PERCORSO LA CITTÀ VERSO IL FUTURO

IL TEMA

1. La città globale

Come abbiamo già visto nel volume 1, a partire dal 2010 la percentuale della popolazione che risiede nelle città ha superato quella delle campagne; inoltre una serie di fenomeni connessi al processo di globalizzazione economica e culturale sta contribuendo ad annullare le distanze tra comunità, popoli e culture, tanto che non appare più così strana l’ipotesi secondo cui, in un futuro prossimo, buona parte della superficie terrestre sarà coperta da un’unica, grande città.
La metafora del villaggio globale, utilizzata dal sociologo Marshall McLuhan per indicare la fitta rete di comunicazioni istantanee fra le varie parti del mondo, si può ormai estendere fino a includere gli scambi di persone, merci, beni e servizi: sistemi di trasporto aereo e ferroviario veloci e a basso costo; la creazione di “autostrade digitali” sulle quali transitano quantità enormi di dati; formazione dei social network; la sempre maggior diffusione del commercio online, che consente di procurarsi beni in qualsiasi parte del mondo senza passare per i canali di distribuzione tradizionali: sembra che tutti gli individui possano considerarsi cittadini del mondo; la vita urbana non è più limitata all’esperienza della città tradizionale, la quale sta progressivamente cedendo il passo a modelli alternativi, che riflettono mutati stili di vita.

Il mondo in una città: le “città globali”

Oggi le peculiarità del mondo contemporaneo sembrano incarnarsi in alcune particolari città, divenute simbolo dei nuovi stili di vita legati alla globalizzazione, nonché i principali centri da cui le tendenze della stessa globalizzazione si irradiano verso altre città e Paesi. Si tratta, secondo la definizione della sociologa Saskia Sassen, delle città globali, che si distinguono per essere sede di importanti mercati commerciali e finanziari, dei quartieri generali delle multinazionali, delle più influenti istituzioni e organizzazioni internazionali.
Esse non sono necessariamente i centri urbani più grandi del mondo (anche se molte, come vedremo, sono megacittà e fanno parte di megalopoli): la città svizzera di Zurigo, per esempio, conta meno di 400 000 abitanti ma è una città globale in quanto sede di uno dei maggiori mercati finanziari mondiali, mentre la capitale del Pakistan, Karachi, oltrepassa i 23 milioni di abitanti ma non è considerata una città globale.
Le città globali sono inoltre caratterizzate dalla presenza e dalla fusione di svariati stili di vita e culture, ospitano comunità di abitanti provenienti da quasi ogni Paese del mondo e, per la presenza di questi aspetti “globali” che trascendono le differenze tra Paesi, assomigliano l’una all’altra più che non alle altre città dello Stato in cui si trovano. Questa “omogeneità” nell’aspetto e nei servizi offerti è dovuta anche alla presenza, nel loro territorio, dei cosiddetti “non luoghi”.

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• SOTTO LA LENTE • CIVILTÀ

Centri commerciali e aeroporti: i "non luoghi" della globalizzazione

Che cosa hanno in comune il terminal di un aeroporto internazionale, la hall di un grande albergo, il punto vendita di una catena di negozi di abbigliamento o di fast food, e un centro commerciale? Sono tutti “non luoghi”, secondo la definizione dell’antropologo francese Marc Augé.
Al contrario dei “veri” luoghi, o luoghi antropologici, la cui natura è influenzata dal luogo geografico in cui si trovano e dalla sua storia, i “non luoghi” sono ambienti fuori dallo spazio e dal tempo; fuori dallo spazio perché progettati appositamente per essere tutti uguali, in modo da risultare familiari a chiunque li visiti; fuori dal tempo perché in essi si vive in una sorta di eterno presente, con gli stessi servizi offerti a ogni ora (come il terminal di un aeroporto con negozi e ristoranti aperti 24 ore su 24). I “non luoghi” sono uno dei segni più evidenti della globalizzazione economica e culturale. Visitando le grandi città globali, da New York a Shanghai, da Rio de Janeiro a Milano, ci si imbatte in centri commerciali praticamente identici l’uno all’altro, con i negozi delle medesime catene che offrono prodotti uguali ovunque, e gli stessi ristoranti che propongono menu noti a tutti.
Un’altra differenza tra i luoghi antropologici e i “non luoghi” risiede nelle relazioni tra coloro che li frequentano. In un luogo “tradizionale” le relazioni e gli scambi sociali tra le persone sono un aspetto fondamentale; in un “non luogo”, invece, migliaia di persone possono passare una accanto all’altra senza entrare in contatto, dato che l’interesse principale di chi realizza questi ambienti non è favorire le relazioni tra persone, ma offrire loro beni e servizi. Secondo i detrattori della globalizzazione, la proliferazione dei “non luoghi” negli spazi urbani causerebbe un impoverimento del tessuto sociale della comunità, favorendo l’individualismo e il consumismo (cioè la tendenza a ridurre la felicità personale al possesso o all’acquisto di beni materiali). Ma la questione non è così semplice: l’uomo è per natura un animale sociale e lentamente sta imparando a riappropriarsi dei “non luoghi”. I grandi centri commerciali, per esempio, sono diventati uno dei contesti di socializzazione preferiti dai giovani.

2. Dalle città alle megacittà

Con la terza rivoluzione industriale, che ha interessato i Paesi avanzati a partire dalla metà del XX secolo, i servizi hanno sostituito l’industria nel ruolo di settore trainante dell’economia. Molte delle città più grandi si sono così trasformate da centri industriali a sedi di attività che forniscono servizi. Spesso le aree industriali sorte entro i confini urbani sono state abbandonate in seguito al trasferimento delle fabbriche in zone più lontane o all’estero; gli ampi spazi dismessi sono stati riconvertiti in aree residenziali, commerciali, culturali o di uffici.
Nel frattempo, molte città dei Paesi in via di sviluppo, in America Latina, Asia e Africa, hanno vissuto in forma accelerata l’evoluzione delle città occidentali (spesso saltando alcuni passaggi, come quello industriale), e lo hanno fatto in un modo tumultuoso e caotico, che ha esasperato i problemi già manifestati nelle città europee.

Cambia il lessico delle città

Le città contemporanee hanno raggiunto dimensioni e livelli di complessità tali da spingere gli studiosi a inventare nuove definizioni per classificarle, basate sui livelli di grandezza e su specifiche caratteristiche. Queste definizioni però non sono sempre precise, e talvolta si sovrappongono.
Una metropoli è una grande città (di solito di oltre un milione di abitanti) che si distingue per essere un importante punto di riferimento per la regione in cui si trova.
Una metropoli di solito fa parte di un’area metropolitana, che comprende il territorio della metropoli e la zona circostante, costituita da campagne urbanizzate e centri minori inglobati dall’espansione della città più grande.
Un’area metropolitana con oltre 10 milioni di abitanti è chiamata megacittà. Attualmente se ne contano quasi 30 nel mondo, tra cui Tokyo, Mosca, Londra, New York, Mumbai, San Paolo ecc. e, con il progressivo aumento dell’urbanizzazione, il loro numero è destinato a crescere.
Due o più città, metropoli o megacittà possono fondersi per formare una conurbazione (per esempio quella che comprende le megacittà cinesi di Shanghai, Hangzhou e altri centri, per un totale di oltre 100 milioni di abitanti). Ancora più complesso, come vedremo, è il concetto di megalopoli.

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Nel cuore della GEOGRAFIA

Le città dai grandi numeri

Qual è la città più grande del mondo? La risposta a questa domanda è meno semplice di quanto possa sembrare. Se per “città più grande” si intende, come si fa di solito, città con il maggior numero di abitanti, allora tutte le statistiche sono d’accordo: la città più grande del mondo è la capitale del Giappone, Tokyo, con i suoi oltre 37 milioni di abitanti. Questo primato, però, vale solo se si considera l’area metropolitana, cioè il nucleo della città vera e propria unito ai suoi sobborghi e ai centri minori della periferia.
Se si considera invece la città propriamente detta, cioè quella soggetta al governo di un’unica amministrazione comunale, scopriamo che Tokyo è solo quattordicesima, con circa 9 milioni di abitanti, mentre la città più grande del mondo diventa la cinese Shanghai, che conta quasi 29 milioni di abitanti soggetti a un’unica amministrazione.
Se poi per “città più grande” non si intende il numero di abitanti, ma la grandezza fisica, cioè l’estensione dell’abitato, allora il primato va a New York, il cui tessuto urbano si estende su una superficie di 8683 km2, mentre Tokyo è al secondo posto con una superficie di 6993 km2.

Le megalopoli

Le megalopoli – dai termini greci mégas, “grande”, e pólis, “città” – sono il più vasto tipo di insediamento urbano finora realizzato dall’uomo. A dispetto del nome simile, una megalopoli non è una megacittà, in quanto non è formata da un solo centro che si è espanso a dismisura; e non è neppure una conurbazione, perché i centri che la compongono non si sono uniti in modo tale da formare un unico, indistinguibile tessuto urbano. Una megalopoli è invece un insieme di centri urbani che si sono moltiplicati e allargati fino a formare un’unica realtà urbana, spesso di dimensioni regionali. In una megalopoli possono essere presenti aree poco popolate, come terreni agricoli e zone naturali (boschi o montagne), ma ciò che fa della megalopoli un’unica realtà è il fatto che gli insediamenti urbani che la compongono sono uniti da una fitta rete di vie di comunicazione (strade, autostrade e ferrovie) e scambi commerciali.
Il termine megalopoli fu usato per la prima volta negli anni Sessanta del Novecento per indicare l’area densamente urbanizzata nel Nord-Est degli Stati Uniti, che comprende le città di Boston, New York, Filadelfia, Baltimora e Washington; ma le megalopoli possono estendersi anche oltre i confini tra Stati, come nel caso di un’altra megalopoli americana, quella dei Grandi Laghi, che comprende le metropoli statunitensi di Chicago e Detroit e quelle canadesi di Toronto e Montréal ( carta). Una delle più estese megalopoli finora identificate è il Corridoio di Tokaido, che unisce gran parte dei centri urbani della costa giapponese affacciata sull’oceano Pacifico (tra cui Tokyo, Osaka, Kyoto e Kobe); qui risiedono oltre 80 dei 126 milioni di abitanti dell’intero Giappone ( carta).
In Europa è considerata una megalopoli la fascia che va dal Sud del Regno Unito fino alla pianura Padana in Italia, passando per il Benelux (l’area che comprende Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) e la Germania occidentale. Chiamata Dorsale europea, è detta anche “banana blu” a causa della forma e del colore che assume nelle fotografie notturne scattate dai satelliti ( carta).

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IL PROBLEMA

3. Il volto povero delle grandi città

Si chiamano slums in India, bidonvilles in alcuni Paesi africani, favelas in Brasile: le grandi baraccopoli che circondano le città dei Paesi in via di sviluppo o emergenti hanno molti elementi in comune. Sono i quartieri più degradati, sorti dove nessuno vorrebbe mai abitare: ripide alture (come molte favelas di Rio de Janeiro), aree paludose, discariche o zone contaminate da rifiuti chimici. Le precarie abitazioni sono fatte con materiali di recupero come assi o lamiere; le case crescono disordinatamente le une sulle altre, senza controllo. I servizi pubblici sono del tutto assenti: le strade non sono asfaltate e le abitazioni non hanno fognature, acqua corrente ed elettricità. Mancano scuole, ambulatori medici e ospedali (tranne quelli gestiti delle organizzazioni umanitarie), così come qualsiasi forma di attività commerciale e produttiva.
Le baraccopoli sono il risultato dell’espansione urbana delle megacittà dei Paesi emergenti, e ospitano tutti coloro che, tra i milioni di persone emigrate dalla campagna, non riescono a integrarsi nel tessuto cittadino, trovandosi così costretti a sopravvivere per mezzo di espedienti, come il recupero e la vendita di materiali di scarto.
Si stima che nel mondo siano oltre 800 milioni le persone che risiedono nelle baraccopoli, concentrate soprattutto ai margini delle città indiane (la baraccopoli di Dharavi a Mumbai, per esempio, è una delle più grandi del mondo, con circa un milione di abitanti), del Sudest asiatico, africane e dell’America Latina.
I problemi che affliggono gli abitanti delle baraccopoli sono molti e gravi: estrema povertà, precarie condizioni di salute, abuso di droga, criminalità. I governi spesso non hanno le risorse per affrontare questa emergenza, e le organizzazioni umanitarie non sono in grado di aiutare tutti.
La speranza è che i benefici dell’espansione economica di alcuni Paesi, come India o Brasile, possano arrivare anche alle zone più sfortunate. Le statistiche sono incoraggianti: negli ultimi anni il numero degli abitanti delle baraccopoli è diminuito di oltre 200 milioni.

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Favelas, un futuro migliore

Per la loro estensione e per il numero di persone che li abitano (circa un quarto della popolazione totale del Brasile), i quartieri degradati delle metropoli brasiliane sono entrati nell’immaginario comune, tanto che il loro nome, favelas, è usato ormai per indicare anche le baraccopoli di altri Paesi.
Nate alla fine del XIX secolo, le favelas sono cresciute a dismisura dagli anni Settanta del Novecento, quando l’esodo rurale portò milioni di contadini nelle città. Attualmente in Brasile sono quasi 2000, delle quali 600 a Rio de Janeiro e 500 a San Paolo.
Le favelas brasiliane condividono la maggior parte dei problemi delle baraccopoli del resto del mondo, ma inaspettatamente, negli ultimi anni, molte di esse sono state citate come esempio positivo di sviluppo urbano. Merito dell’espansione economica che ha interessato il Brasile, la quale, pur con tutte le gravi disuguaglianze economiche e sociali che sussistono nel Paese, ha portato un aumento del livello di benessere anche alle fasce più povere della popolazione. In molte favelas gli edifici in muratura hanno cominciato a sostituire le baracche, e si stanno diffondendo i servizi essenziali come le fognature, l’acqua corrente e l’elettricità.
La speranza è che questo “modello” di sviluppo possa essere esportato anche nel resto del mondo.

IL TEMA

4. Le città, da residenza a centro di servizi

Fin dall’antichità (con la sola eccezione dei primi secoli del Medioevo europeo) le città sono state i centri da cui si irradiavano il potere politico e quello religioso.
Ancora oggi la maggior parte dei luoghi in cui si esercitano questi poteri – come i palazzi che ospitano le assemblee legislative (i parlamenti), le residenze di sovrani o di importanti cariche politiche, le chiese e i templi, le sedi di organi e istituzioni internazionali – si trova nelle grandi città. Molti di questi edifici sono divenuti col tempo opere di interesse storico, architettonico e artistico, e a volte monumenti simbolo del Paese in cui si trovano (basti pensare alla Casa Bianca a Washington o al palazzo del Quirinale a Roma).
In molte città, soprattutto i capoluoghi regionali e le capitali statali, ci sono poi edifici che ospitano i numerosi uffici e le istituzioni della “macchina amministrativa” di un territorio: i tribunali, gli uffici delle tasse, gli enti che gestiscono i servizi sociali.
Nei centri urbani si trovano infine tutti i servizi al cittadino tipici delle società evolute: scuole, istituti di istruzione superiore (come le università), ospedali, oltre ai servizi “di base”, come gli impianti per la raccolta dei rifiuti e l’erogazione dell’acqua potabile e dell’energia elettrica (servizi che non sono affatto scontati nelle aree rurali). Le statistiche indicano che, nonostante i problemi delle città, la popolazione urbana, proprio grazie a questo accesso privilegiato ai servizi, ha in media un maggiore livello di istruzione, un reddito più elevato, una maggiore aspettativa di vita e, in generale, un miglior stato di salute rispetto alla popolazione che abita nelle aree rurali.
Negli ultimi decenni, fenomeni come l’aumento della percentuale di diffusione delle automobili, il miglioramento dei trasporti pubblici che collegano le città ai centri vicini (come le ferrovie suburbane) e lo sviluppo di una fitta rete di telecomunicazioni nei Paesi sviluppati hanno fatto sì che una persona possa avere facile accesso ai servizi della città risiedendo a una distanza maggiore dal centro cittadino rispetto a quanto avveniva in precedenza. In altri termini, la nascita o la maggiore diffusione di comportamenti come il pendolarismo (cioè lo spostarsi ogni giorno su distanze medie e lunghe per raggiungere il posto di lavoro), il lavoro svolto a distanza e l’uso di Internet per acquistare beni e servizi o per interagire con le istituzioni hanno permesso anche a chi non risiede nel cuore di una città di adottare uno stile di vita “cittadino”. Queste nuove risorse hanno reso ormai sorpassata la tradizionale struttura cittadina a cerchi concentrici, con zone e quartieri sempre più esclusivi e ricchi a mano a mano che ci si avvicina al centro.
Oggi infatti, almeno in molte città dei Paesi avanzati come gli Stati Uniti e gli Stati europei, questo modello non vale più perché, a partire degli ultimi decenni del XX secolo, si è assistito al fenomeno della “deurbanizzazione”, cioè la “fuga” dalla città, e in particolare dal centro. I motivi di questa fuga sono in genere quelli legati ai problemi tipici della vita cittadina, come l’inquinamento, la criminalità e soprattutto i prezzi elevati delle abitazioni, che inducono molte persone a spostarsi nelle aree circostanti.
Le città si sono quindi aperte verso l’esterno: in Paesi come gli Stati Uniti tutto questo ha significato soprattutto la nascita di grandi sobborghi residenziali nelle periferie, abitati soprattutto dalle classi medie e alte, mentre nei Paesi dalla storia urbana più antica, come l’Italia, si è verificata una rinascita dei centri urbani medi e piccoli intorno alle grandi città, dove sono sorti anche parchi commerciali e complessi di uffici trasferitisi dai costosi centri cittadini.
Accanto a questi di modelli di espansione e “apertura” delle città, che avvengono in maniera per lo più ordinata secondo specifici progetti, esistono anche tipologie di espansione più disordinata.

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5. La nuova sfida: città a misura d’uomo

La pianificazione dei centri urbani contemporanei è molto complessa, e deve tenere conto di numerosi fattori, dalla larghezza delle strade all’altezza degli edifici, dalla collocazione dei parchi al percorso e alle fermate dei mezzi pubblici, dalla costruzione di infrastrutture di pubblica utilità alla gestione di servizi come l’illuminazione stradale e la raccolta dei rifiuti; tutto questo per rendere più razionali i “meccanismi” della città e migliorare la qualità della vita degli abitanti.
L’intento è quello di creare città “a misura d’uomo”, in cui è la città a essere al servizio del cittadino e non il contrario.
L’urbanistica contemporanea è giunta poi alla conclusione che il modello di crescita senza freni dei centri urbani, prevalente fino ad anni recenti, non è più praticabile in quanto provoca gravi danni all’ambiente e comporta un consumo indiscriminato di risorse. Il nuovo modello è quello della sostenibilità applicata allo sviluppo delle città, con misure volte a limitare gli sprechi in ogni campo: per esempio la promozione delle energie rinnovabili (come quella solare), oppure il potenziamento dei mezzi pubblici che, unito alle politiche per favorire i mezzi di trasporto non inquinanti (come la realizzazione di piste ciclabili), dovrebbe limitare il numero dei veicoli a motore in circolazione e quindi l’inquinamento. Purtroppo questo nuovo modello si è finora imposto soltanto in alcuni Paesi avanzati (soprattutto quelli europei, e anche qui con molte eccezioni e resistenze), mentre i Paesi emergenti come Cina e India, proprio dove l’espansione urbana è attualmente più intensa, nella maggior parte dei casi stanno abbracciando ancora il modello della crescita continua e indiscriminata.
L’espansione dei centri urbani, specialmente se incontrollata, è un fenomeno ormai molto criticato nei Paesi avanzati, in quanto comporta numerosi problemi dal punto di vista ambientale e di utilizzo delle risorse.
Sono viste favorevolmente, invece, le opere di riqualificazione urbana, cioè i lavori di ristrutturazione e riconversione di edifici o di interi quartieri cittadini. Il caso tipico, di cui abbiamo già parlato, è quello delle grandi aree industriali che si sono liberate negli ultimi decenni del XX secolo con il passaggio da un’economia basata sull’industria a una fondata sui servizi. Spesso l’intero lavoro di riqualificazione è affidato a un singolo gruppo di architetti e urbanisti, quindi il risultato risponde a criteri urbanistici unitari. Un esempio è il quartiere Bicocca a Milano, che ospitava fino agli anni Ottanta del Novecento un grande polo industriale. Con la dismissione della maggior parte degli stabilimenti è iniziato un vasto lavoro di riqualificazione, che ha portato alla costruzione di complessi residenziali, ma anche di opere di interesse pubblico come l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e il teatro degli Arcimboldi.
Nelle città sorte lungo le coste o le rive dei fiumi, invece, sono state frequentemente oggetto di riqualificazione le aree dei porti e delle loro infrastrutture (magazzini ecc.), le cui attività sono cessate o sono state trasferite. È il caso dei Docklands di Melbourne, in Australia, il quartiere portuale affacciato sull’oceano che è stato trasformato con la costruzione di complessi residenziali e di uffici, ma anche di stadi sportivi, centri commerciali, bar e ristoranti.

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VERIFICA

CONOSCENZE

1. Inserisci i fenomeni elencati sotto nella colonna corrispondente (alcuni potrebbero comparire in entrambe).


 baraccopoli  megacittà  megalopoli  deurbanizzazione  criminalità urbana  favela  città pianificata


Paesi avanzati

Paesi in via di sviluppo

   
   
   
   

ABILITÀ

2. Osserva il grafico, che illustra la variazione del tasso di urbanizzazione nei vari continenti, e rispondi alle domande.


a. Quale periodo di tempo prende in considerazione il grafico? Perché sono indicati anche dei decenni futuri?
b. Come mai il tasso di urbanizzazione di Europa e Nord America era molto più alto di quello degli altri continenti negli anni riportati all’inizio del grafico?
c. Perché in Asia e in Africa il tasso di urbanizzazione nel periodo considerato è aumentato più che negli altri continenti?
d. Perché il tasso di urbanizzazione di Europa, Nord America e Oceania aumenta sempre meno, o addirittura diminuisce, con l’andare del tempo? A quale fenomeno è dovuta questa diminuzione?

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille