PERCORSO SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO

IL TEMA

1. La geografia mondiale dello sviluppo

Il grande sviluppo economico e tecnologico che ha caratterizzato la civiltà umana negli ultimi secoli interessa ormai quasi tutte le aree del mondo e le popolazioni che le abitano. Le cause di queste disparità sono molte e complesse, di natura storica, geografica, sociale. Qualunque siano le ragioni, la fotografia dello stato attuale dello sviluppo umano nel mondo è impietosa: quasi un quarto della popolazione mondiale possiede circa i tre quarti dell’intera ricchezza del pianeta, lasciando il rimanente agli altri tre quarti dell’umanità.

Tentativi di suddivisione del mondo in base al grado di sviluppo

Nel corso del Novecento sono stati fatti numerosi tentativi di classificare i Paesi del mondo in base al loro grado di sviluppo.
La classificazione forse più conosciuta è quella elaborata dal demografo francese Alfred Sauvy nel 1952, che suddivise tutti gli Stati allora esistenti in tre grandi gruppi: il Primo, il Secondo e il Terzo Mondo. La tripartizione rifletteva la situazione politica internazionale tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il Primo Mondo era infatti composto, secondo Sauvy, dagli Stati Uniti e dai Paesi loro alleati (come quelli dell’Europa occidentale e il Giappone), tutti caratterizzati da alti livelli di industrializzazione e sviluppo e da un’economia di tipo capitalista; il Secondo Mondo era formato dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati (fra cui gli Stati dell’Europa orientale), Paesi anch’essi con un buon grado di industrializzazione e sviluppo, ma con un sistema economico di tipo comunista; il Terzo Mondo era invece formato dai cosiddetti Paesi “non allineati”, che non erano cioè affiliati a nessuno dei due blocchi. Poiché i Paesi di questo “terzo blocco” coincidevano in gran parte con gli Stati più poveri del mondo, situati in Africa, Asia e America Latina, l’espressione Terzo Mondo si è diffusa anche nel linguaggio comune a indicare gli Stati più arretrati e le condizioni particolarmente difficili in cui versano le loro popolazioni. Oggi, con la fine della Guerra Fredda, questa divisione del mondo in tre gruppi è superata, anche perché molti Paesi un tempo appartenenti al Terzo Mondo hanno cominciato a svilupparsi e sono divenuti delle potenze economiche globali (come India e Brasile).
Un’altra classificazione molto usata è di tipo geografico, e distingue tra Paesi del Nord e Paesi del Sud del mondo. Effettivamente la maggior parte degli Stati più ricchi e sviluppati si trova nell’emisfero settentrionale, ma esistono anche in questo caso importanti eccezioni: l’Australia e la Nuova Zelanda in Oceania e l’Argentina e il Cile in Sud America sono Paesi che si trovano nell’emisfero meridionale e che possiedono un elevato grado di sviluppo. Inoltre alcuni Paesi posti originariamente nella categoria dei più svantaggiati stanno vivendo un rapido sviluppo economico e sociale, tanto che molti studiosi hanno indicato il XXI secolo come l’epoca della “rivincita” del Sud del mondo nei confronti del Nord. Nel dibattito comune si impiega genericamente una divisione tra “Paesi sviluppati” e “Paesi sottosviluppati”, detti anche “Paesi in via di sviluppo”, ai quali qualche volta si aggiungono i “Paesi emergenti”, cioè quei Paesi in via di sviluppo che si sono distinti, negli ultimi anni, per una crescita particolarmente pronunciata.

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Definire e misurare lo sviluppo: il Prodotto Interno Lordo

Spesso, nel linguaggio comune, si usano i termini Paesi ricchi e Paesi poveri per indicare genericamente i Paesi avanzati e i Paesi in via di sviluppo. Ma i concetti di “ricchezza” e “sviluppo” sono davvero equivalenti? Effettivamente, osservando le statistiche, sembrerebbe che nella classifica dei Paesi più ricchi e in quella dei Paesi maggiormente sviluppati si trovino più o meno gli stessi Stati. Bisogna però distinguere tra la ricchezza totale prodotta da un Paese, espressa dal cosiddetto Pil (Prodotto interno lordo) assoluto, e quella prodotta in media da ciascun abitante di quel Paese, espressa dal Pil pro capite. Il Pil pro capite può essere un’efficace misura del grado di sviluppo di un Paese, in quanto esprime le capacità economiche possedute idealmente da ciascun membro della sua popolazione per migliorare le proprie condizioni di vita. Tuttavia l’uso del Pil pro capite come indicatore del livello di sviluppo ha alcuni limiti: anzitutto si tratta di un valore medio che non tiene conto del grado di disuguaglianza economica e sociale all’interno di un Paese (la ricchezza potrebbe essere concentrata nelle mani di poche persone); inoltre non considera numerosi fattori che concorrono a determinare il grado di sviluppo di un Paese e quindi il livello di benessere della sua popolazione, come l’efficienza dei servizi pubblici e lo stato di salute medio.

Un indicatore che riguarda la qualità della vita: l’Indice di sviluppo umano

Per ovviare a questi problemi e definire meglio il grado di sviluppo di un Paese, nel 1990 due economisti – il pakistano Mahbub ul Haq e l’indiano Amartya Sen (vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 1998) – hanno creato un nuovo indicatore statistico, l’Indice di sviluppo umano (Isu o Hdi, dall’inglese Human Development Index). L’Isu si calcola tenendo conto del Pil pro capite, ma anche di fattori come la speranza di vita media della popolazione e il livello medio dell’educazione, espresso dal numero medio di anni che un appartenente alla popolazione in esame passa sui banchi di scuola.
L’Isu si esprime in millesimi, in un intervallo che va da 0 a 1: più alto è il valore, più alto è il livello di sviluppo. Fin dalla sua ideazione, l’Isu è stato usato dall’Onu come indicatore ufficiale del grado di sviluppo. Secondo il Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo nel 2015, i Paesi con il più alto grado di sviluppo sono Norvegia e Australia (Isu 0,94); in fondo alla classifica stanno la Repubblica Centrafricana e il Niger, al 188° posto, con 0,35.

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POSIZIONE IN CLASSIFICA

PAESE

PUNTEGGIO ISU

SPERANZA DI VITA

MAX. ANNI DI ISTRUZIONE SCOLASTICA

PIL PRO CAPITE (PPP) $

INDICE DI DISUGUAGLIANZA

1

Norvegia

0,94

81,6

17,5

64.992

5

2

Australia

0,94

82,4

20,2

42.261

17

3

Svizzera

0,93

83

15,8

56.431

6

4

Danimarca

0,92

80,2

18,7

44.025

11

5

Paesi Bassi

0,92

81,6

17,9

45.435

9

6

Germania

0,92

80,9

16,5

43.919

11

7

Irlanda

0,92

80,9

18,6

39.568

16

8

Stati Uniti

0,92

79,1

16,5

52.947

3

9

Canada

0,91

82

15,9

42.155

11

10

Nuova Zelanda

0,91

81,8

19,2

32.689

23

27

Italia

0,87

83,1

16

33.030

4

187

Repubblica Centrafricana

0,35

50,7

7,2

581

1

188

Niger

0,35

61,4

5,4

908

–5

Indice di Sviluppo Umano 2015: primi 10 Paesi in classifica, Italia e ultimi due Paesi.

2. Le ragioni del sottosviluppo

Come abbiamo visto, il divario nello sviluppo tra i vari Paesi del mondo, qualunque sia il confine che si vuole tracciare tra “Paesi sviluppati” e “Paesi sottosviluppati”, è notevole e innegabile. Ma quali sono le cause che lo hanno determinato?

Un vantaggio storico

La concezione più diffusa è che le cause del divario nello sviluppo mondiale siano di natura storica: semplicemente, gli attuali Paesi avanzati sono stati i primi in cui si è innescato il processo di espansione economica e di sviluppo che li ha portati agli attuali livelli.
Secondo la teoria della crescita economica proposta dall’economista statunitense Walt Whitman Rostow nel 1960, i Paesi del cosiddetto Occidente (Europa e Nord America) sono stati i primi in cui si sono verificate le condizioni per quello che lo studioso chiama il decollo economico. Questo modello di sviluppo, secondo Rostow e altri, non è tipico dei Paesi occidentali, ma è applicabile a qualunque società del mondo. Si tratta quindi soltanto di aspettare che anche gli altri Paesi “decollino”, percorrendo le stesse tappe di sviluppo di quelli che li hanno preceduti, perché il divario diminuisca e alla fine scompaia. Va detto che il modello di Rostow non tiene conto dell’eventualità che il pianeta non sia in grado di garantire risorse sufficienti per sostenere il completo sviluppo economico di tutti i Paesi del mondo. Per “decollo” economico si intende soprattutto lo sviluppo innescato dalla rivoluzione industriale, responsabile dell’aumento della produttività (grazie per esempio alla meccanizzazione dell’agricoltura) e della transizione demografica da un modello demografico tradizionale a uno moderno. In questo senso le teorie come quella di Rostow sono almeno parzialmente confermate dai fatti: sono sempre di più, infatti, i Paesi nel mondo che stanno ripercorrendo, magari in forma accelerata, le tappe dello sviluppo economico e industriale già raggiunte dai Paesi avanzati, tra le quali il fenomeno della crescente urbanizzazione, come accade a Cina, India e Brasile, tra i Paesi appartenenti al gruppo delle nuove economie emergenti. Altri Paesi (come molti Stati africani) rimangono tuttavia in condizioni di profondo sottosviluppo, e si trovano in questo stato da decenni o secoli.

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Il colonialismo e la sua eredità

Se l’inizio del decollo dei Paesi avanzati si fa di solito corrispondere alla rivoluzione industriale che ha interessato l’Europa a partire dalla fine del XVIII secolo, non bisogna dimenticare che a quell’epoca era in corso da circa due secoli l’era del colonialismo europeo, cioè il periodo (compreso approssimativamente tra il XVI e il XX secolo) durante il quale l’Europa esercitò una supremazia economica e politica su vaste regioni degli altri continenti.
Prima la Spagna e il Portogallo, poi l’Olanda e, soprattutto, la Francia e la Gran Bretagna, conquistarono vasti imperi coloniali in America, Africa, Asia e Oceania, forti di innovazioni tecnologiche come le armi da fuoco e le navi transoceaniche, e di politiche commerciali e militari aggressive. In molti casi il rapporto tra le potenze colonizzatrici e le colonie fu di sostanziale sfruttamento, tanto delle risorse naturali (come i prodotti agricoli coltivati nelle piantagioni o i metalli estratti nelle miniere, la maggior parte dei quali veniva esportata in Europa) quanto di quelle umane (la riduzione in schiavitù delle popolazioni locali e il loro impiego come manodopera).
Con la decolonizzazione – il processo che ha portato all’indipendenza politica di gran parte delle colonie europee, avvenuto soprattutto intorno alla metà del XX secolo – se il dominio politico dei Paesi un tempo colonizzati è terminato, non così si può dire del dominio economico, tanto che in molti casi si parla dell’esistenza di una forma di neocolonialismo esercitata dai Paesi avanzati nei confronti di quelli in via di sviluppo. L’economia mondiale è infatti ancora fortemente basata sull’esportazione di grandissime quantità di materie prime dai Paesi più arretrati a quelli industriali, che le trasformano in prodotti finiti. I Paesi avanzati eserciterebbero quindi ancora una forte influenza sulle economie dei Paesi in via di sviluppo, tramite l’azione delle grandi multinazionali, così forti economicamente da poter stabilire i prezzi delle materie prime e imporre ai Paesi più deboli rapporti economici basati su scambi ineguali, cioè più svantaggiosi per questi ultimi. A questa posizione si ricollega la teoria della dipendenza, secondo la quale tutto ciò che possiede un valore, dalle materie prime al denaro, alla manodopera specializzata, si sposta naturalmente dalle aree di periferia (i Paesi in via di sviluppo) a quelle del centro (quelli avanzati), e questo movimento è necessario in un sistema economico basato sul capitalismo e il libero scambio. Si tratterebbe quindi di una forma di sfruttamento indispensabile per la crescita e il mantenimento degli alti livelli economici e di sviluppo dei Paesi più avanzati.
Secondo i sostenitori della teoria della dipendenza, quindi, non si potrà mai verificare la previsione sostenuta dalle teorie dello sviluppo economico come quella di Rostow, secondo cui tutti i Paesi del mondo arriveranno prima o poi a un livello di sviluppo elevato, proprio perché un “centro” non può esistere senza una “periferia” da sfruttare.

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Il dramma del debito dei paesi poveri

Secondo i critici delle teorie dello sviluppo economico, uno dei tanti fattori che impediscono o rallentano la crescita dei Paesi poveri è il forte debito estero contratto in passato dai loro governi.
Molti di essi, non avendo abbastanza denaro per garantire il funzionamento dei servizi pubblici, furono infatti costretti a chiedere l’aiuto economico dei Paesi più ricchi e di organizzazioni finanziarie internazionali, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che fecero prestiti ai Paesi in difficoltà soprattutto intorno agli anni Settanta del XX secolo, in seguito alla crisi economica e politica che aveva portato a un fortissimo aumento del prezzo del petrolio. Tali prestiti, tuttavia, comportavano il pagamento di interessi, e ben presto i Paesi debitori si sono trovati nella condizione non solo di non riuscire a restituire il denaro ricevuto, ma anche di dover impiegare gran parte della ricchezza da essi prodotta (il Pil) per pagare gli interessi sui debiti contratti. Intorno agli anni Novanta del XX secolo è nato un forte movimento di opinione, promosso da diverse Organizzazioni non governative (Ong) e da personaggi della politica, della cultura e dello spettacolo, per chiedere la riduzione o la totale cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo. Particolare risonanza hanno avuto le campagne promosse da Jubilee 2000, un’alleanza di organizzazioni e attivisti che ha dato vita a grandi manifestazioni in occasione dei vertici del G7, il gruppo dei Paesi più industrializzati del mondo che insieme detengono la maggior parte del credito nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Finora il movimento per la cancellazione del debito ha ottenuto numerosi successi, sebbene non si sia ancora giunti alla totale cancellazione dei debiti di tutti i Paesi in via di sviluppo.
Nel 2000 i ministri delle Finanze dei Paesi del G7 si sono accordati per ridurre o cancellare il debito di alcuni Paesi africani estremamente poveri, come l’Uganda, il Burkina Faso e la Tanzania. L’effetto positivo sulla popolazione di questi Stati è stato immediato: il denaro originariamente destinato al pagamento degli interessi sul debito è stato invece usato per progetti di sviluppo umanitario, in particolare nei settori della sanità e dell’educazione.

3. Vecchie e nuove potenze mondiali

Con il processo di globalizzazione, che di fatto ha unito le realtà economiche di gran parte dei Paesi del mondo in un unico mercato economico e finanziario, le difficoltà economiche di un determinato Paese possono scatenare una reazione a catena con effetti all’altro capo del pianeta: è quanto accaduto in seguito alla crisi finanziaria nata negli Stati Uniti alla fine del 2007, che in breve tempo si è allargata a molti Paesi europei e del resto del mondo. Diversi Stati sono entrati in recessione, cioè il loro Pil è diminuito rispetto a quello degli anni precedenti, un fenomeno che ha causato un calo dei consumi interni, un rallentamento delle attività produttive e un aumento della disoccupazione.

I Paesi emergenti: i casi di India e Cina

Hanno invece risentito in misura molto minore degli effetti della crisi i cosiddetti Paesi emergenti, cioè quei Paesi un tempo “in via di sviluppo” che negli ultimi anni hanno sperimentato una forte crescita economica. La Cina è ormai il secondo Paese più ricco del mondo in termini di Pil assoluto, e si prevede che diventerà il primo, superando gli Stati Uniti, intorno al 2030. Anche l’India, sebbene sia partita da condizioni più svantaggiate rispetto alla Cina, sta crescendo a ritmi ancora più intensi, grazie alla sua popolazione giovane e in costante aumento e ai progressi nel campo della tecnologia e dell’educazione, che consentono la nascita di realtà economiche e imprenditoriali specializzate e sempre più competitive rispetto a quelle dei Paesi più sviluppati. Se i tassi di crescita rimarranno invariati si prevede che anche l’India supererà gli Stati Uniti nella classifica dei Paesi più ricchi del mondo entro la metà del XXI secolo. Molte altre sfide attendono ancora i Paesi emergenti nel prossimo futuro, e solo superando le vecchie potranno affermarsi autenticamente nel ruolo di nuove potenze mondiali.
Come abbiamo visto, l’aumento della ricchezza assoluta di un Paese non si traduce automaticamente in un maggiore sviluppo umano e in un miglioramento della qualità della vita della popolazione. Nello specifico, l’India deve fare ancora molto per ridurre le grandi sacche di povertà che persistono nel Paese, tanto nelle zone rurali quanto in quelle urbane. La società indiana è inoltre segnata da secoli da profonde divisioni sociali, causate soprattutto dalla tradizionale suddivisione della popolazione in caste, il cui superamento è una condizione indispensabile per lo sviluppo.
La Cina, d’altra parte, vede la propria credibilità internazionale minacciata dalle gravi violazioni dei diritti umani che si verificano al suo interno, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche (come i tibetani), ma anche nel campo dei diritti dei lavoratori, che pagano il prezzo più alto per garantire gli straordinari tassi di crescita economica del Paese.

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4. Cooperazione e prospettive dello sviluppo

Da diversi decenni, ormai, numerosi governi, organizzazioni internazionali e non governative e singoli individui sono impegnati in attività e campagne per favorire lo sviluppo umano nelle aree del mondo più svantaggiate. Oltre che in risposta a un dovere morale, tali iniziative sono portate avanti nella convinzione che un miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi meno sviluppati possa essere un vantaggio per gli abitanti di tutto il pianeta.

Gli otto grandi Obiettivi del Millennio

La più importante campagna per lo sviluppo umano lanciata negli ultimi decenni è quella promossa dall’Onu in seguito al Summit del Millennio, un incontro tra i capi di Stato di tutto il mondo tenutosi a New York nel 2000. In quell’occasione tutti gli Stati membri dell’Onu, insieme a 23 importanti organizzazioni internazionali, hanno stabilito otto grandi obiettivi nel campo dello sviluppo umano mondiale, da raggiungere entro il 2015.
I cosiddetti Obiettivi di sviluppo del Millennio sono stati le principali linee guida per tutte le attività umanitarie negli anni successivi. Eccoli, nella formulazione originale dell’Onu:
1. Sradicare la povertà estrema e la fame.
2. Rendere universale l’istruzione primaria.
3. Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne.
4. Ridurre la mortalità infantile.
5. Migliorare la salute materna.
6. Combattere l’Hiv/Aids, la malaria e altre malattie.
7. Garantire la sostenibilità ambientale.
8. Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.
Nel corso degli ultimi anni sono stati fatti importanti progressi per raggiungere almeno in parte questi obiettivi. La percentuale degli abitanti dei Paesi in via di sviluppo che vivono in condizioni di povertà estrema (cioè con meno di 1,25 dollari al giorno), per esempio, è passata dal 47% del 1990 al 22% del 2010, con un miglioramento delle condizioni di vita di oltre 700 milioni di persone. Inoltre più di 2 miliardi di persone hanno ottenuto accesso all’acqua potabile, e oltre 100 milioni sono uscite da una condizione di grave denutrizione (ma ancora quasi 900 milioni di persone soffrono la fame).
Grandi progressi sono stati fatti anche nella lotta alle malattie che colpiscono prevalentemente le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo: dal 2000 al 2011 i morti per malaria sono diminuiti del 25%, il che significa che si sono salvate oltre un milione di vite. La diffusione dei mezzi di prevenzione e dei farmaci specifici ha poi permesso una costante diminuzione dei nuovi contagi di Aids. Tuttavia molto rimane da fare: le violenze e le discriminazioni contro le donne sono più che mai diffuse in parecchie regioni del mondo, e l’obiettivo della parità tra i sessi è lontano. E altrettanto lontano è l’obiettivo della completa sostenibilità ambientale, dato che la grande espansione economica dei Paesi emergenti si sta verificando spesso senza grandi preoccupazioni per i danni che può causare all’ambiente.

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• SOTTO LA LENTE • CIVILTÀ

Il commercio equo e solidale

Nato intorno agli anni Sessanta del Novecento, il commercio equo e solidale è sia una forma di scambio commerciale, sia un movimento a favore dello sviluppo umano del Sud del mondo.
In genere gli scambi commerciali hanno come scopo primario il profitto, ottenuto rivendendo le merci a un prezzo più alto rispetto a quello a cui sono state acquistate (sommato alle varie spese, come quelle per il trasporto); il commercio equo e solidale invece è un tipo di scambio “etico”, il cui obiettivo più importante non è il guadagno finale, ma la creazione di rapporti economici tra i produttori dei Paesi del Sud del mondo e i consumatori dei Paesi sviluppati, che non implichino forme di sfruttamento. Le aziende che operano nel campo del commercio equo e solidale garantiscono che tutto il processo produttivo delle merci da loro offerte si svolge all’insegna della sostenibilità ambientale e del rispetto nei confronti dei produttori, che lavorano in condizioni dignitose (senza ricorrere, per esempio, al lavoro minorile) e ricevono per le loro prestazioni, o i loro manufatti, un compenso giusto.
Molti produttori che operano nel campo del commercio equo e solidale sono organizzati in cooperative, cioè aziende in cui tutti i lavoratori sono soci e si dividono equamente i guadagni. Per assicurare ai consumatori finali che i prodotti da loro acquistati rispettino davvero i criteri del commercio equo e solidale, sono nate nel mondo diverse organizzazioni che si occupano di controllare tutte le fasi di produzione e commercio di tali prodotti e di certificare, in genere tramite un bollino, la loro “genuinità”. Le più note autorità di certificazione sono Fairtrade International e European Fair Trade Association. Solo in Europa sono ormai oltre 80 000 i negozi che contemplano nel proprio assortimento prodotti equi e solidali.

IL PROBLEMA

5. Il nodo cruciale dell’educazione

Uno dei principali obiettivi di sviluppo umano perseguiti dall’Onu e dalle altre organizzazioni internazionali è migliorare la qualità dell’educazione nei Paesi in via di sviluppo, assicurando a tutti i giovani la possibilità di ricevere un’istruzione, almeno di base. L’educazione potrebbe sembrare una preoccupazione secondaria in Paesi dove la popolazione soffre problemi gravissimi come la denutrizione o la mancanza di cure mediche, ma gli studiosi concordano sul fatto che un adeguato livello di istruzione della popolazione sia una delle condizioni fondamentali per lo sviluppo di un Paese.
Tra gli otto Obiettivi del Millennio nel campo dello sviluppo umano, l’Onu ha inserito l’impegno a garantire l’educazione primaria a tutti i bambini del mondo. Negli ultimi anni i progressi in questo campo sono stati notevoli: tra il 1999 e il 2007 i bambini che frequentano la scuola primaria sono aumentati di 40 milioni, ma ne rimangono ancora 57 milioni in età scolare che non vanno a scuola. Come gli altri indicatori dello sviluppo umano, anche quelli relativi al livello dell’educazione evidenziano un grande divario tra i Paesi avanzati e quelli in via di sviluppo. Uno di questi indicatori è il tasso di alfabetizzazione, cioè la percentuale di individui di una popolazione che sanno leggere e scrivere.
Una persona analfabeta di solito si trova in una condizione di grave inferiorità, in quanto non può ricevere nemmeno un’educazione di base ed è in grado di svolgere solo i lavori meno specializzati. Si stima che attualmente siano circa 770 milioni gli analfabeti nel mondo, concentrati soprattutto nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale e orientale. Se nei Paesi avanzati l’alfabetizzazione sfiora il 100%, in alcuni Paesi arretrati, come per esempio il Mali, in Africa, il tasso di alfabetizzazione supera appena il 30%.
Il dato sull’alfabetizzazione riflette anche la difficile condizione delle donne in alcuni Paesi e le discriminazioni cui sono soggette, come l’impossibilità di frequentare la scuola. In Afghanistan, per esempio, il tasso di alfabetizzazione totale della popolazione è del 28%, ma considerando il dato per sesso si scopre che il 48% degli uomini, contro appena il 12% delle donne, sa leggere e scrivere. Altro dato da considerare è la speranza scolastica, cioè il numero medio di anni che un bambino nato in un Paese può aspettarsi di passare sui banchi di scuola. Se nei Paesi avanzati la maggior parte dei bambini e dei ragazzi frequenta la scuola per un periodo compreso tra i 15 e i 20 anni (in Italia la media è 17), cioè fino al diploma o alla laurea, nei Paesi in via di sviluppo molti non riescono neppure a completare l’istruzione primaria e frequentano la scuola solo per pochi anni (appena 3 in Somalia, 4 in Sudan, 7 nello Zambia).

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VERIFICA

CONOSCENZE

1. Evidenzia nel planisfero con tre colori diversi i Paesi che facevano parte, secondo la classificazione di Alfred Sauvy, del Primo, del Secondo e del Terzo mondo.


ABILITÀ

2. Inserisci i fenomeni elencati sotto nella colonna corrispondente al tipo di Paese a cui si adattano di più.


 manodopera altamente specializzata  Isu medio-basso  ex Paesi colonizzatori  Isu elevato  manodopera non specializzata a basso costo  ex Paesi colonizzati  crescita economica elevata  crescita economica bassa o inesistente


Grandi potenze industriali

Economie emergenti

   
   
   
   

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille