuale Pechino, per sostituire la lontana Karakorum, mentre eresse a propria capitale estiva Kaiping, ribattezzata Shangdu (“Capitale superiore”), a nord della Grande muraglia; istituì un’accademia storica, cui commissionò la redazione della storia ufficiale delle dinastie precedenti, cui si affiancarono accademie letterarie e scientifiche in cui dominava il sapere matematico e astronomico arabo-persiano; assunse per l’impero il nome dinastico cinese di Yuan (“Origine”).

La Cina Yuan fu caratterizzata dal tentativo di affermare la supremazia della minoranza mongola attraverso il mantenimento e il controllo di molte delle sofisticate istituzioni ereditate dalle dominazioni precedenti, mentre si affermava un principio di personalità del diritto per il quale ogni gruppo etnico seguiva un proprio ordinamento giuridico. La grande forza della Cina risiedeva nell’agricoltura, che caratterizzava in particolare il Sud-est, e nell’ordinato sistema burocratico e finanziario: i mongoli ne mutuarono i principi e inserirono il paese in uno spazio economico e commerciale intercontinentale (percorso anche dagli europei [▶ fenomeni, p. 234]), garantendo comunicazioni terrestri, fluviali e navali efficienti e facilitando gli scambi grazie all’istituzione di un sistema monetario prevalentemente cartaceo.

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La Cina Ming

Specialmente nelle campagne, il crescente sviluppo di sentimenti ostili ai mongoli contribuì alla nascita di sette ribelli, che animarono alcune rivolte. All’interno di queste sette, intorno alla metà del XIV secolo, si trovò a operare Zhu Yuanzhang, monaco buddhista di origine contadina [ 6]. Dopo aver stabilito la propria supremazia su altre formazioni politiche cinesi nel Sud e nel Centro del paese, costrinse l’imperatore Yuan ad abbandonare prima Pechino e poi Shangdu. Nel 1368 Zhu si proclamò imperatore e fondò una nuova dinastia imperiale con il nome di Ming (“Luce”).

Riforme sociali ed economiche di ampia portata, seppure in un clima di repressione e stretto controllo sui funzionari dell’amministrazione da parte del sovrano, permisero all’Impero Ming di raggiungere l’apogeo del suo splendore con l’ascesa al trono nel 1403 di Yongle. All’interno di un nuovo piano di espansione territoriale e commerciale verso la Mongolia, l’Asia centrale, il Tibet e l’India e scelta definitivamente come capitale Pechino  [ 7], fu concepito uno dei più grandi progetti di esplorazione della storia: sette spedizioni marittime, guidate dall’ammiraglio Zheng He (1371-1434), che impegnarono centinaia di navi e migliaia di uomini di equipaggio in viaggi diplomatici verso Vietnam, Giava, India, Sri Lanka, Thailandia, Africa orientale  [ 8]. Una dimostrazione di potenza navale e di capacità tecnologica e cantieristica che tuttavia non ebbe seguito: alla morte di Zheng He l’impero rinunciò a impegnarsi direttamente nel commercio e a imporre una propria supremazia marittima, ma mercanti e compagnie continuarono a operare sul piano privato. Sete, porcellane, tè, libri, strumenti musicali raggiungevano i porti asiatici o percorrevano le strade terrestri nel cuore del continente, ripagati con oro, argento, rame, pellicce, pepe, perle, nonché spezie, erbe e resine impiegate nella medicina cinese e nella produzione di incenso destinato ai templi buddhisti.

Alla morte del successore di Yongle, Xuande, nel 1435, l’impero attraversò un lungo periodo di debolezza, di chiusura e di ripiegamento: l’abbandono del controllo marittimo consentì un rapido sviluppo della pirateria e l’ingresso nei mari dell’Asia orientale delle flotte europee; d’altro canto, l’emergere di nuove forti formazioni politiche mongole costrinse l’impero ad arretrare le proprie difese a sud della Grande muraglia. La seconda metà del XV e tutto il XVI secolo furono periodi di progressivo declino della struttura statale, aggravato dall’emergere di gruppi di potere autonomi rispetto a quello imperiale.

I mongoli in Persia

 In Persia i mongoli avevano dato vita a un’organizzazione statale accentrata e debitrice in gran parte dei modelli politico-culturali affermatisi in epoca selgiuchide, favorendo i commerci con il mondo cinese e rendendo così estremamente vitale dal punto di vista economico quei territori che conosciamo come “via della seta”: tra le merci di maggior pregio vi erano sete, broccati d’oro, pellicce – impiegati nell’abbigliamento dei nobili mongoli e nell’arredamento delle loro tende – e porcellane, decorate con pigmenti blu ricavati dal cobalto iraniano. Queste stesse merci, insieme con carta e spezie, facevano la fortuna anche dei mercanti occidentali, in particolare veneziani e genovesi, che attraverso i porti del Mediterraneo orientale e del Mar Nero diffondevano questi beni nell’Europa occidentale [ 9].

L’élite militare turco-mongola in Persia si era islamizzata rapidamente e traeva la propria legittimazione a governare tanto dalle tradizioni mongole quanto dalla letteratura persiana. Opere storiografiche di grande respiro culturale furono redatte a questo scopo: la più grande di queste, il Compendio delle storie di Rashid ad-Din, pubblicata nel 1318, abbracciava in un’unica prospettiva la storia cinese, indiana, europea, mongola e islamica. Come gli altri conquistatori turchi, i mongoli dimostrarono gusto e perizia tecnica nella realizzazione di opere architettoniche, di pitture e manoscritti.

  fenomeni

Lo sguardo occidentale sui mongoli

L’avanzata mongola in Russia e in Europa orientale negli anni Trenta e Quaranta del XIII secolo fu percepita come un pericolo mortale. Già nel 1237 un frate domenicano, Giuliano, che si trovava negli Urali per una missione evangelizzatrice, metteva in guardia il legato papale in Ungheria dalla ferocia e dalla potenza delle armate mongole. Le loro caratteristiche esotiche e “barbariche” indussero i cristiani a pensare che si trattasse delle genti di Gog e Magog, misteriose popolazioni rinchiuse, secondo la tradizione biblica, da un’enorme muraglia fatta erigere da Alessandro Magno e che l’Anticristo avrebbe radunato per la battaglia finale: il nome stesso con cui queste genti venivano chiamate, tartari, evocava il Tartaro, l’inferno della mitologia classica.

Missionari, mercanti e viaggiatori

L’improvvisa ritirata dovuta alla morte di Ogodei (1241) consentì alle corti europee e alla Chiesa di elaborare una strategia di maggiore conoscenza del nemico, magari con la possibilità di evangelizzarlo e usarlo come alleato contro le potenze musulmane.

L’Oriente fantastico di tante leggende, tra cui quella del Prete Gianni, sovrano cristiano che dalle sue ricchissime terre sarebbe giunto in aiuto della cristianità in pericolo, il luogo in cui si diceva si trovasse l’Eden, il Paradiso terrestre, ma anche terre popolate da uomini deformi e animali sconosciuti e mostruosi: questo immenso territorio mitico e pressoché sconosciuto iniziò a essere esplorato e attraversato da mercanti e viaggiatori. Tra le prime missioni, la più nota è quella del francescano Giovanni di Pian del Carpine che, partito nel 1245 e raggiunta Karakorum, tornò nel 1247 con una minacciosa lettera da parte del nuovo khan, Güyüg, che intimava al papa e ai principi della cristianità di sottomettersi al suo potere. Stessi risultati ebbe una nuova importante missione, ispirata da Luigi IX di Francia e compiuta tra il 1253 e il 1255 da un francescano fiammingo, Guglielmo di Rubruk, presso il gran khan Mongke. La sua relazione di viaggio è ricchissima di aspetti diplomatici ed economici e narra di come la rude civiltà nomade e pastorale mongola si stesse modificando al contatto con le raffinate culture persiana e cinese.

Marco Polo e Kubilai Khan

Nel contesto di questo complesso ambito culturale, in cui un ruolo di rilievo è occupato dal cristianesimo nestoriano, si inserirono le missioni mercantili, tra le quali famosissima è quella dei fratelli veneziani Niccolò e Matteo Po­lo, e poi del figlio di Niccolò, Mar­co (1254-1324), che racconta di avere conosciuto Kubilai Khan e di essere addirittura entrato al suo servizio. L’affascinante resoconto di questo viaggio durato oltre vent’anni, tra il 1271 e il 1295, noto come Milione (o, in francese, Devisement du monde), fu redatto dal pisano Rustichello, compagno di prigionia di Marco a Genova sul finire del XIII secolo, ed è una delle opere più celebri della letteratura di viaggio di tutti i tempi.

Il bilancio di un secolo di contatti

Altre missioni francescane, come quelle di Giovanni di Montecorvino (1294 e 1308), Odorico da Pordenone (1325-28) e Giovanni de’ Marignolli (1342), riuscirono a fondare un episcopato cattolico a Khanbaliq e a Zayton, in Cina meridionale, che però non sopravvisse molto oltre la metà del Trecento: l’affermazione della dinastia Ming, ostile al cristianesimo diffusosi negli anni di Kubilai, aveva spostato gli assi dei propri interessi verso l’Oriente e le vie di comunicazione verso Occidente divennero molto più insicure.

Insieme con una rinnovata visione del mondo e una maggiore conoscenza dell’universo mongolo e cinese, missionari, mercanti e viaggiatori occidentali riporta­rono innovazioni che avrebbero avu­to un’enorme fortuna: armi da fuoco e polvere da sparo, cartamoneta, seta, tessuti stampati, xilografia, nuove tecnologie in campo metallurgico e idraulico.

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Tamerlano

Il regime il-khanide durò sino al 1335 quando, per mancanza di un unico erede, si frammentò in piccoli potentati locali. Questi furono poi ricompresi in un nuovo impero, fondato da Timur (1370-1405), detto Timur-e Lang (“Timur lo Zoppo”, da cui il Tamerlano delle fonti occidentali). Nato in un villaggio a un centinaio di chilometri a sud di Samarcanda, fu a lungo impegnato nei conflitti che opponevano vari capi nel Khanato Chaghatai, per poi essere proclamato unico khan di Transoxiana nel 1370. Sebbene si sentisse pienamente erede di Genghiz Khan, di cui aveva sposato una discendente, egli preferì fregiarsi del titolo arabo di amir kabir (“grande emiro”): sostenne infatti con vigore la religione islamica, professandosi un ghazi (“guerriero per la fede”), e si guadagnò così il favore delle élite musulmane di Samarcanda, scelta come capitale.

Rafforzato in questo modo il proprio controllo territoriale, intraprese una serie di straordinarie conquiste in Persia, India settentrionale, Anatolia, Siria, Russia meridionale [ 10]. Fu un grande stratega, capace di sbaragliare eserciti molto più numerosi dei suoi, ma ebbe anche fama di spietato repressore di ogni dissenso. Le monarchie cristiane europee guardarono con favore l’espansione di Tamerlano: da un lato, speravano in una nuova epoca di pace sotto un unico dominatore asiatico che garantisse sicurezza ai commerci tra Mediterraneo e Asia centrale; dall’altro, speravano che le sue armate sopraffacessero quelle dei turchi Ottomani, che già circondavano Costantinopoli e che nel 1396 avevano battuto a Nicopoli un esercito occidentale. Nel 1402 Tamerlano sconfisse e imprigionò il sultano ottomano, Bayezid I, e sembrò quello il momento in cui la cristianità orientale sarebbe stata definitivamente liberata dalla minaccia ottomana.

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Tuttavia Tamerlano, ormai settantenne, morì nel 1405, marciando contro la Cina dei Ming: le speranze occidentali furono deluse e il suo impero si divise. Una parte andò a suo nipote, che prese il titolo di Ulugh beg (“Grande signore”). Sotto il suo regno fu terminata la costruzione del Mausoleo di Tamerlano, il Gur-i Amir [ 11], e fu favorita una ricca vita culturale: numerosi edifici a Samarcanda, Herat e Balkh testimoniano un grande fervore scientifico, che si espresse soprattutto in campo matematico e astronomico. Un discendente di Tamerlano, conosciuto come Babur (“leopardo”, “pantera”), ai primi del XVI secolo fondò invece un potente impero in India, detto “moghul” proprio dall’origine mongola dei conquistatori.

7.3 Il tardo Impero bizantino e la fondazione dell’Impero ottomano

La fine dell’Impero latino d’Oriente

L’Impero latino d’Oriente, nato in seguito alla quarta crociata  [▶ cap. 6.1], era una formazione politica molto debole: all’interno la sua coesione era minata da ducati e principati personali, di fatto autonomi (Regno di Tessalonica, ducati di Acaia e Atene); all’esterno era minacciato dagli imperi di Nicea e Trebisonda e dal Despotato d’Epiro, controllati dalle famiglie bizantine dei Lascaris e dei Comneni, che puntavano al recupero di Costantinopoli; un’ulteriore minaccia era poi rappresentata dalla potenza bulgara. Abbandonato anche dagli occidentali, lo Stato cadde nel 1261, quando il sovrano di Nicea, Michele VIII Paleologo, riconquistò Costantinopoli costringendo all’esilio l’ultimo imperatore latino, Baldovino II [ 12].

Con la dinastia dei Paleologhi, la più longeva sul trono imperiale, l’Impero bizantino visse un momento di grande splendore culturale. Le opere cardine dell’aristotelismo latino furono tradotte in greco, per ispirazione del patriarca Gennadio II Scolario (1405-73), entrando nel dibattito filosofico bizantino e scontrandosi con una forte tradizione platonica, sostenuta invece dal filosofo Giorgio Gemisto Pletone (1355/60-1452 ca.).

A questo fervore culturale non corrispondeva una realtà politico-sociale salda. I contrasti tra potenti famiglie di proprietari terrieri, la cui egemonia sociale non poteva essere limitata dall’imperatore, e le masse popolari impoverite da un’eccessiva pressione fiscale e da un’economia in crisi producevano uno stato di tensione permanente.

Alla metà del XIV secolo la situazione politica della capitale fu scossa da una guerra civile tra fazioni aristocratiche, che avevano nel comandante militare Giovanni Cantacuzeno il proprio punto di riferimento, e il governatore di Costantinopoli Alessio Apocauco, sostenuto invece dai ceti mercantili e dai marinai della flotta imperiale. La rivolta dei sostenitori di Apocauco, detti zeloti, contro Cantacuzeno, autoproclamatosi imperatore con il nome di Giovanni V (1347-54), ebbe il suo centro a Tessalonica, la più grande città bizantina dopo Costantinopoli, e si connotò per caratteri fortemente antiaristocratici; tuttavia, il sopravvento di una fazione moderata tra i ribelli favorì nel 1350 la ripresa del controllo imperiale in città.

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Le tensioni tra ricchi e poveri nella società bizantina, che avevano animato la guerra civile, sono descritte, sul piano letterario, dal Dialogo dei ricchi e dei poveri, un’illuminante operetta di un filosofo e uomo politico bizantino, Alessio Macrembolite, che rifuggiva la violenza zelota e teorizzava una collaborazione tra ceti e la costituzione di una rete di protezione che evitasse degenerazioni esplosive per il corpo sociale dell’impero. Si trattava, appunto, di elaborazioni teoriche non infrequenti tra gli intellettuali bizantini, ma del tutto inefficaci sulla vita quotidiana: incombeva ormai alle porte di Costantinopoli una nuova potenza, quella dei turchi ottomani.

Le origini dell’Impero ottomano

Il disfacimento delle potenze selgiuchidi dinanzi all’invasione mongola causò la migrazione di alcune popolazioni turche all’estremità nordoccidentale della penisola anatolica, a stretto contatto con quanto rimaneva dell’Impero bizantino. Qui si affermò la dinastia degli Ottomani, così chiamata dal suo capostipite, Othman I (1259 ca.-1326); la loro prima grande conquista fu realizzata nel 1326 dal figlio Orhan, che si impadronì di Prusa (Bursa, a sud del Mar di Marmara) e ne fece la propria capitale, conquistando poi nel giro di pochi anni Nicea e Nicomedia.

Gli Ottomani proseguirono da qui le proprie azioni militari in Asia Minore e nella penisola balcanica, che presto caddero sotto il loro controllo: nel 1389 Murad I sconfisse i serbi nella decisiva battaglia di Kosovo Polje (“il campo dei merli”), pur perdendovi la vita, mentre già dal 1361 Adrianopoli (l’odierna Edirne), sul suolo europeo, aveva sostituito Bursa come capitale [ 13]. Costantinopoli era stata sostanzialmente aggirata e il suo destino era segnato: nel 1396 a Nicopoli un esercito composto da ungheresi, valacchi, Cavalieri teutonici e giovanniti fu sbaragliato dal sultano Bayezid I.

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La caduta di Costantinopoli

Nel 1402 l’Impero bizantino era ridotto alla capitale, ai suoi immediati sobborghi e alla parte centromeridionale del Peloponneso. Venezia si trovò a dover difendere l’Adriatico e cercò di presidiare le città costiere dell’Epiro, Durazzo e Valona, e le isole nell’Egeo. Le trattative di Costantinopoli per ricevere aiuti dall’Europa, favorite almeno temporaneamente dalle difficoltà ottomane con Tamerlano, ebbero scarsi risultati. Già nel 1369 un viaggio dell’imperatore Giovanni V a Roma, e a Venezia l’anno successivo, non aveva sortito alcun effetto: anzi aveva destato scandalo sul piano interno la sua conversione al cattolicesimo, fortemente avversata dalle gerarchie ortodosse.

Allo stesso modo, a nulla valsero i tentativi diplomatici dell’imperatore Manuele II, che tra il 1399 e il 1403 viaggiò in Europa e promosse l’unione delle due Chiese presso il papa. Imperatore intellettuale, autore di trattati politici e teologici di rilievo, Manuele tentò un’ultima difesa dell’impero costruendo una grande linea fortificata sull’ist­mo di Corinto, per proteggere il Peloponneso da attacchi turchi, ma ormai la situazione era disperata. La potenza ottomana, ristabilita dopo la morte di Tamerlano, si era infatti consolidata con i sultani Mehemet (Maometto) I (1413-21) e Murad II (1421-51): a nulla erano valsi i tentativi di difendere grandi città, come Tessalonica (recuperata con altri territori nel 1403 grazie a un trattato), che cadde nel 1430, o di sconfiggere in campo aperto gli eserciti turchi, vittoriosi sia a Varna che in Kosovo.

Nel frattempo, alla morte di Manuele nel 1425, il successore Giovanni VIII tentò ancora una volta di assicurarsi l’appoggio occidentale. Nel 1438 giunse a Ferrara, dove si teneva un concilio per discutere delle condizioni dell’entrata della Chiesa ortodossa in quella cattolica romana, unione che fu formalmente proclamata nel 1439, ma che non ebbe alcun effetto pratico. Il 29 maggio del 1453, il sultano Maometto II (1451-81), dopo due mesi d’assedio, scatenò l’attacco generale contro Costantinopoli. Con la difesa eroica dell’ultimo imperatore, Costantino XI, finiva dopo un millennio l’Impero bizantino [ 14].

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L’espansione dell’Impero ottomano

Il nuovo impero fondò la propria azione politica e amministrativa ispirandosi a principi di accentramento del potere e di lenta e progressiva islamizzazione delle popolazioni con cui i conquistatori entravano via via in contatto: più intensa nelle regioni anatoliche e nelle regioni sudorientali della penisola balcanica (Tracia, Macedonia, Bulgaria meridionale), più debole e più contrastata dalla presenza cristiano-ortodossa in quelle occidentali e meridionali (Bosnia, Albania, Serbia, Peloponneso). Alcuni possedimenti o Stati autonomi cristiani conservarono la loro autonomia pagando tributi, come la Morea (Peloponneso), l’isola di Chio, il Ducato di Nasso nell’Egeo, l’Impero greco di Trebisonda, la Repubblica di Ragusa sull’Adriatico, mentre la Grecia, la Bosnia, l’Erzegovina e la Serbia, nonostante la strenua resistenza, caddero in mano ottomana entro la fine del XV secolo. Anche Venezia e Genova subirono alcune perdite territoriali: Trebisonda e le colonie genovesi in Crimea caddero in mano ottomana tra il 1461 e il 1475, mentre i veneziani persero Lesbo (Mitilene) e l’Eubea (Negroponte), conservando però le basi di Corone, Modone, Monembasía e Lepanto. Il khan della Crimea diventò vassallo del sultano e fu suo valido sostegno nella politica verso l’Europa centrorientale: qui l’Ungheria riuscì a mantenersi indipendente, fermando gli Ottomani in Transilvania, mente Valacchia e Moldavia mantennero la propria autonomia diventando tributari dell’impero. L’Albania resistette per molti anni con l’aiuto di Venezia e per l’abilità militare di Giorgio Castriota Skanderbeg (1403-68), ma alla sua morte diventò quasi per intero possedimento ottomano.

Padroni di Valona, dalle coste albanesi gli ottomani attaccarono Otranto nel 1480 uccidendone centinaia di abitanti, determinati a non arrendersi. La presenza turca in Italia durò un anno, tra 1480 e 1481, e terminò per gli effetti delle discordie tra i figli di Maometto II e per l’iniziativa militare della corona aragonese di Napoli, che intraprese un ampio programma di fortificazione delle città e delle coste dell’Italia meridionale.

Dopo Maometto II, i successori Bayezid II, Selim I e Solimano I furono impegnati per circa un secolo in Siria, Arabia, Egitto e Africa settentrionale, conseguendo risultati anche nel consolidamento della frontiera orientale verso la Persia.

7.4 L’Africa subsahariana

Le società africane

Abbiamo già visto come nel corso del X secolo l’istituzione califfale abbaside fosse andata incontro a processi di frammentazione [▶ cap. 3.1]. Sebbene formalmente la umma, la comunità islamica dei credenti, fosse concepita in modo unitario, la realtà storicamente realizzata fu molto più complessa, al punto che è più opportuno parlare di società islamiche, al plurale, piuttosto che di un’unica società. La stessa cosa vale anche in Africa: se è vero che le istituzioni nordafricane avevano forti tratti in comune con quelle del Vicino Oriente, è altrettanto vero che le società africane a sud del Sahara, dell’area sudanese o della costa swahili (corrispondenti agli attuali Kenya e Tanzania) svilupparono esperienze politiche dai tratti molto originali.

L’Africa centroccidentale

Nell’area geografica compresa tra la foce del Senegal e il Mar Rosso e tra i corsi dei fiumi Zambesi e Lipompo esistevano già, sul finire del X secolo, formazioni statali complesse di tipo monarchico e con ampi insediamenti urbani. Nell’intera zona, definita in arabo bilad al-Sudan (“terra dei neri”) dai viaggiatori e mercanti musulmani, il controllo delle vie carovaniere tra Atlantico e Mediterraneo, con gli scambi tra i prodotti delle foreste pluviali (oro, avorio, pelli, compresi gli schiavi) e quelli dell’Africa centrale e mediterranea (sale, tessuti e manufatti) era sempre stato di grande importanza strategica e aveva consentito l’affermazione di vasti imperi e regni tra il corso del Niger e l’Atlantico, come quelli del Ghana, del Mali, del Benin e Songhai, e tra Niger e lago Ciad, come quello di Kanem-Bornu [ 15].

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La formazione dello Stato almoravide, a occidente, e del Califfato fatimide a oriente  [▶ cap. 3.1] aveva iniziato a drenare risorse dall’Africa subsahariana, incrementando i commerci e lo sfruttamento delle vene aurifere dei giacimenti forestali africani, ma anche disarticolando alcuni imperi, come quello del Ghana, che soccombette all’espansione almoravide alla metà dell’XI secolo. In generale, tuttavia, l’incontro con l’islam non fu troppo conflittuale per queste società. L’attività dei mercanti musulmani era infatti rigidamente regolamentata dai sovrani e sul piano sociale la loro presenza era confinata in cittadelle ai margini dei grandi centri urbani. La solida struttura militare di questi regni, che potevano armare eserciti di decine di migliaia di guerrieri, rafforzata da una concezione sacrale della regalità, impedì a lungo la formazione di Stati islamici. Le potenti formazioni del Nord erano d’altro canto troppo lontane per tentare di imporsi al di là del Sahara. Le élite mercantili musulmane costituirono tuttavia comunità abbastanza potenti da influenzare la politica di questi regni e gli esiti di questa pressione furono generalmente caratterizzati da una lenta islamizzazione delle aristocrazie, dopo secoli di contatti reciproci e coabitazione, mentre la gran parte delle popolazioni non si convertì, reinterpretando la nuova religione nel quadro dei culti politeisti e animisti che le caratterizzavano.

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L’adesione delle élite all’islam, che si presentava come culto unificante per imperi multietnici e multiculturali, comportava numerosi vantaggi:

  • agevolava il commercio, grazie all’adozione di misure standard;
  • favoriva le relazioni diplomatiche con le realtà politiche dell’Africa mediterranea;
  • forniva strumenti per un più efficace controllo politico e sociale, grazie alla diffusione di un’omogenea cultura scritta.

Questa fu l’occasione, per molti esponenti delle élite culturali e politiche sudanesi, di conoscere il Mediterraneo e il Vicino Oriente, anche grazie alla pratica dello haji, il rituale pellegrinaggio alla Mecca obbligatorio per ogni buon musulmano almeno una volta nella vita. Le università islamiche del Nord si aprirono a studenti provenienti dall’Africa subsahariana e già nel XII secolo vi erano in Ghana dottori della legge e lettori del Corano educati in Marocco, mentre nei secoli successivi fu aperta al Cairo una madrasa per pellegrini e studenti originari del Sudan; intorno al 1330 sorse infine la prima università islamica a Timbuctu, fondata dal sovrano del Mali Mansa (“imperatore”) Musa (1312-37) [ 16]. Le aristocrazie sudanesi ebbero così modo di migliorare la propria conoscenza del Mediterraneo già prima dell’arrivo dei portoghesi, avvenuto nel XV secolo.

Una ricca testimonianza dell’ammirazione con la quale i viaggiatori guardavano a queste civiltà è data da uno di essi, il berbero Ibn Battuta (1304-77), particolarmente colpito dalla prosperità di agricoltura e commercio nel Mali, dalla giustizia e dalla magnanimità del suo sovrano e dalla sicurezza garantita a mercanti e viaggiatori [▶ FONTI].

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FONTI

Ibn Battuta nella terra dei neri (al-Sudan)

Ibn Battuta partì nel 1325 per il pellegrinaggio verso i luoghi santi ed ebbe così il modo di visitare numerosi paesi islamici, dall’Egitto all’India, dalle Maldive al Niger. Nel 1356 terminò la sua cronaca di viaggio, il cui titolo completo è Un dono di gran pregio per chi vuol gettar lo sguardo su peripli inconsueti e città d’incanto. Nel brano qui riportato sono lodati il senso di giustizia e la sicurezza di cui ha goduto nel Sultanato del Mali, nonché il sincero sforzo di adesione all’islam, nonostante perdurino consuetudini e tradizioni alimentari e di abbigliamento che confliggono con la religione dei “bianchi”, musulmani nordafricani e asiatici.

Fra quanto mi è sembrato buono vi è che dai neri l’ingiustizia è un fatto raro – non c’è gente al mondo che l’aborrisca di più – e il loro sultano non mostra indulgenza con nessuno se ne renda colpevole. Un’altra cosa buona è la sicurezza che, in linea di massima, regna nel loro paese, per cui viaggiatori e abitanti non devono mai temere di incontrare un ladro o un aggressore. O ancora il fatto che i neri non prelevano nulla dai beni dei bianchi che muoiono nel loro paese, nemmeno se si tratta di fortune immense: li lasciano in mano a un bianco affidabile sinché gli eredi non vanno a prenderli. E poi la loro stretta osservanza delle preghiere, l’impegno con cui partecipano alle riunioni della comunità e il fatto di battere i figli che vengono meno a tali norme. Il venerdì1 chi non va alla moschea di buon’ora non trova più posto, tanto c’è affollamento […]. Un’altra cosa buona, poi, è l’usanza per cui, il venerdì, indossano tutti dei begli abiti bianchi, e se qualcuno possiede solo una camicia logora, la lava per bene prima di mettersela per andare alla preghiera. Senza contare lo zelo con cui studiano l’eccelso Corano: addirittura, se un figlio si dimostra svogliato nell’apprenderlo a memoria gli mettono una catena e non gliela tolgono finché non l’ha imparato. […] Per quanto riguarda le cattive usanze vi è che le domestiche, le ancelle e le ragazze giovani si mostrano nude in pubblico senza nemmeno celare le pudenda […]. O ancora l’usanza di coprirsi la testa polvere e cenere in segno di buona educazione e di rispetto; […] infine il fatto che molti neri mangiano carne di animali non sgozzati, cani e asini2.


Ibn Battuta, I viaggi, a cura di C.M. Tresso, Einaudi, Torino 2008

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L’Africa orientale

Già dal VII secolo la costa orientale africana era inserita in un’ampia rete commerciale che la connetteva con i centri dell’Oceano Indiano. Merci provenienti dall’interno del continente e scambiate dalle popolazioni nere ▶ bantu con i mercanti islamici insediati in piccole colonie sulla costa giungevano sino ai mercati asiatici; da qui manufatti realizzati in Asia centrale e orientale (tessuti, ceramiche, porcellane) giungevano sulle coste africane. L’insediamento musulmano in Africa orientale ebbe caratteri ed esiti profondamente diversi da quelli che accompagnarono la conquista dell’Africa del Nord e del Vicino Oriente: si dispiegò infatti nell’arco di secoli e fu sostanzialmente di carattere commerciale. Insediamenti di tipo urbano sono infatti databili solo intorno al IX-X secolo - Mogadiscio, Merca, Brava sulla costa somala -, favoriti dal commercio di oro proveniente da Grande Zimbabwe, capitale di un regno compreso tra gli attuali Zimbabwe e Mozambico; numerosi altri centri furono poi fondati tra il XII e il XIII secolo sino a contare circa 40 città musulmane, tra cui Malindi e Mombasa. In questo contesto territoriale non si svilupparono grandi formazioni statali, come invece accadde nella regione dei laghi (Bunyoro), sull’altopiano dello Zimbabwe (dove nel XV secolo all’egemonia di Grande Zimbabwe si sostituì l’Impero monomotapa) o in Africa centroccidentale (Luba, Kongo), e così le élite mercantili musulmane ebbero buoni margini per condurre un’azione politica autonoma che portò, attraverso accordi con le aristocrazie locali, alla formazione di città-Stato  [ 17].

Un panorama politico frammentato dunque, ma fortemente ▶ sincretico sul piano religioso e sociale. Dalla convivenza dell’islam con le pratiche religiose tradizionali nacque infatti nel XIV secolo una società dai tratti originali, nota come swahili (da sahil, “costa”): la lingua swahili, di ceppo linguistico bantu ma con molte parole derivate dall’arabo, divenne da quel momento lingua franca per tutta l’Africa orientale e per gran parte di quella centrale. Sostanzialmente pacifici, almeno sino al XV-XVI secolo, furono poi i rapporti tra queste città e il Regno cristiano d’Etiopia, in cui, come in Egitto e nel Vicino Oriente, era diffuso il monofisismo, dottrina già condannata come eretica nel V secolo al Concilio di Calcedonia  [▶ cap. 0].

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715