EVENTI - La battaglia di Legnano (1176): miti medievali e Risorgimento

Nel 1162 Milano venne conquistata e distrutta dopo un lungo assedio, e il governo imperiale fu esteso a tutta la Lombardia e alla Toscana. Tuttavia esso ebbe vita breve, perché causò una forte opposizione da parte di alcune città, che nel 1167 si allearono militarmente in una lega, la cosiddetta Lega lombarda, contestando all’imperatore l’aver travalicato il normale sistema di relazioni stabilito dai suoi predecessori. Dopo alterne vicende, tra cui la piena vittoria della Lega nella battaglia di Legnano nel 1176 [▶ eventi], le due parti giunsero nel 1183 a un compromesso (Pace di Costanza) i diritti regi stabiliti ed enumerati minuziosamente a Roncaglia passarono sotto la competenza dei comuni, in cambio del formale riconoscimento dell’autorità imperiale [ 3].

L’allargamento della base sociale dei comuni

La vittoria contro l’Impero costituì un elemento importante di crescita sociale e istituzionale delle città comunali. Alcuni ceti non nobili esclusi dalla militia cittadina, appartenenti al mondo dei commerci e delle manifatture e organizzati su base professionale o rionale, pretesero una maggiore partecipazione alla vita pubblica. Questi ceti, che fornivano la base della fanteria cittadina, iniziarono a esprimere un’azione politica propria attraverso vari tipi di associazioni, articolate per mestieri (arti[▶ cap. 1.7] o su base rionale (societates populi, comunanzecredenzeconcordie) e incaricate di difendere una circoscrizione urbana – rioni, contrade, parrocchie, sestieri – dalla violenza dei cavalieri. Tali forze sociali eterogenee, denominate nelle fonti come “popolo” (populus) e assimilate sul piano storiografico e sociologico nel concetto di “borghesia” [▶ fenomeni], si contrapposero con forza sempre maggiore all’aristocrazia urbana: se sia sul piano politico, sia su quello giuridico e ideologico per i milites l’autorità era essenzialmente di natura militare e organizzata sulla base delle strutture familiari, il popolo riteneva che la vita comunale dovesse essere gestita anche secondo una più stringente applicazione di regole pubblicamente condivise e definite da procedure.

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  eventi

La battaglia di Legnano (1176): miti medievali e Risorgimento

Nella prima metà dell’Ottocento la battaglia di Legnano entrò nell’immaginario del Risorgimento italiano come battaglia per la libertà (nelle parole dello storico ginevrino Sismondi), condotta dalla democrazia comunale contro la tirannide imperiale. Anche altri episodi di conflitto con lo straniero – il giuramento di Pontida, sempre connesso a Legnano, i Vespri siciliani, la Disfida di Barletta – divennero parte della retorica risorgimentale, ma, procedendo l’unificazione nazionale per iniziativa dei Savoia, la memoria di Legnano incominciò a creare difficoltà. Nella battaglia, infatti, i Savoia erano schierati con l’imperatore, non con i comuni, e la vittoria di questi, percepita come frutto dei ceti popolari, era vista sotto cattiva luce dai liberali e dai conservatori. Anche l’alleanza dei comuni con il papato creava imbarazzo, negli anni in cui il Regno d’Italia si scontrava duramente con il papa per la questione di Roma capitale.

Legnano dunque divenne parte di un mito democratico e popolare del Risorgimento, alimentato anche dalla musica e dalla letteratura, da Garibaldi a Mazzini, da Berchet a Carducci, sino a Giuseppe Verdi.

Altre interpretazioni del mito

Compiuta l’Unità, il mito popolare di Legnano decadde rapidamente, rivisto in chiave nazionalistica ed elitaria. La vittoria sarebbe stata merito di un’élite di guerrieri, la Compagnia della Morte, guidata da Alberto da Giussano (citato solo a partire da un testo trecentesco), che avrebbe fornito alla massa popolare una sicura e necessaria guida.

Le vicende politiche contemporanee, dagli anni Novanta del Novecento in poi, hanno visto un nuovo uso del mito di Legnano, di Alberto da Giussano e di Pontida, per opera di una parte politica che, almeno originariamente, guardava con favore alla secessione dallo Stato unitario. Forse un paradosso, per un mito nato nel Risorgimento popolare, che in realtà continua a dimostrarne la polivalenza e la necessità di ripensare continuamente i fondamenti dell’identità nazionale italiana.

  fenomeni

La nascita delle borghesie

Il linguaggio storiografico ottocentesco, influenzato dalla Rivoluzione francese, intendeva per borghesia una classe sociale unitaria, composta da mercanti, industriali e burocrati, che stava vittorio-samente contendendo alla nobiltà l’egemonia sulla società europea. Tuttavia, la storiografia più recente declina al plurale questo concetto, e inoltre le borghesie ottocentesche avevano poco in comune con le società medievali.

Il termine indica propriamente l’abitante di un borgo (latino burgus), ossia un insediamento dai caratteri non ancora pienamente urbani, sorto a ridosso di una città, di un monastero o di un castello. Con questa accezione, nel basso Medioevo, indica persone che svolgevano attività artigianali e commerciali, e che per questo si vedevano riconosciuti particolari privilegi di natura giuridica ed economica dalle autorità pubbliche o signorili.

Realtà poco omogenee

La borghesia medievale non è una realtà unitaria e definita sul piano dell’identità sociale: gli strati sociali composti da artigiani, mercanti, banchieri, giuristi, personale amministrativo, distinti sia dai ceti aristocratici che dai lavoratori delle campagne, erano differenziati per livelli di reddito ed erano attraversati da estesi fenomeni di mobilità sociale, tanto verso l’alto, per effetto di processi di nobilitazione, quanto verso il basso, a causa di impoverimento e perdita di prestigio.

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Il sistema podestarile-consiliare

Alla fine del XII secolo tra le famiglie di milites cittadini dominava un elevato grado di conflittualità, tale da mettere in crisi l’intero sistema consolare. L’odio tra clan familiari seminava violenze e omicidi e questa situazione induceva i consigli cittadini a tentare la strada di un magistrato unico con maggiori poteri. Dopo una fase di transizione lunga alcuni decenni si giunse alla sostituzione della magistratura consolare con quella esercitata dal podestà, dapprima interno alla città, poi forestiero, scelto dai consigli cittadini sulla base della sua preparazione in particolari ambiti (giustizia, guerra, diplomazia), con il compito fondamentale di mediare tra le famiglie della militia in modo che i conflitti fossero sempre risolti all’interno del sistema istituzionale consiliare [ 4]. Anche il popolo, a sua volta, si dotò di una magistratura analoga a quella podestarile, il capitano del popolo: allo stesso tempo organo di governo e rappresentante di una parte politica e sociale, era anch’egli forestiero, itinerante e dotato di cultura giuridica.

La carica del podestà era limitata temporalmente e al termine del mandato veniva sottoposto a un processo per accertare se avesse operato correttamente. Ogni podestà recava con sé una nutrita schiera di giudici, notai, cavalieri e funzionari per lo svolgimento di determinati incarichi (polizia urbana, funzioni giudiziarie, redazione di atti), sull’operato dei quali doveva vigilare costantemente. Nei campi in cui le decisioni più importanti venivano prese dai consigli, ossia in caso di guerra e nelle relazioni diplomatiche, il podestà poteva comunque intervenire direttamente con un sostanziale margine di autonomia

Dai consigli dipendeva anche l’operato di tutti gli altri settori dell’amministrazione comunale: pesi e misure, bilanci, lavori pubblici, normative in merito all’emancipazione dei servi o all’accesso alla cittadinanza, quest’ultimo legato alla possibilità di testimoniare una lunga permanenza in città e l’assoggettamento agli obblighi militari del comune.

L’incanalarsi della lotta politica nel confronto tra schieramenti all’interno del sistema podestà-consigli e l’ascesa istituzionale del popolo favorirono il nascere di una nuova cultura politica, finalizzata al raggiungimento del bene comune e all’accrescimento della potenza della città ed esemplificata nei concetti di equità e giustizia. Il primo rinviava all’idea che tutti i cittadini – maggiorenni e liberi – avessero gli stessi obblighi e diritti, il secondo alla necessità che l’apparato giudiziario funzionasse con regole chiare e uguali per tutti.

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I comuni e Federico II

L’ascesa del popolo nelle istituzioni comunali fu contemporanea a una stagione di duri conflitti intercittadini, complicati dalla ripresa dell’iniziativa imperiale con gli eredi di Federico Barbarossa, Enrico VI e, soprattutto, Federico II  [▶ cap. 4.5]. Per reazione alla politica imperiale si formarono infatti due partes (“partiti”):

  • l’una ghibellina, a favore dell’Impero svevo (Cremona e Pavia in Italia settentrionale; Pisa e Siena nel Centro);
  • l’altra, denominata guelfa per analogia con gli avversari tedeschi degli imperatori svevi, era appoggiata dalla Chiesa (Milano e Piacenza al Nord; Firenze e Perugia nell’Italia centrale) e diede vita a una seconda Lega lombarda nel 1226.

La vittoria sulla Lega nel 1237 a Cortenuova, presso Brescia, consentì a Federico II di imporre ai comuni la restituzione dei diritti regi, sottoponendoli a un podestà da lui stipendiato, con competenze civili e criminali, dipendente da un vicario generale. Il Regno d’Italia fu così diviso in nove vicariati, sottoposti all’autorità di un legato generale, Enzo, figlio di Federico e re di Sardegna. Questo disegno di articolazione amministrativa, analogo a quello applicato nel Regno di Sicilia, non ebbe grande fortuna: Federico II fu, anche per queste vicende, scomunicato nel 1245 al concilio di Lione da papa Innocenzo IV e inoltre fu sconfitto a Parma nel 1248, mentre nel 1249 lo stesso Enzo fu fatto prigioniero dai guelfi a Fossalta, in territorio modenese, e condotto prigioniero a Bologna, dove morì nel 1272.

I regimi di popolo

Alla morte dell’imperatore, nel 1250, l’Italia settentrionale era nelle mani delle fazioni guelfe, vincitrici sulle opposizioni ghibelline interne alle singole città ma in competizione tra loro. Sempre nel 1250 il popolo prese il potere a Firenze, in seguito a una sconfitta dell’esercito imperiale a Figline: da allora questa data è stata enfatizzata come paradigmatica di un fenomeno comune a molte città, ma la realtà è più complessa. Sotto l’etichetta di “regimi di popolo” vi è infatti un’ampia gamma di situazioni soggette a repentini mutamenti. A Firenze, per esempio, il primo governo popolare durò dieci anni: nel 1260, sconfitto a Montaperti, dovette cedere il potere ai ghibellini, che a loro volta tra il 1266 e il 1280 lasciarono il posto a un governo nobiliare guelfo. A Roma, nel giro di un secolo, il popolo raggiunse il governo almeno una decina di volte, ma tutte per brevissimo tempo.

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Generalmente, i regimi popolari introdussero alcune innovazioni ispirate a una visione politica tutta centrata sul ruolo delle istituzioni a scapito della preminenza sociale aristocratica, razionalizzando gli apparati fiscali e finanziari dei comuni e dando vita a legislazioni organiche nei vari ambiti della vita cittadina. Culmine della politica di limitazione della preminenza nobiliare furono gli Ordinamenti sacratissimi (1284) a Bologna e gli Ordinamenti di giustizia (1293) a Firenze, che estromettevano dalla competizione politica i cosiddetti magnati, gli appartenenti a ricche famiglie aristocratiche, antiche e recenti, che facevano delle tradizioni militari e dello stile di vita cavalleresco il tratto caratteristico della propria identità sociale e politica  [ 5]. La strategia dei governi di popolo era incentrata su quattro elementi fondamentali, che la rendevano innovativa rispetto alla tradizione precedente.

  • Il potere era concepito non più come costrizione e dominio (così come lo intendevano i ceti signorili), ma come mediazione all’interno di istituzioni.
  • La rete di condizionamenti entro cui il potere si esprimeva favorì poi l’emergere di una più sofisticata capacità di governo, che si manifestò nelle normative riguardanti l’estensione della cittadinanza o lo scioglimento delle società di rione a favore di un organismo cittadino unitario.
  • La rivoluzione documentaria: si moltiplicarono le scritture legate alla quotidianità amministrativa, di cui i registri dei consigli, delle sentenze e dei bandi, furono la massima espressione.
  • Il ruolo del notariato rivestì un’importanza fondamentale come elemento di razionalizzazione e traduzione scritta delle forme del potere, in questo modo sempre meno arbitrario.

Su questa base alcune scuole retoriche costruirono il mito di un comune ▶ repubblicano, espressione di una legalità collettivamente condivisa, del bene comune, della pace, della giustizia: esempio ne sia il prologo del Liber Paradisus bolognese del 1257 che emancipò dalla condizione servile e rese ▶ libere circa 6000 persone [▶ FONTI].

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FONTI

Il paradiso in terra: il Liber Paradisus di Bologna

Quello che si presenta è un brano di uno tre prologhi del Liber Paradisus, redatto a Bologna nel 1257, con il quale il comune emancipò dalla condizione servile circa 6000 uomini, donne e minori: essi dunque tornavano alla condizione primitiva di ogni uomo, quella libera. L’emancipazione dei servi andava contro gli interessi dei magnati, non tanto sul piano economico (il riscatto avvenne dietro pagamento di una somma non modesta, l’equivalente di un bue da lavoro) quanto su quello della preminenza sociale, che nel caso della militia cittadina e dell’aristocrazia poggiava anche sulla dipendenza servile. Provvedimenti simili furono presi in varie città, con intenti meno nobili di quanto affermassero manifesti ideologici come questo: primo tra tutti l’aumento della popolazione tassabile, dal momento che i servi erano esenti da imposte in quanto proprietà del loro signore.

Questo è il Memoriale dei servi e delle serve che sono stati liberati dal comune di Bologna; e questo memoriale a buon diritto si intitola Paradiso. […]

Un Paradiso di gioia creò al principio Dio onnipotente; in esso pose l’uomo che aveva plasmato e ornò il suo corpo di una candida veste, donandogli un’assoluta e perenne libertà. Ma quell’infelice, dimenticando la propria dignità e il dono di Dio, mangiò il frutto proibito1, violando il comandamento divino, e così trascinò miseramente se stesso e l’intera sua discendenza in questa vallee avvelenò irreparabilmente il genere umano, legandolo tristemente con le catene della servitù diabolica. Così da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto alla decadenza e ad un’opprimente servitù. Tuttavia, vedendo Dio che tutto il mondo si avviava alla rovina, ebbe pietà del genere umano e mandò il Figlio suo unigenito, nato dalla Vergine Madre per grazia dello Spirito Santo, affinché spezzate dalla gloria della sua dignità le catene della servitù che ci tenevano prigionieri, fossimo restituiti all’antica libertà; pertanto assai bene si opera quando, col beneficio della affrancazione3, si restituiscono alla libertà originaria quegli uomini, che da principio la natura generò facendoli liberi, e il diritto delle genti sottopose poi al giogo della servitù. Considerando tutto ciò, la nobile città di Bologna, che sempre si è battuta per la libertà, memore del passato e preparando il futuro, in onore del Signore nostro, Gesù Cristo Redentore, riscattò per denaro tutti coloro che, nella città e nella diocesi di Bologna, trovò oppressi dalla condizione servile e dopo attenta indagine decretò che fossero liberi, stabilendo che in futuro nessuno che sia oppresso da una qualche forma di servitù osi stabilirsi nella città o nella diocesi di Bologna, affinché la comunità degli uomini, liberi per natura o dopo il riscatto, non possa essere nuovamente corrotta dal germe di una qualche servitù, poiché un piccolo germe è in grado di corrompere tutta la comunità, così come la presenza di un solo malvagio potrebbe disonorare tantissimi onesti […].


Liber Paradisus. Con un’antologia di fonti bolognesi in materia di servitù medievale (942-1304), vol. I, a cura di A. Antonelli, Marsilio, Venezia 2007

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Precoci esperienze signorili

Mentre nell’Italia centrale, in città perennemente in lotta tra loro per l’affermazione della propria egemonia, per effetto delle leggi antimagnatizie si formarono potenti collegi oligarchici popolari (generalmente con il nome di Anziani), nell’Italia settentrionale si assisté alla progressiva affermazione di signorie dinastiche di matrice nobiliare. Un esempio fu Ezzelino III da Romano (1194-1259), che riuscì a realizzare un’ampia egemonia nella Marca trevigiana (Treviso, Vicenza, Verona e in misura minore Padova) [ 6]. Nonostante la sua famiglia fosse tradizionalmente antimperiale e antisveva, i conflitti interni alla seconda Lega lombarda riavvicinarono Ezzelino all’imperatore. Questa alleanza gli consentì di portare avanti una politica tesa a indebolire i suoi avversari, gli Estensi, che controllavano Ferrara, Mantova e parte della Marca trevigiana, e a ingrandire il territorio sotto il suo controllo, conquistando nel 1248 le città vescovili di Feltre e Belluno. Tutto ciò senza intaccare formalmente le istituzioni comunali, ma anzi presentandosi come difensore di queste nei confronti del marchese d’Este. Pur sanguinaria e feroce nella sua fase finale, la signoria di Ezzelino costituì un fenomeno complesso, che divenne un modello ideologico e di governo anche per altre famiglie aristocratiche, come gli Scaligeri a Verona.

Altro caso di precoce costituzione signorile fu Milano. Dopo il raggiungimento di un equilibrio tra popolo e aristocrazia alla metà del Duecento, lo scontro riprese nel 1277 e vide prevalere la parte nobiliare, capitanata dall’arcivescovo Ottone Visconti (1207-95) [ 7]. Questi svuotò di significato le istituzioni comunali, pur formalmente rimaste in vigore, ottenendo dal Consiglio generale che suo nipote, Matteo Visconti (1250-1322), fosse nominato capitano del popolo per cinque anni, carica di volta in volta rinnovabile. Matteo associò poi alla carica, nel 1305, il figlio Galeazzo (1277 ca.-1328).

Sostanzialmente questi poteri personali si affermarono per una serie di fattori. In primo luogo, alcuni esponenti nobiliari riuscirono a instaurare efficaci relazioni clientelari con ampie frange del popolo, che a sua volta partecipava, dividendosi al suo interno, ai grandi sistemi di alleanza guelfo e ghibellino. Spesso questi poteri si affermarono, inoltre, per stessa delega degli organismi comunali, nella speranza che ponessero fine alle laceranti guerre di fazione, e solo in seguito si legittimarono richiedendo alla superiore autorità imperiale un titolo formale, quello di vicario imperiale. Nel

caso milanese, per esempio, Matteo Visconti ottenne questa dignità nel 1294 da Adolfo di Nassau, designato imperatore nel 1292.

Si tratta tuttavia di un processo lungo un secolo, durante il quale queste prime brevi esperienze ebbero caratteri di sperimentazione istituzionale e tutto sommato furono difficilmente distinguibili dai regimi comunali nei quali si sviluppavano e dei quali mutuavano ancora forme e ideologia. Come vedremo successivamente, la vera svolta giungerà alla metà del Trecento, con la definitiva affermazione delle grandi dinastie signorili nell’Italia padana e dei regimi oligarchici in Italia centrale.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715