Il Polittico di Pisa
Nel 1426 Masaccio realizza un polittico per la Chiesa pisana di Santa Maria del Carmine: a segnalare Masaccio ai religiosi pisani sono probabilmente i frati dello stesso ordine dell’omonimo convento fiorentino, dove il pittore sta lavorando nella Cappella Brancacci. Grazie alla pignoleria del committente, il notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, l’opera è forse la meglio documentata del pittore: attraverso la fitta corrispondenza, infatti, conosciamo gli accordi intercorsi, i diversi pagamenti e i numerosi solleciti.
Originariamente il polittico era composto da almeno dieci pannelli principali, su doppio registro, a cui si affiancavano altri quattro piccoli pannelli per lato e una predella tripartita (27). Nel XVIII secolo il polittico fu però smembrato: alcune parti andarono perdute e quelle superstiti, arrivate sul mercato antiquario, sono disperse tra vari musei europei. Nonostante il polittico sia dunque ricostruibile solo virtualmente, rappresenta un’opera capitale per comprendere l’evoluzione dello stile di Masaccio e i suoi rapporti sia con l’eredità gotica, sia con le nuove scoperte rinascimentali.
Secondo le ipotesi ricostruttive, il polittico aveva un impianto ancora pienamente medievale, con i singoli pannelli divisi da un’elaborata carpenteria e l’oro a creare uno sfondo unitario. La novità sta però sia nella costruzione dei corpi, massicci, voluminosi e veri, definiti dalla luce che arriva da un’unica fonte che pare specchiarsi nell’oro dello sfondo, sia nell’utilizzo della prospettiva: tutti i pannelli oggi noti rispondono a un unico punto di fuga che struttura e unifica la composizione.
La Madonna con il Bambino e angeli (28) centrale riprende e rinnova lo schema compositivo della Vergine nella Sant’Anna Metterza e dello scomparto del Trittico di San Giovenale: è costruita per solidi geometrici e “buca” lo spazio della tavola con le ginocchia sporgenti, ma si muove come di tre quarti, ad accogliere e proteggere il figlio che tiene in braccio. L’aureola del Bambino sembra un disco, appoggiata sulla testa in prospettiva. Il trono, elegante e rinascimentale, con le sue rosette e le sue colonnine slanciate, è disposto in prospettiva perfetta, secondo un punto di vista ribassato: il pittore tiene conto del fatto che il polittico si trovava su un altare, più alto degli occhi dell’osservatore.
Lo stesso succede nella cuspide, ossia nella parte superiore del polittico, con la Crocifissione (29). Ai piedi della croce, la Maddalena di schiena, avvolta nel manto arancio, spalanca le braccia in un gesto di dolore. Si tratta della più convincente rappresentazione della disperazione dopo gli esperimenti di Giotto ed è una delle espressioni di Masaccio che giustifica l’appellativo, usato agli inizi del Novecento da Bernard Berenson, di «Giotto rinato, che ripiglia il lavoro al punto dove la morte lo fermò». Nella scena non ci sono elementi architettonici, ma la composizione non risulta schiacciata nonostante l’uso del fondo oro: il gesto della Maddalena misura la distanza del primo piano dal fondo e collega idealmente la Vergine e san Giovanni.
Molto diverso è lo stile utilizzato per le piccole e vivaci scene della predella. Nello scomparto centrale, con l’Adorazione dei Magi (30), la scena sacra diventa reale e quotidiana. L’asino, a sinistra, è intento a mangiare, il bue sonnecchia di spalle, il cavallo all’estrema destra, a stento trattenuto dal suo cavaliere, beve da un ruscello. Nello spazio compreso tra queste presenze animali, si muovono i personaggi della scena sacra e due borghesi fiorentini dell’epoca, dai neri mantelli: tutti proiettano lunghe ombre sul terreno, marcando la loro presenza fisica. L’episodio sacro diventa così come un fatto realmente accaduto, in uno spazio reale e misurabile, abitato da veri personaggi.