Masaccio

2.4 Masaccio

Masaccio (Tommaso di ser Giovanni, San Giovanni Valdarno, Arezzo 1401-Roma 1428) ha una posizione di preminenza nel contesto dei padri fondatori del Rinascimento fiorentino e italiano: già i maggiori artisti della sua epoca gli riconoscevano il grande talento di aver rinnovato la pittura con la vivacità dei colori, la perfezione del disegno, la volumetria delle figure, la correttezza delle vedute in scorcio. Alcuni decenni dopo la scomparsa dell’artista, nel 1481, l’umanista Cristoforo Landino ne sancisce l’importanza, descrivendo la sua attitudine alla pittura che imita il vero: «Fu Masaccio optimo imitatore di natura».
Dal paese d’origine nel Valdarno, Masaccio giunge giovanissimo  forse appena sedicenne – a Firenze, dove si appoggia alla bottega di Niccolò di ser Lapo, un artista noto solo attraverso i documenti d’archivio. In città dominano lo stile tardogotico e le raffinate creazioni di Gentile da Fabriano. Poche sono le notizie sulla formazione del giovane e non sappiamo quali siano stati i suoi maestri. La tradizione lo voleva apprendista del conterraneo di formazione tardogotica Masolino da Panicale (Panicale in Valdarno 1383?-1440 ca.): una tesi superata, come vedremo, dalla critica recente, secondo cui il giovane Masaccio si avvicina a Masolino non in qualità di aiuto ma come collaboratore alla pari, capace di avviare il più anziano maestro ai nuovi princìpi prospettici e naturalistici dell’arte rinascimentale.
La sua rivoluzionaria produzione si svolge in una brevissima stagione: le sue opere documentate coprono l’arco di sette anni, fino al 1428, anno in cui Masaccio, da poco trasferitosi a Roma, muore in circostanze misteriose.

Gli esordi

Trittico di San Giovenale 

L’opera chiave dei suoi esordi e il punto di snodo fondamentale per la pittura del primo Rinascimento italiano è il Trittico di San Giovenale (24), scoperto nel 1961 in una pieve vicino a San Giovanni Valdarno. Quest’opera, ignota alle fonti antiche, protetta e conservata nella sua sede d’origine, può essere considerata un vero e proprio manifesto in pittura di questa "arte nuova"; ha infatti prodotto un cambiamento radicale negli studi sulle origini della pittura rinascimentale, gettando luce sulla prima produzione dell’artista.
Nello scomparto centrale è raffigurata la Madonna col Bambino in trono che ha ai suoi piedi due angeli genuflessi visti di spalle. Nello scomparto laterale sinistro sono dipinti i santi Bartolomeo e Biagio, mentre nello scomparto laterale destro i santi Giovenale e Antonio abate. Sulla cornice di base, molto frammentaria, la scritta preziosa con la data del dipinto: [ANNO DO] MINI MCCCCXXII A DI VENTITRE D'AP[RILE], ANNO DEL SIGNORE 1422, A DÌ 23 APRILE
Se l'iconografia, la composizione e la struttura della carpenteria lignea, nonché la stessa tecnica pittorica, appaiono quelle tradizionali gotiche, in voga da oltre un secolo, la restituzione naturalistica delle masse corporee e, soprattutto, la visione prospettica dello spazio sono di portata rivoluzionaria e non trovano confronti nella pittura precedente. Tutte le linee ortogonali al piano del dipinto, che nella realtà sono immaginate parallele, qui convergono verso un unico punto di fuga, che è insieme geometrico e simbolico perché situato nel volto della Vergine. In questo modo la prospettiva, da mero artificio visivo e lineare, diventa il modo con cui guidare lo sguardo dell'osservatore verso il centro spirituale della composizione. Tutti gli elementi si accordano a questa struttura compositiva: il trono occupa lo spazio in maniera convincente, riuscendo a trasmettere uno stupefacente senso della profondità, sia al suo interno, con lo schienale ricurvo, sia all'esterno, con i braccioli laterali, annullando del tutto il contrastante senso di appiattimento provocato dal fondo dorato, retaggio ancora della tradizione gotica. 
Lo spazio è reso vero anche dall'ineguagliabile presenza fisica dei corpi, che consente alla pittura di Masaccio di gareggiare con contemporanee sculture di Ghiberti e di Donatello. Dal gruppo divino centrale traspare un impressionante senso plastico: il Bambino che si porta la mano destra alla bocca, oppure la mano destra di Maria che funge da base d'appoggio per i piedini del piccolo Gesù sono gesti di vera e strabiliante umanità. 

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La collaborazione con Masolino

Sant'Anna Metterza 

La Sant’Anna con la Madonna e il Bambino (25) composta probabilmente intorno al 1424 per un altare della chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio, è comunemente chiamata Sant’Anna Metterza, vale a dire collocata in terza posizione dopo il Bambino e la Vergine. Attribuita in passato solo a Masaccio, la tavola fu magistralmente studiata dallo storico dell’arte Roberto Longhi nel 1940, che vi riconobbe la collaborazione con Masolino. Fu probabilmente Masolino, il più anziano, a ottenere la commissione dell’opera e a realizzare la figura principale, sant’Anna, mentre si devono a Masaccio il gruppo centrale "statuario" della Madonna col Bambino e l’angelo reggicortina di destra (26). Il corpo della Vergine, che ha in braccio un muscoloso Bambino, è costruito combinando tra loro solidi geometrici: le due piramidi rovesciate di busto e gambe e l’ovale del volto. Il forte plasticismo delle masse corporee e la densità materica dei panneggi di Masaccio, illuminati da una luce nitidissima, risaltano sul fondo appiattito di sant’Anna, degli angeli e del trono.
La tavola costituisce un affascinante capitolo della collaborazione tra questi due artisti così diversi tra loro, che tuttavia, al pari di quanto avviene, come vedremo, sulle pareti della Cappella Brancacci, produce risultati che appaiono sostanzialmente compatibili e non eccessivamente dissonanti sul piano stilistico. Qui, come anche accadeva nel Trittico di San Giovenale, la struttura esteriore dell'incorniciatura doveva essere di gusto tardogotico, per quanto si può dedurre dalle tracce superstiti della cornice. Il contrasto tra questa struttura ancora arcaica e le novità dello stile doveva risultare assai evidente.

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La scienza prospettica in pittura

Il Polittico di Pisa

Nel 1426 Masaccio realizza un polittico per la Chiesa pisana di Santa Maria del Carmine: a segnalare Masaccio ai religiosi pisani sono probabilmente i frati dello stesso ordine dell’omonimo convento fiorentino, dove il pittore sta lavorando nella Cappella Brancacci. Grazie alla pignoleria del committente, il notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, l’opera è forse la meglio documentata del pittore: attraverso la fitta corrispondenza, infatti, conosciamo gli accordi intercorsi, i diversi pagamenti e i numerosi solleciti.
Originariamente il polittico era composto da almeno dieci pannelli principali, su doppio registro, a cui si affiancavano altri quattro piccoli pannelli per lato e una predella tripartita (27). Nel XVIII secolo il polittico fu però smembrato: alcune parti andarono perdute e quelle superstiti, arrivate sul mercato antiquario, sono disperse tra vari musei europei. Nonostante il polittico sia dunque ricostruibile solo virtualmente, rappresenta un’opera capitale per comprendere l’evoluzione dello stile di Masaccio e i suoi rapporti sia con l’eredità gotica, sia con le nuove scoperte rinascimentali.
Secondo le ipotesi ricostruttive, il polittico aveva un impianto ancora pienamente medievale, con i singoli pannelli divisi da un’elaborata carpenteria e l’oro a creare uno sfondo unitario. La novità sta però sia nella costruzione dei corpi, massicci, voluminosi e veri, definiti dalla luce che arriva da un’unica fonte che pare specchiarsi nell’oro dello sfondo, sia nell’utilizzo della prospettiva: tutti i pannelli oggi noti rispondono a un unico punto di fuga che struttura e unifica la composizione.
La Madonna con il Bambino e angeli (28) centrale riprende e rinnova lo schema compositivo della Vergine nella Sant’Anna Metterza e dello scomparto del Trittico di San Giovenale: è costruita per solidi geometrici e “buca” lo spazio della tavola con le ginocchia sporgenti, ma si muove come di tre quarti, ad accogliere e proteggere il figlio che tiene in braccio. L’aureola del Bambino sembra un disco, appoggiata sulla testa in prospettiva. Il trono, elegante e rinascimentale, con le sue rosette e le sue colonnine slanciate, è disposto in prospettiva perfetta, secondo un punto di vista ribassato: il pittore tiene conto del fatto che il polittico si trovava su un altare, più alto degli occhi dell’osservatore.
Lo stesso succede nella cuspide, ossia nella parte superiore del polittico, con la Crocifissione (29). Ai piedi della croce, la Maddalena di schiena, avvolta nel manto arancio, spalanca le braccia in un gesto di dolore. Si tratta della più convincente rappresentazione della disperazione dopo gli esperimenti di Giotto ed è una delle espressioni di Masaccio che giustifica l’appellativo, usato agli inizi del Novecento da Bernard Berenson, di «Giotto rinato, che ripiglia il lavoro al punto dove la morte lo fermò». Nella scena non ci sono elementi architettonici, ma la composizione non risulta schiacciata nonostante l’uso del fondo oro: il gesto della Maddalena misura la distanza del primo piano dal fondo e collega idealmente la Vergine e san Giovanni.
Molto diverso è lo stile utilizzato per le piccole e vivaci scene della predella. Nello scomparto centrale, con l’Adorazione dei Magi (30), la scena sacra diventa reale e quotidiana. L’asino, a sinistra, è intento a mangiare, il bue sonnecchia di spalle, il cavallo all’estrema destra, a stento trattenuto dal suo cavaliere, beve da un ruscello. Nello spazio compreso tra queste presenze animali, si muovono i personaggi della scena sacra e due borghesi fiorentini dell’epoca, dai neri mantelli: tutti proiettano lunghe ombre sul terreno, marcando la loro presenza fisica. L’episodio sacro diventa così come un fatto realmente accaduto, in uno spazio reale e misurabile, abitato da veri personaggi.

Contesti d’arte - volume 2
Contesti d’arte - volume 2
Dal Gotico internazionale al Rococò