PERCORSO LA GUERRA

IL TEMA

1. I conflitti armati

Un conflitto armato è la conseguenza di un atto di violenza deliberata di un gruppo umano contro un altro. Se, da una parte, solo il 10% circa delle morti violente che si verificano nel mondo ogni anno avviene a causa di guerre (il 90% è dovuto alla criminalità comune), dall’altra i conflitti armati non si limitano, come si potrebbe immaginare, agli scontri tra le forze militari di Stati diversi. Esistono molti altri tipi di conflitti, dalle guerre civili, in cui varie fazioni lottano per acquisire o mantenere il potere all’interno di un Paese, agli scontri tra uno o più governi e movimenti armati che vogliono conseguire determinati obiettivi economici, politici o ideologici.
Si stima che nel 2016 vi siano 67 stati nel mondo coinvolti in guerre locali o a più ampio raggio.

Guerre mondiali e guerre locali

Dall’inizio del Novecento la natura della guerra ha subito radicali cambiamenti dal punto di vista tecnologico e di tragica “efficacia” dei suoi strumenti. Il picco fu raggiunto nell’agosto 1945 con lo sgancio di bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki che pose fine alla Seconda guerra mondiale. In tutto il mondo l’orrore degli anni vissuti pareva aver fatto prevalere il desiderio di pace e la nascita di organismi internazionali – come l’Organizzazione delle Nazioni Unite – che fossero in grado di garantirla a lungo. Però ciò non avvenne. Da subito il mondo fu infatti dominato dalla Guerra Fredda, lo scontro economico, politico e diplomatico (che in diverse occasioni rischiò di degenerare in guerra “calda”, cioè aperta) tra le due superpotenze mondiali emerse alla fine della Seconda guerra mondiale (1945): gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Lo scenario era complicato dal fatto che entrambi i Paesi disponevano di un ricchissimo arsenale di armi di distruzione di massa ( p. 328) e la ricerca scientifica e tecnologica per raffinarle, migliorarle e renderle sempre più micidiali era assai vivace. Quasi ogni Paese del mondo era alleato con una delle due superpotenze, e ogni conflitto che esplodeva era visto come uno “scontro a distanza” tra esse. Lo scenario dell’Estremo Oriente ne fu testimonianza: la guerra in Corea (1950-1953) e la successiva guerra in Vietnam (1955-1975) furono usate da dalle due superpotenze come occasione per accusarsi a vicenda di voler causare nuove guerre ad ampio raggio ma furono anche terreni di esperimenti di nuove armi e tecniche belliche. Un’altra area di conflitto fu l’Afghanistan, che venne invaso dall’Unione Sovietica nel 1979 e fu teatro di una sanguinosa guerra fino al 1989, quando le truppe sovietiche si ritirarono.
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, iniziò poi un periodo di instabilità interna nei Paesi che facevano parte della sua area di influenza politica e diplomatica: ci sono state rivoluzioni che hanno rovesciato i governi, come in Romania, altri ancora che hanno visto esplodere conflitti violentissimi, anche di natura etnica: è il caso dell’ex Iugoslavia, dove tra il 1991 e il 1999 il conflitto ha provocato centinaia di migliaia di morti e raccapriccianti episodi di violenza nei confronti della popolazione civile con conseguenze tuttora molto pesanti dal punto di vista della pacificazione e della convivenza tra persone di etnie diverse.
Gli Stati Uniti sono intervenuti in diverse parti del mondo per rispondere a presunte minacce alla loro sicurezza e all’equilibrio mondiale, dando inizio a conflitti come quelli in Afghanistan (iniziato nel 2001) e Iraq (2003-2011), che rientrano nella cosiddetta “guerra globale al terrorismo”.
Questi conflitti sono definiti “guerre asimmetriche”, in quanto uno degli avversari è molto più forte dell’altro sul piano militare. La parte più debole ricorre quindi a tattiche alternative allo scontro diretto (come la guerriglia e il terrorismo).

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2. Le cause dei conflitti

Indipendenza e autodeterminazione

Le motivazioni che danno vita ai conflitti armati sono sempre assai complesse. Svariati conflitti, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, sono nati dall’aspirazione dei paesi colonizzati da potenze occidentali – per lo più europee – a realizzare la propria indipendenza nazionale o di un popolo a rivendicare il diritto all’autodeterminazione, cioè a scegliere liberamente le proprie forme istituzionali. Altrettanto forte è stata la spinta a realizzare un’unica entità politica (nazionalismo) di popoli che si ritengono formati da una stessa etnia, anche, se necessario, distaccandosi (separatismo) dallo stato a cui sono aggregati: per fare alcuni esempi, i Paesi Baschi in Spagna e la popolazione cattolica dell’Irlanda del nord, vorrebbero l’indipendenza dai paesi cui appartengono, gli indipendentisti curdi a loro volta sono impegnati a creare uno Stato nella zona da loro abitata, il Kurdistan, attualmente diviso tra Turchia, Iran, Iraq, Siria.
Talora, poi, le difficoltà di convivenza tra i diversi gruppi etnici di uno stesso Paese, soprattutto quando il gruppo etnico prevalente discrimina quelli minori, degenerano in odio “razziale” e provocano conflitti sanguinosi fino ad arrivare a fenomeni cosiddetti di  pulizia etnica o di vero e proprio  genocidio (come è avvenuto in alcuni territori dell’ex Jugoslavia o in Sudan o tra Hutu e Tutsi in Ruanda).

Controllo delle risorse

Nelle guerre recenti dunque spesso motivi di diversa natura si intrecciano in modo inestricabile, anche se uno dei principali riguarda il possesso e lo sfruttamento delle risorse naturali. Acqua, terre fertili, risorse energetiche e minerarie non sono illimitate: governi e popolazioni lottano ogni giorno per accedervi o possederle. Conflitti violenti per il controllo delle risorse naturali si combattono frequentemente, per esempio, nell’Africa centrale – soprattutto Congo, Nigeria e Angola – dove si intrecciano a scontri di tipo etnico, religioso o ideologico, e non di rado le ragioni addotte mascherano il motivo del conflitto: è il caso della guerra civile in Colombia tra governo e gruppi armati, in cui una ragione sta nel controllo delle vaste piantagioni colombiane di coca, da cui si ottiene la cocaina che ha un valore economico immenso, o dei conflitti in Sierra Leone, luogo di estrazione di diamanti.

La dilagante minaccia del terrorismo

Ci sono gruppi armati che, per raggiungere i propri obiettivi, ricorrono al terrorismo compiendo attacchi e attentati contro la popolazione civile, facendo leva sui sentimenti di paura e insicurezza che i loro gesti suscitano nella gente per fare pressione sui loro avversari. Molti gruppi terroristici agiscono in un’area relativamente ristretta e hanno obiettivi limitati (come l’indipendenza di una nazione), mentre altri operano in diverse parti del mondo e hanno obiettivi più vasti. Tra i gruppi terroristici globali ci sono quelli legati al fondamentalismo islamico: appartenevano proprio al più noto di questi gruppi, al-Qaeda, i terroristi che l’11 settembre 2001 dirottarono alcuni aerei di linea, facendoli poi schiantare contro le due Torri Gemelle (i grattacieli del World Trade Center) di New York e l’edificio del Pentagono a Washington, causando in tutto circa 3000 morti. In risposta a questi attentati, gli Stati Uniti e i Paesi loro alleati hanno dato il via a una guerra globale contro il terrorismo, nell’ambito della quale rientrano gli interventi militari degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, i cui governi di allora erano stati accusati di dare rifugio e sostegno a gruppi terroristici.
Recentemente un altro gruppo terroristico fondamentalista ha cominciato ad agire anche in Europa: è il cosiddetto Isis, o Stato islamico, che ha compiuto nel 2015 e 2016 diverse stragi di civili soprattutto in luoghi pubblici e di ritrovo, azioni volte, oltre che a provocare morti, a seminare il panico sempre più generalizzato nelle persone e a farle sentire bersagli ovunque esse siano: nel gennaio del 2015 a Parigi due attentatori sono entrati nella redazione della rivista satirica Charlie Hebdo, che aveva pubblicato vignette satiriche relative a Maometto e hanno ucciso sette redattori; nel novembre dello stesso anno altri terroristi di questo gruppo sono entrati in un teatro di Parigi e contemporaneamente in alcuni ristoranti della capitale francese e sparando sulla folla hanno ucciso oltre 130 persone; pochi mesi dopo hanno fatto strage di civili nella metropolitana di Bruxelles. Altri episodi simili sono avvenuti in Germania e in Turchia, e questi eventi stanno lasciando ferite di paura sempre più profonde nella popolazione civile europea e non solo.

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3. Cooperazione e peacekeeping

L’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) è la maggiore organizzazione intergovernativa esistente al mondo, e attualmente conta tra i suoi membri 193 Stati. Fu fondata nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, con lo scopo di favorire la cooperazione tra i vari Paesi, risolvere le controversie tra Stati, promuovere la pace e migliorare le condizioni di vita della popolazione mondiale. L’Onu ha numerose sedi sparse in tutto il mondo; la principale si trova a New York, negli Stati Uniti, in un edificio chiamato “Palazzo di vetro”.

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Organi e agenzie dell’Onu

L’Onu dispone di diversi organi, incaricati di prendere decisioni sulle attività che essa svolge. L’organo principale dell’Onu è il Consiglio di sicurezza, formato dai rappresentanti di 15 Paesi: 5 fissi e 10 eletti ogni due anni tra tutti gli Stati membri; i Paesi che hanno un seggio fisso sono Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti, e per questo sono detti membri permanenti. Non è un caso che i membri permanenti siano le cinque potenze uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale e anche i cinque “Stati nucleari”, i primi Paesi ad aver ammesso di possedere armi atomiche. I rappresentanti del Consiglio di sicurezza si occupano di votare le risoluzioni, cioè le decisioni più vincolanti che l’Onu può prendere, e che teoricamente tutti i 193 Paesi membri sono tenuti a rispettare. Una risoluzione viene approvata se votano a favore 9 dei 15 Paesi del Consiglio, ma ciascuno dei cinque membri permanenti possiede il diritto di veto, può cioè bloccare una risoluzione con il suo solo voto contrario, anche se tutti gli altri l’hanno approvata.
Molte delle attività che fanno capo all’Onu vengono gestite da agenzie specializzate, ciascuna delle quali si occupa di promuovere un particolare aspetto della cooperazione tra Paesi e dello sviluppo umano nel mondo, dalle politiche agricole (FAO), alla diffusione dell’istruzione e della cultura (UNESCO), alla sanità (WHO), all’emergenza dei rifugiati che fuggono dalle zone di guerra (UNHCR).

Come interviene l’Onu nelle controversie internazionali

In alcuni casi l’Onu può intervenire direttamente contro un Paese che si renda responsabile di violazioni del diritto internazionale o dei diritti umani. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza può stabilire, per esempio, l’imposizione di sanzioni internazionali, che possono consistere nel divieto a tutti i Paesi membri dell’Onu di esportare armi, o addirittura tutte le merci che non siano beni di prima necessità (come cibo e medicine), nella nazione in questione; in alcuni casi le sanzioni possono estendersi anche all’altro senso, vietando allo Stato che ne è soggetto di vendere i propri prodotti all’estero. Tra i Paesi attualmente oggetto di sanzioni Onu ci sono, per esempio, l’Iran e la Corea del Nord, che hanno violato il Trattato di non proliferazione nucleare avviando programmi per dotarsi di armi atomiche. L’Onu può inoltre decidere di inviare contingenti militari nei Paesi teatro di conflitti armati, con il compito di proteggere la popolazione civile o impedire fisicamente alle fazioni in conflitto di venire a contatto. Le operazioni militari di questo tipo vengono dette di peacekeeping (“mantenimento della pace” in inglese).
Poiché l’Onu non dispone di forze armate proprie, impiega soldati volontari messi a disposizione dai Paesi membri, chiamati “Caschi blu” per la loro uniforme. Attualmente le missioni di peacekeeping promosse dall’Onu sono 16 e attive in quasi ogni continente, sebbene l’organismo sembri sempre meno efficace nel risolvere il complesso panorama delle controversie internazionali.

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IL PROBLEMA

3. La tecnologia al servizio della guerra

Le armi di distruzione di massa

Sono chiamate così le armi in grado di uccidere un grandissimo numero di persone nel corso di un solo attacco. Esse si dividono in tre categorie: nucleari (le bombe atomiche), biologiche (virus e batteri usati come arma per infettare il nemico) e chimiche (sostanze in grado di provocare gravi danni o uccidere, come i gas nervini).
Tra queste, le più temute sono le armi nucleari, potenzialmente in grado di uccidere gran parte della vita sulla Terra se utilizzate su larga scala, come si temeva potesse succedere durante la Guerra Fredda. Attualmente sono otto i Paesi che hanno ammesso di possedere armi nucleari: per primi i cosiddetti “Stati nucleari” (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), cui si sono aggiunti India, Pakistan e Corea del Nord.
Molti Stati hanno firmato accordi internazionali per limitare la produzione di armi di distruzione di massa e il loro uso: il primo accordo è stato il Trattato di non proliferazione nucleare (1970), seguito dalla Convenzione sulle armi biologiche (1975) e dalla Convenzione sulle armi chimiche (1997). Purtroppo non tutti i Paesi del mondo hanno aderito a tali accordi; molti, al contrario, hanno intrapreso programmi per dotarsi di armi nucleari (come l’Iran) o hanno usato armi chimiche, a volte contro la loro stessa popolazione, come in Iraq nel 1988, quando il regime del dittatore Saddam Hussein attaccò con il gas nervino alcuni villaggi abitati dalla minoranza curda.

Cyberguerra, la nuova frontiera della guerra invisibile

Il mondo contemporaneo per molti aspetti è ormai completamente dipendente dai sistemi informatici, e anche gli eserciti, le armi e le agenzie di spionaggio sono sempre più “computerizzati”: le reti controllano i sofisticati sistemi dei droni, gli aerei senza pilota che compiono missioni di ricognizione e attacco sul territorio nemico; informazioni e piani militari top secret sono registrati in banche dati informatiche custodite in centri governativi altamente sorvegliati. La stessa rete Internet nacque come sistema militare, progettato negli anni Sessanta del Novecento per garantire le comunicazioni tra le basi militari americane in caso di attacco nucleare sovietico.
Non sorprende dunque che una parte sempre maggiore dei conflitti tra Paesi e gruppi armati avvenga dietro lo schermo di un computer: le forze armate e di spionaggio di molti Stati hanno da tempo reclutato squadre di hacker incaricati di “fortificare” le loro infrastrutture informatiche contro le intrusioni nemiche, e nello stesso tempo di tentare a loro volta di entrare nei sistemi informatici avversari per carpire informazioni importanti. Una “guerra informatica” di questo tipo è in corso da anni, per esempio, tra Stati Uniti e Cina.
I sistemi informatici sono ormai usati per controllare moltissime infrastrutture, come centrali nucleari, dighe, aeroporti, sistemi di depurazione dell’acqua e così via. La preoccupazione di molti Stati è che Paesi avversari o gruppi terroristici possano infiltrarsi nei sistemi informatici di queste strutture “critiche” e provocare il loro malfunzionamento, causando danni e vittime “reali”. Un’azione del genere sarebbe considerata, sul piano dei rapporti tra Stati, un autentico atto di guerra.

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Il commercio delle armi: un fiorente mercato di morte

Accanto al commercio legale di armamenti, che vede come acquirenti soprattutto gli eserciti dei vari Stati, fiorisce in tutto il mondo il traffico illegale delle armi, che muove ogni anno un giro d’affari di circa un miliardo di dollari. I principali clienti di questo traffico sono i vari movimenti armati politici, ideologici o religiosi che combattono con le tattiche della guerriglia e del terrorismo, oltre alle organizzazioni criminali che, essendo sottoposti a sanzioni internazionali, sono costretti a ricorrere al mercato nero per acquistare armi e mezzi.
Per quanto riguarda la vendita, operano anche qui organizzazioni criminali, che si occupano del trasporto clandestino delle armi, oltre ad alcuni Stati compiacenti che spesso vogliono disfarsi dei loro vecchi arsenali. La maggior parte delle armi trafficate illegalmente viene infatti dai Paesi dell’ex blocco sovietico, che alla fine della Guerra Fredda si sono ritrovati con ingenti quantità di armamenti prodotti in previsione di una guerra con gli Stati Uniti.

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L’ambiente e la salute vittime della guerra

La guerra viene generalmente immaginata solo come uno scontro tra esseri umani, mentre non bisogna dimenticare gli ingenti danni all’ambiente e alla salute che vengono causati e che aumentano di migliaia e migliaia il numero delle vittime. Molti danni sono parte di una strategia, oppure sono la conseguenza imprevista dell’uso di particolari armi. Durante la guerra in Vietnam (1955-1975), per esempio, i soldati dell’aeronautica americana irrorarono migliaia di chilometri quadrati di foreste nel Vietnam del Sud con enormi quantità di una sostanza chimica chiamata agente arancio. Si trattava di un defoliante, un composto che causa la perdita delle foglie ad alberi e piante, impiegato per impedire ai guerriglieri nordvietnamiti di nascondersi nelle foreste. Si stima che durante il conflitto furono usati quasi 80 milioni di litri di agente arancio, e altre sostanze simili, sul 35% delle fitte foreste sudvietnamite, causando gravissimi danni all’ecosistema.
Non mancano poi casi di disastri ambientali provocati per pura rappresaglia. Fu quanto avvenne nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, quando una coalizione di Paesi intervenne in Medio Oriente per fermare l’invasione del Kuwait da parte del vicino Iraq: il dittatore iracheno Saddam Hussein, costretto a ritirarsi dai territori occupati, ordinò di bruciare i pozzi di petrolio presenti nel deserto kuwaitiano e di aprire le valvole degli oleodotti che portavano il petrolio ai porti del golfo Persico, causando la dispersione di un’enorme quantità di petrolio in mare. Furono dati alle fiamme oltre 700 pozzi, e circa 1,5 milioni di m3 di petrolio contaminarono le acque del golfo, provocando la morte di moltissimi pesci e uccelli marini. E fu proprio alla fine di questo conflitto che si cominciò a parlare delle possibili conseguenze del cosiddetto uranio impoverito sulla salute dell’uomo. Si tratta di un prodotto di scarto delle centrali nucleari, che viene usato nella fabbricazione di alcuni tipi di proiettili poiché, essendo molto pesante, aumenta il loro potere di penetrazione. Alcuni anni dopo la fine della guerra del Golfo, ma anche in seguito ad altri conflitti, come quello in Kosovo (avvenuto nell’ex Iugoslavia tra il 1998 e il 1999), si cominciò a notare un aumento dell’incidenza di alcune particolari malattie, come tumori e leucemie, tra i soldati e i civili che avevano prestato servizio o vivevano nelle aree teatro degli scontri. Non è ancora stato stabilito con certezza il legame tra l’uso dei proiettili con uranio impoverito e queste malattie, ma l’ipotesi è che l’uranio dei proiettili sparati si sia ridotto in polvere e abbia contaminato il suolo, e che possa risultare nocivo se ingerito o respirato, anche a distanza di anni.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille