Eugène Delacroix

2.3 Eugène Delacroix

Eugène Delacroix (Saint-Maurice 1798-Parigi 1863), forse figlio naturale del marchese di Talleyrand, compie il medesimo percorso formativo di Géricault – prima il Lycée Impérial di Parigi e poi l’atelier di Pierre Narcisse Guérin – e come l’amico, a dispetto di un cursus neoclassico, diviene uno dei massimi esponenti del Romanticismo.
Predilige soggetti presi dalla storia, la stessa evocata dai romanzi storici di Walter Scott, l’autore di Ivanhoe. La sua pittura matura nell’ammirazione di Michelangelo, Tiziano e Rubens ai quali, nel 1824, si aggiunge la scoperta del paesaggista inglese John Constable ( p. 85): Delacroix ne apprezza la vivace trattazione del dato atmosferico. Pone immensa attenzione alla scelta della gamma cromatica, con una certa predilezione per le tinte terrose; la critica scrive di lui come di un pittore colorista, dai toni sfumati, attento agli effetti cromatici.

Orfana al cimitero

Ne è un esempio la figura della giovane Orfana al cimitero (8), dipinto tra il 1823 e il 1824, costruita secondo una calibrata resa dell’incarnato. La fanciulla appare perduta, i grandi occhi espressivi guardano imploranti il cielo come a interrogarsi sul proprio destino, la bocca semiaperta accentua la sensazione di smarrimento. Il soggetto – probabilmente nato come uno studio di figura per il Massacro di Scio – è alquanto inusuale, soprattutto per il contesto: l’ambientazione cimiteriale, con le croci che s’intravedono piantate storte in un terreno impervio, funge da cornice alla languida figura della ragazza.

Delacroix e la pittura ufficiale

La posizione del capo dell’Orfana torna nella figura dell’anziana in primo piano del Massacro di Scio, la grande, quanto complessa, tela che Delacroix presenta al Salon del 1824.

Il massacro di Scio

Il dipinto (9) ha come soggetto un evento di poco precedente che aveva scosso tutta l’Europa: nel marzo del 1822 gli abitanti dell’isola di Scio insorsero contro gli invasori turchi che risposero con una rappresaglia durissima, sacrificando oltre ventimila greci. Delacroix ricostruisce l’evento recuperando la costruzione a doppia piramide della Zattera della Medusa di Géricault: ritiene che «la composizione deve rivolgersi verso l’alto; anche se è meno naturale, viene comunque più bella» (10). Il fine di Delacroix non è dunque la denuncia delle atrocità turche quanto la gestione formale di un dipinto di oltre quattro metri, con quindici figure, in un insieme armonico. La drammaticità dell’attacco è piuttosto controllata: alcuni greci si disperano, supplicano, ma altri sembrano cristallizzati in una posa da atelier. Vi è un contrasto netto tra il lato sinistro del dipinto, dominato da una certa staticità, e quello destro, in cui il soldato ottomano a cavallo sta trascinando una fanciulla. La giovane greca, semisvestita, è un elemento di sensualità che si rifà alla tradizione delle veneri tizianesche. Un uomo cerca di impedirne il rapimento, ma la mano del turco sulla scimitarra lascia già intuire l’esito drammatico del tentativo. A terra un bimbo si aggrappa al corpo della madre, seminuda ed esanime, e l’anziana che le siede accanto porta lo sguardo altrove, lasciando intuire l’imminente arrivo di altri soldati. Nella definizione del paesaggio di fondo Delacroix sconvolge la regola accademica e abbandona la prospettiva, confonde gli abitati col mare e con le colline in una nuvola di fumo e polvere: egli crea una quinta evanescente in cui manca un punto di fuga.
L’indipendenza della Grecia è una delle cause ampiamente condivise dall’Europa romantica, tanto che alcuni intellettuali, come il poeta inglese Lord Byron, scesero in campo in prima persona.

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La sensibilità orientalista di Delacroix

Dopo aver raccolto informazioni e studiato oggetti di provenienza nordafricana, nel 1832 Delacroix visita di persona il Marocco, da cui rientra con una tavolozza arricchita di colori, di contrasti luminosi e di schizzi che gli saranno indispensabili, due anni più tardi, per realizzare Donne di Algeri nei loro appartamenti (11), uno dei capolavori della pittura orientalista ottocentesca.

Donne di Algeri nei loro appartamenti

Contando su un compiacimento voyeuristico dell’osservatore, Delacroix immortala l’interno di un harem, luogo segreto per eccellenza e vietato agli uomini. In un ambiente raccolto sono raggruppate quattro donne, due sedute vicine intente a chiacchierare, una serva probabilmente tenuta in disparte e una figura distesa sulla sinistra che fissa l’osservatore concedendogli di condividere l’esperienza di un luogo proibito. I toni sono volutamente scuri, la luminosità è bassa ma diffusa, proprio ad accentuare il senso di raccolta. Grazie ai numerosi dettagli, descritti con puntiglio, l’artista ricostruisce un’ambientazione verosimilmente orientaleggiante: le maioliche alle pareti, restituite con una pennellata eccezionalmente luminosa, i costumi e i gioielli indossati dalle donne, i grandi cuscini di lana ricamati, la sovrapposizione di tappeti orientali, il narghilè e le calzature dalla foggia turca abbandonate sottolineano l’intima confidenza tra le donne. La rappresentazione dell’harem è talmente puntuale che Charles Baudelaire, poeta e critico d’arte, parlerà di questo dipinto come di «un piccolo poema d’interni».

I GENERI E LE FORME

Romanticismo ed esotismo

Nel 1846 Baudelaire pubblica sulla rivista L’Artiste un saggio interamente dedicato a Delacroix, che egli ritiene il massimo esponente del Romanticismo. Oltre a compiere un’acuta analisi dello stile dell’artista, Baudelaire passa in rassegna le sue opere principali. Commentando le Donne di Algeri, il critico e poeta dà un acuto giudizio su quale sia lo spirito profondo che muove la passione per l’esotico nel periodo romantico. Durante il suo viaggio in Marocco, dice Baudelaire, Delacroix «poté a suo agio studiare l’uomo e la donna nell’autonomia e nell’originalità nativa dei loro atti, e comprendere la bellezza antica attraverso le fattezze di una stirpe scevra d’ogni incrocio e fiorente della propria salute e del libero, atletico sviluppo del proprio corpo». Spostarsi lontano nello spazio significa dunque andare alla ricerca di quelle civiltà meno corrotte dalla modernità, meno alienate dal lavoro industriale, più intimamente e spontaneamente vicine alla natura. Tale volontà di recupero di una dimensione originaria della vita (alla quale si affianca per gli artisti la ricerca di mezzi espressivi il più possibile immediati e naturali) è un carattere che diverrà fondante e costante per l’arte contemporanea, pur manifestandosi ogni volta con modalità e risultati differenti.

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Contesti d’arte - volume 3
Contesti d’arte - volume 3
Dal Neoclassicismo a oggi