L’ECONOMIA DEL MONDO

GEOOGGI

Una globalizzazione alternativa?

Se da una parte l’inesorabile cammino verso la globalizzazione economica e culturale ha portato – e porterà ancora – grandi vantaggi a molti Paesi e popolazioni, dall’altra è ormai evidente che questo straordinario sviluppo ha comportato per altri un alto prezzo da pagare. Lo sfruttamento dell’ambiente, delle risorse naturali e del lavoro negli Stati meno sviluppati; le violazioni dei diritti umani tollerate in nome dell’espansione economica e del profitto a ogni costo; la perdita dell’identità storica e culturale di molti gruppi e popolazioni “deboli”, investiti da nuovi modelli e stili di vita internazionali che tendono all’omologazione e all’appiattimento delle differenze; l’aumento delle disuguaglianze economiche e delle ingiustizie sociali, per cui l’1% della popolazione mondiale possiede oltre la metà di tutte le ricchezze del pianeta e controlla il destino del restante 99%: sono solo alcune delle grandi problematiche che accompagnano il processo di globalizzazione.
Sono così sorti movimenti e correnti di pensiero che si oppongono alla globalizzazione o che si battono per una globalizzazione “alternativa”, basata non sul profitto ma sui principi della solidarietà e del rispetto per tutte le culture.

Il movimento “no global”

Nel corso degli anni Novanta cominciò a formarsi un vasto movimento di opposizione alla globalizzazione, che negli anni successivi si è rafforzato grazie anche alla diffusione di Internet e dei social network, attraverso i quali si svolgono dibattiti e si organizzano azioni di protesta. Chiamato genericamente “no global”, il movimento è in realtà una grande “galassia” composta da migliaia di gruppi e individui con idee politiche e obiettivi diversi. I suoi membri criticano molti aspetti della globalizzazione, tra cui il modello liberista delle grandi potenze economiche, favorevole al libero commercio, e l’attività delle multinazionali, accusate di sfruttare i lavoratori e aggravare le ingiustizie sociali.
Il movimento “no global” è diventato famoso in tutto il mondo per le spettacolari proteste organizzate in occasione di incontri e conferenze internazionali, come i vertici tra i capi di Stato dei Paesi del G7 (poi divenuto G8 con l’aggiunta della Russia). La maggior parte dei gruppi riconducibili al movimento “no global” porta avanti i propri obiettivi con mezzi pacifici, ma alcune frange estremiste, come il famigerato black bloc, non esitano a usare la violenza nel corso di manifestazioni e azioni dimostrative. In occasione della riunione della WTO tenutasi a Seattle nel 1999 e dei vertici del G8 organizzati a Genova nel 2001 e a Toronto nel 2010, si sono verificati scontri che hanno provocato gravi incidenti e la violenta risposta delle forze di polizia.

Il World Social Forum

Nato come iniziativa alternativa agli incontri dei grandi e potenti della Terra, come i vertici del G7 e G8, il World Social Forum è una conferenza annuale che si è tenuta per la prima volta a Porto Alegre, in Brasile, nel 2001. Vi partecipano persone e gruppi provenienti da tutto il mondo: associazioni ambientaliste e umanitarie, movimenti che promuovono forme di commercio equo, scienziati ed economisti, avvocati che rappresentano popolazioni e gruppi tribali minacciati dalla globalizzazione, associazioni e cooperative di lavoratori agricoli che si battono per la riforma della proprietà agraria. L’obiettivo del Forum non è combattere la globalizzazione, che è vista ormai come un fenomeno inevitabile della società contemporanea, ma promuovere una forma alternativa di globalizzazione, detta “antiegemonica”, basata cioè non sul dominio economico e culturale (“egemonia”) di una parte del mondo sull’altra, ma su uno sviluppo orizzontale, tale per cui tutti i Paesi e le popolazioni collaborino allo stesso livello per migliorare la propria condizione.

Il ruolo delle ONG

Tra le realtà coinvolte nel World Social Forum figurano anche numerose Organizzazioni Non Governative e aziende del commercio equo e solidale.
Le Organizzazioni Non Governative (ONG) sono organizzazioni senza scopo di lucro o “no profit”: si finanziano con le donazioni di aziende e privati, e dichiarano di investire tutto il denaro ricevuto nelle attività che promuovono, non ricavando alcun profitto. Si chiamano “non governative” perché non fanno parte delle istituzioni di alcun Paese e non beneficiano di finanziamenti statali. Potrebbe sembrare una situazione di svantaggio, ma è una scelta precisa di queste stesse organizzazioni, che intendono rimanere indipendenti e libere da qualsiasi controllo o pressione che uno Stato potrebbe esercitare nei loro confronti.
Le ONG sono moltissime e operano in svariati campi, dalla tutela dell’ambiente (come il WWF e Greenpeace) alla promozione dei diritti umani (come Amnesty International e Human Rights Watch), dall’assistenza medica alle persone che vivono in zone di guerra o di povertà (come Medici Senza Frontiere o Emergency) alla lotta alla povertà (come Save the Children e Oxfam). La loro attività è fondamentale per ridurre il divario di sviluppo tra i Paesi del mondo e per sensibilizzare la popolazione mondiale sui grandi problemi che la società contemporanea si trova ad affrontare.

Il commercio equo e solidale

Una possibile alternativa allo sfruttamento eccessivo delle materie prime e dei lavoratori dei Paesi meno sviluppati è rappresentata dal commercio equo e solidale (fair trade). Si differenzia dalle altre attività economiche perché tra i suoi obiettivi non ha esclusivamente il profitto, ma anche lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni del Sud del mondo. Per favorire tale sviluppo, il commercio equo e solidale attua uno scambio “etico”: le aziende che operano in questo campo assicurano infatti che tutto il processo produttivo si svolga all’insegna della sostenibilità ambientale e del rispetto nei confronti dei produttori, che lavorano in condizioni dignitose (senza ricorrere al lavoro minorile, per esempio) e ricevono un compenso adeguato.
Molti lavoratori inseriti nel “circuito” equo e solidale sono organizzati in cooperative, cioè aziende dove tutti sono soci e si dividono i profitti equamente. I prodotti più commercializzati sono quelli di piantagione, la cui coltivazione causa sfruttamento e gravi danni ambientali: caffè dal Brasile, cacao e cioccolato dalla Costa d’Avorio e dal Ghana, tè dal Kenya, e molti altri. In Europa sono quasi 100.000 i punti vendita che offrono prodotti realizzati in modo equo e solidale, che hanno cominciato a comparire anche sugli scaffali delle grandi catene di supermercati.

Geoblog - volume 3
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