Michelangelo

IL CINQUECENTO

Michelangelo

La straordinaria longevità di Michelangelo Buonarroti (Caprese, Arezzo 1475-Roma 1564) fa sì che egli si trovi a vivere in epoche molto diverse tra loro, in un momento storico segnato da grandi cambiamenti. Inizialmente lavora come scultore e pittore, e solo dopo i quarant’anni approda anche all’architettura, a cui si dedica intensamente nell’ultima parte della vita. Michelangelo trascorre la propria esistenza tra Firenze e Roma; dal 1534 decide di stabilirsi in quest’ultima città, rifiutando i ripetuti inviti a tornare a Firenze da parte del duca Cosimo I de’ Medici.
Una caratteristica che accomuna le sue opere di pittura, scultura e architettura è la continua ricerca di rinnovamento, nel tentativo di raggiungere una forma espressiva originale, che superi le regole della prospettiva in pittura, i rigidi canoni estetici in scultura e lo stile classico in architettura.
Michelangelo è celebrato dai suoi contemporanei come genio e modello da imitare quando è ancora in vita, cosa straordinaria per l’epoca: lo storico dell’arte Giorgio Vasari, che scrive a metà Cinquecento, lo considera il punto di arrivo insuperabile di oltre tre secoli dell’arte italiana.

Tra dolore e bellezza

La prima volta che si trasferisce a Roma, poco più che ventenne, Michelangelo realizza in marmo la Pietà, che raffigura la Vergine con, appoggiato sulle gambe, il corpo morto di Gesù appena deposto dalla Croce (1). L’altissima qualità della realizzazione ha l’effetto di coinvolgere lo spettatore, rendendolo partecipe del dolore di Maria per la morte di Cristo, il quale appare estremamente reale, con le membra senza vita abbandonate sul grembo materno.
La Madonna è raccolta in un dolore composto, pieno di rassegnazione; la sua immensa tristezza si manifesta attraverso la leggera inclinazione del collo rispetto alle spalle, che sembra evocare il pianto silenzioso e trattenuto di Maria, fissato per sempre nel marmo.
L’abilità di Michelangelo si riconosce nella resa del manto e delle vesti della Madonna e nella complessa posizione dei corpi, oltre che nella definizione accuratissima dell’anatomia di Cristo. Spicca inoltre la finitura lucente del marmo: una costante della produzione scultorea di Michelangelo è, infatti, il rapporto intenso con la materia, tanto che l’artista sceglieva personalmente, in cava, marmi di ottima qualità.

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Un eroe per Firenze

Tornato a Firenze nel 1501, Michelangelo riceve dalle autorità cittadine l’incarico di realizzare una gigantesca statua che raffigura David (2), l’eroe del Vecchio Testamento che ha sconfitto il gigante Golia.
La scultura, rappresentando un eroe astuto e coraggioso, vuole rendere visibili al mondo le virtù civiche, l’orgoglio e la forza di Firenze. Nel Cinquecento infatti l’arte viene sempre più considerata uno strumento di comunicazione: committenti colti e raffinati, come papi, signori e ricchi mercanti, affidano all’artista e alla sua opera il compito di trasmettere messaggi religiosi, convinzioni politiche, manifestazioni di ricchezza.
Da un prezioso blocco di marmo, giunto a Firenze un secolo prima e parzialmente lavorato, Michelangelo ricava una figura complessa e tecnicamente perfetta. David è ritratto nell’attimo prima di scagliare con la sua fionda il colpo decisivo: lo sguardo attento, la testa lievemente ruotata e i muscoli contratti danno l’idea della concentrazione e della tensione del momento.

Prigionieri del marmo

Nel 1505 papa Giulio II incarica Michelangelo di realizzare la sua tomba, ma il progetto subisce numerose modifiche e sarà completato solo nel 1548 in modo completamente diverso rispetto alle idee iniziali.
Del progetto fanno parte sei sculture, quattro non finite e due completate, che avrebbero dovuto decorare la parte inferiore del monumento funebre. Le due statue sopra e a lato (3-4), oggi conservate a Firenze e a Parigi, sembrano letteralmente uscire dal marmo, liberandosi dalla materia che le imprigiona. Un elemento costante delle varie versioni della tomba, prima di quella definitiva, è il ruolo determinante svolto da queste statue: la sinuosità della posizione dei corpi doveva creare un contrasto molto espressivo fra la figura umana e la regolarità dell’architettura retrostante.

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La spirale nel tondo

Nei primi anni del Cinquecento a Firenze fiorisce una straordinaria attività artistica, le autorità della Repubblica e i grandi mercanti commissionano agli artisti più importanti opere pubbliche o private. Michelangelo è impegnato su entrambi i fronti: mentre lavora per la Repubblica, realizza per il mercante Agnolo Doni un grande tondo (5), innovativo sotto vari punti di vista: in particolare, per la definizione dello spazio e la combinazione delle figure principali.
La composizione è divisa in due parti. In primo piano c’è la Sacra Famiglia e sullo sfondo un gruppo di figure maschili nude, che hanno suscitato moltissime e differenti interpretazioni: si tratta forse di uomini pagani in attesa di essere battezzati. Michelangelo raffigura attentamente le loro anatomie e i loro corpi, dimostrandosi sempre interessato alla resa del nudo in movimento. Il senso della profondità e della terza dimensione non è affidato alla prospettiva ma alle diverse dimensioni delle figure.
In primo piano, un grande dinamismo caratterizza il gruppo con Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù, avvolti nell’inconfondibile movimento a spirale (“serpentinato“).
Un altro elemento che sarà caratteristico della pittura di Michelangelo è il modo di raffigurare i corpi evidenziandone soprattutto i volumi e la struttura anatomica, come se fossero delle sculture.
I colori, cangianti e metallici, sono ottenuti mescolando la tempera con il rosso d’uovo: è la tecnica della tempera grassa.

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Un’idea per la cupola di San Pietro

Papa Paolo III affida all’anziano artista, che ha ormai 71 anni, la guida del più importante cantiere del mondo cristiano: la Basilica di San Pietro a Roma. Nel 1505 l’antica basilica paleocristiana era stata fatta demolire da papa Giulio II; nella progettazione della nuova chiesa si erano avvicendati l’architetto Donato Bramante e poi Raffaello.
Michelangelo, a partire dal 1546, modifica la pianta della chiesa, ritornando a un modello molto simile alla pianta proposta inizialmente dall’architetto urbinate Donato Bramante, ma soprattutto risolve il problema della costruzione della sua immensa cupola.
Per Michelangelo la forma della cupola è un aspetto fondamentale, sia per garantire un’adeguata illuminazione interna, sia per conferire alla chiesa un profilo dominante nel panorama della città (6-7).
Il tamburo è pensato come una vera e propria scultura, in cui la luce gioca con l’ombra grazie alla posizione delle possenti colonne, avanzate rispetto alle grandi finestre, più arretrate.
Nella progettazione, Michelangelo tiene presente il più famoso esempio che lo ha preceduto: la cupola fiorentina di Santa Maria del Fiore, terminata un secolo prima da Filippo Brunelleschi. Come la cupola di Brunelleschi, quella di Michelangelo è composta da due calotte, con una scala che vi passa in mezzo, per meglio distribuire il peso, e tutta la struttura è “incatenata” da possenti costoloni di marmo. La forma non è un perfetto emisfero, ma si sviluppa quasi “appuntita”: già nel Quattrocento Brunelleschi aveva capito che questa è la forma migliore per scaricare il peso della cupola sulla tribuna sottostante.
Al culmine della cupola di San Pietro c’è una lanterna: è la chiave di volta, ossia l’elemento che chiude l’intera struttura; inoltre, con le sue grandi finestre, decorate da coppie di colonne come il tamburo, costituisce un’ulteriore fonte di illuminazione per l’interno della più grande basilica del mondo cristiano.

Il filo dell’arte - volume B
Il filo dell’arte - volume B
Dalla Preistoria ai nostri giorni