5.1 Società cittadine e primi ordinamenti comunali nell’Italia centrosettentrionale

Per riprendere il filo…

La rinascita urbana dell’XI-XII secolo è connessa a determinati fenomeni: da un lato, lo sviluppo economico e demografico che caratterizzò l’Europa occidentale, i cui effetti diventarono evidenti nel corso dell’XI secolo; dall’altro, la crescita di poteri su base locale, spesso intorno ai vescovi, che approfittavano della crisi dell’ordinamento di matrice carolingia per proporsi come autonomi centri di inquadramento territoriale. In questo senso, grazie al ruolo fondamentale del vescovo, la città medievale ereditò la funzione direzionale del territorio propria della città antica.

5.1 Società cittadine e primi ordinamenti comunali nell’Italia centrosettentrionale

Poteri giurisdizionali e percorsi di legittimazione

Dopo l’età altomedievale, il modello urbano tardoantico centrato sul ruolo politico dei vescovi riprese vigore tra il IX e il X secolo, in relazione con la congiuntura economica espansiva, aprendo nuove prospettive di sviluppo politico. La crisi dell’ordinamento carolingio favorì, secondo varie soluzioni locali, l’appropriazione da parte dei vescovi di responsabilità politiche e civili in aggiunta ai poteri derivanti dall’immunità. Il concetto di districtus, che indicava questi poteri, comprendeva l’amministrazione della giustizia, l’imposizione di norme e il prelievo di imposte, senza tuttavia che ciò fosse sempre riconosciuto ufficialmente  [▶ capp. 0-2] 

La pienezza dell’esercizio di queste prerogative di natura pubblica si saldò poi, tra il X e l’XI secolo, con l’emergere di ceti urbani competenti nel governo delle città. Essi elaborarono presto la consapevolezza di essere accomunati non solo da una condizione giuridica, individuale e collettiva, di liberi, ma soprattutto da consuetudini e da una memoria storicaculturale e artistica costruita e condivisa: la città si configurò dunque innanzitutto come «uno stato d’animo» (R.S. Lopez) e questo autoriconoscimento diventò un elemento di legittimazione e di superiorità politica rispetto al mondo rurale.

La genesi degli ordinamenti comunali

L’Italia centrosettentrionale fu un laboratorio di sperimentazione di questi nuovi poteri. Il passaggio dalla città vescovile alla città comunale fu preparato da un crescente protagonismo delle assemblee cittadine (arengumconcioconventumparlamentum), cui si accedeva in base a criteri di genere (solo maschi), anagrafici (l’età per portare le armi) e socio-economici (il possesso di alcuni beni, per esempio una casa, o la residenza). Il compito delle assemblee era quello di dare pareri su questioni particolarmente importanti e designare un numero ristretto di elettori che avrebbero provveduto a nominare magistrati e membri dei consigli.

Intorno alla metà del XII secolo nella documentazione emerge una magistratura stabile, rinnovata annualmente: il consolato, composto da un numero variabile di magistrati (da quattro a venti), coadiuvati da uno o due consigli cittadini. L’affermazione di questa magistratura si verificò in vari modi: a Milano il seguito vassallatico del vescovo, composto da capitanei e da quei valvassores cui Corrado II [ 1] aveva garantito, con l’Edictum de beneficiis del 1037, la trasmissione ereditaria del beneficio [▶ cap. 4.1] , partecipava al collegio consolare insieme con i cives (cittadini senza legami vassallatici con il vescovo e privi di signorie, ma sufficientemente ricchi per dotarsi dell’equipaggiamento da guerra); a Genova sembra che il comune sia nato piuttosto per iniziativa di milizie cittadine organizzate su base rionale e collegate alle attività marinare; altrove, come a Mantova, l’iniziativa comunale fu opera di signori fondiari. I consoli svolgevano in primo luogo la funzione di giudici, cui la comunità si rivolgeva per risolvere controversie in materia di beni e diritti, ma presto esercitarono altri poteri, dalla riscossione di alcune entrate fiscali alla stipula di patti con signori, comunità rurali e altri comuni.

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L’aumento delle competenze dei consoli, sottratte alle prerogative che un tempo erano del vescovo, rese molto difficile, per le assemblee, svolgere il proprio ruolo. Tra gli anni Sessanta e Settanta del XII secolo nacque così un consiglio, formato da pochi membri, che affiancò direttamente i consoli nell’azione di governo (minor consiglio); nel secolo successivo se ne sarebbe aggiunto un secondo, più ampio, con un ruolo determinante in ambito legislativo (consiglio speciale). Si pose poi ancor di più il problema della partecipazione al potere da parte dei vari gruppi sociali all’interno delle città.

Per la gran parte del XII secolo, il potere cittadino fu nelle mani della nobiltà cittadina, o militia, che si riservò l’accesso al consolato e alla quasi totalità dei seggi nei consigli. La militia cittadina aveva alcune caratteristiche che la rendevano un gruppo sociale abbastanza ampio e variegato sia sul piano economico che su quello del prestigio: combattimento a cavallo nell’esercito comunale (nel caso, anche navale); disponibilità di patrimonio fondiario; legami con enti ecclesiastici, da cui ricavava concessioni di beni e diritti.

L’espansione nel contado e la libertas civitatis

Un’altra peculiarità della civiltà comunale italiana è data dall’espansione nel contado, ossia nello spazio rurale circostante, sul quale già insistevano, in concorrenza tra loro, comunità rurali e poteri signorili laici ed ecclesiastici. Questa espansione avvenne in diversi modi, talvolta pacificamente, attraverso patti o legami vassallatici, ma più spesso attraverso spedizioni militari: in ogni caso, essa portò all’imposizione di prestazioni d’opera e obblighi fiscali a danno delle comunità rurali, che subirono inoltre limitazioni a svolgere attività artigianali e commercio dei prodotti della terra, destinati prioritariamente ad alimentare i consumi cittadini.

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Questo processo incise profondamente anche all’interno delle città: le necessità imposte dal continuo stato di conflitto, prima tra tutte quella di denaro per gli eserciti e gli approvvigionamenti, contribuirono a modificare il sistema politico comunale originario. Gli stessi rapporti tra militia e vescovo, per esempio, subirono variazioni considerevoli: i vescovi difesero infatti strenuamente, appellandosi alla libertas Ecclesiae della riforma [▶ cap. 2.2], le proprie prerogative in materia giudiziaria e fiscale, ma con poco successo dinanzi alla coesione del corpo sociale cittadino.

La costruzione ideologica a fondamento di questa espansione e della rivendicazione di autonomia dinanzi ai poteri regi e imperiali fu fornita dai ceti intellettuali con la teoria della comitatinanza e con la formula della libertas civitatis. La prima individuava nell’orizzonte del comitatus (da cui “contado”) carolingio o della diocesi lo spazio legittimo di espansione comunale. La seconda, che aveva come fondamento il richiamo a un’antica libertà della res publica cittadina, prevedeva la facoltà di eleggere i propri consoli, di costituire leghe tra città e di costruire fortificazioni.

Elementi analoghi per un fenomeno multiforme

Molti comuni, molto simili tra loro ma nessuno uguale all’altro: un’enorme varietà di esperienze, dunque, che è possibile riassumere avendo in mente un modello che, per quanto astratto, tiene conto di specifici elementi caratterizzanti l’esperienza comunale. Tali elementi, secondo la proposta del medievista inglese C. Wickham, sono i seguenti:

  • la presenza di una collettività urbana autoconsapevole, che includeva gli abitanti maschi della città che godevano dei diritti civili e politici;
  • la creazione di una serie di magistrature occupate in base a una regolare rotazione, con incarichi affidati, o convalidati, dalla collettività;
  • il riconoscimento, per queste magistrature, di un’autonomia in merito a temi riguardanti la guerra e la giustizia;
  • più tardi, lo sviluppo delle possibilità di esercitare potere legislativo e imporre la leva fiscale.

5.2 Città e comuni nell’Italia centrosettentrionale: il sistema podestarile e i regimi di popolo

Ulteriori sviluppi delle magistrature consolari

La crescita delle responsabilità giurisdizionali e militari dei comuni ebbe come conseguenza una maggiore articolazione delle mansioni all’interno del collegio consolare e l’instaurarsi di una gerarchia tra i consoli. Da un modello di organizzazione politica orizzontale, senza una netta gerarchia tra i vari organi che la componevano, si passò a un modello verticale, in cui una magistratura aveva la prevalenza (primus consulrector, podestà). Anche la cerchia di famiglie della militia da cui provenivano i consoli si restrinse e si differenziò notevolmente, per censo e prestigio, dal resto del corpo sociale cittadino.

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Una burocrazia più complessa affiancò le alte magistrature: tesorieri, notai, scrivani, sovrintendenti a pesi, misure, monete, viabilità e a molti altri aspetti della vita quotidiana nella città. Un ruolo fondamentale fu svolto da uomini di legge e notai, preparati nelle scuole cittadine o nelle università (di cui parleremo fra poco), che si incaricarono di redigere, conservare e tramandare la crescente normativa prodotta dalle magistrature comunali. Il prodotto di questa attività furono libri nei quali era compresa l’intera regolamentazione della vita civile del comune, dagli aspetti militari a quelli fiscali e giudiziari (statuti), e libri che regolamentavano i patti tra comune e signorie e comunità del contado (libri iurium).

I comuni e l’Impero

Si è detto come i comuni italiani siano stati una creazione politica originale in risposta alla crisi del Regno d’Italia e alla sostanziale debolezza del potere imperiale. L’Impero si limitava, sostanzialmente, a riconoscere tanto ai comuni quanto alle signorie una sorta di autonomia che non pregiudicasse la loro formale sottomissione all’imperatore, cui si accordava un ruolo eminente di difesa della pace e della giustizia.

Le cose cambiarono invece con l’ascesa di Federico I Barbarossa  [▶ cap. 4.5], intenzionato a ristabilire un forte controllo imperiale su una situazione che giudicava potenzialmente pericolosa per l’unità imperiale. Federico individuò il nemico nel comune di Milano, egemone in Lombardia, e nel 1155, durante una Dieta a Roncaglia (presso Piacenza), lo mise al bando, con il supporto di comuni tradizionalmente avversari dei milanesi come Pavia e Como. Durante una seconda Dieta a Roncaglia (1158), con l’appoggio di Pavia, Cremona e Lodi (da poco rifondata dopo la distruzione per mano dei milanesi  [▶ FONTI]), l’imperatore cercò di imporre un sistema di governo basato in parte sul rafforzamento delle relazioni feudali e in parte – grazie all’apporto dei maestri di diritto romano di Bologna [ 2– sulla gestione tramite funzionari pubblici dei diritti regi (▶ regàlia), di cui i comuni cercavano di appropriarsi.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715