Capitolo 22 - Nascono le dinastie: da Tiberio a Domiziano

Capitolo 22 NASCONO LE DINASTIE: DA TIBERIO A DOMIZIANO

i concetti chiave
  • Il problema della successione viene risolto da Ottaviano Augusto attraverso l’adozione di Tiberio, figlio della seconda moglie Livia Drusilla
  • Tiberio (14-37 d.C.) governa all’insegna della moderazione, della continuità e del controllo della spesa pubblica
  • Caligola (37-41 d.C.) instaura un regime dispotico e tenta di imporre la divinizzazione della sua figura
  • Claudio (41-54 d.C.) consolida l’impero rinforzando le infrastrutture ed estende la cittadinanza romana ad alcune province come la Gallia
  • Nerone (54-68 d.C.) opera per l’integrazione fra province orientali e occidentali; si oppone all’aristocrazia e introduce il culto dell’imperatore
  • Anno dei quattro imperatori (69 d.C.): lotta per la successione vinta da Vespasiano
  • Vespasiano (69-79 d.C.) reprime la rivolta di Gerusalemme; estende la cittadinanza e proclama la superiorità del princeps
  • Domiziano (81-96 d.C.) prosegue l’accentramento del potere: crescita della spesa pubblica per ottenere il consenso della plebe, finanziata con confische e aumento delle tasse
  • Decadenza dell’Italia, che subisce la concorrenza della maggiore efficienza delle province, e passaggio dal latifondo al colonato

1. L’inizio della dinastia Giulio-Claudia: Tiberio e Caligola

Augusto morì nel 14 d.C., lasciando uno Stato prospero e in pace. Poco prima della sua morte dovette risolvere un problema fondamentale per le sorti del potere che aveva accentrato attorno alla sua persona e che avrebbe avuto conseguenze anche negli anni successivi: egli mirava a salvaguardare tale potere trasmettendolo a un unico successore, ma voleva al contempo evitare una svolta apertamente monarchica. L’istituzione della repubblica era infatti ancora in vigore e non prevedeva una possibilità di successione istituzionale; inoltre, Augusto stesso non era un sovrano né deteneva un potere univoco, bensì tante cariche diverse. Egli adottò quindi una soluzione che divenne in seguito consuetudine con forza di norma, pur senza mai diventare regola scritta: il successore designato veniva progressivamente inserito nell’esercizio del potere e legittimato agli occhi dell’esercito.
In assenza di eredi diretti, nel 4 d.C. Augusto adottò il figliastro Tiberio Claudio, figlio di un precedente matrimonio della moglie Livia con Tiberio Claudio Nerone, entrambi appartenenti alla gens Claudia; dal momento che Augusto proveniva dalla gens Iulia, l’adozione diede vita alla gens Iulia-Claudia (Giulio-Claudia). In questo modo egli di fatto aveva designato il suo successore, e nel corso degli ultimi anni di governo trasferì a lui tutti i suoi poteri.
Nominando suo successore Tiberio con largo anticipo, Augusto ebbe il tempo di legittimarne la figura al cospetto del senato, dei comizi e della popolazione, e lo portò ad acquisire l’autorevolezza e l’esperienza di governo necessarie per succedergli al momento opportuno, senza lasciare vuoti di potere.
Tuttavia, non aver fissato per legge le procedure per la successione, a causa della necessità di rispettare il carattere “repubblicano” del governo imperiale, lasciò aperti costanti rischi di guerra civile e molte questioni irrisolte. Le modalità di scelta e il sostegno all’erede designato erano quindi soggette a variabili indefinite in cui fondamentale era il rapporto che si instaurava tra il princeps, il senato, i generali delle legioni e i governatori delle province. Il compromesso, che lo storico Tacito chiamò «il segreto dell’impero», resse con fatica per tutto il secolo di governo della dinastia Giulio-Claudia: l’aristocrazia senatoria si adattò a questa pratica ma non rinunciò a difendere le sue prerogative e i suoi privilegi.

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Nel cuore della STORIA

La pratica dell’adozione

Augusto, per designare il suo successore, ricorse a una pratica che fin dall’età arcaica era utilizzata dal pater familias. L’adozione di persone esterne alla famiglia come eredi, con pieni diritti di successione, era la minaccia più grave a cui un padre poteva ricorrere per garantirsi l’obbedienza dei figli e controllarne i comportamenti. Si procedeva con l’adozione anche in assenza di figli maschi per evitare la dispersione del patrimonio. Era il pater familias dunque a decidere l’adozione, e la sua scelta non era discutibile. Di norma l’adozione avveniva tra membri di famiglie patrizie, ma era comune anche l’adozione di un inferiore (un plebeo, un liberto, anche uno schiavo, che acquisiva così lo status del padre adottivo) da parte di un nobile, ricco e attivo. Accadeva anche che plebei e ricchi venissero adottati per portare nelle casse della famiglia ingenti somme, in cambio dell’elevazione al rango nobiliare.
Del tutto particolare fu poi il caso di Publio Claudio Pulcro, della gens Claudia, il quale nel 59 a.C. si fece adottare da un plebeo e mutò il nome in “Clodio”, per potersi candidare come tribuno della plebe.
A fare ricorso all’adozione, anche come pratica per mantenere vitale la gens, furono quasi tutte le grandi famiglie. La più nota adozione fu indubbiamente proprio quella di Ottaviano il quale, adottato da Giulio Cesare, mutò il proprio nome in Gaius Iulius Caesar Octavianus.
In epoca imperiale, soprattutto dopo la dinastia Flavia, tale meccanismo divenne di fondamentale importanza e sempre più ricorrente, poiché permetteva agli imperatori di designare il proprio successore al di fuori degli eredi naturali, indirizzando la scelta su uomini di fiducia ritenuti più idonei al ruolo imperiale.

Tiberio, l’imperatore schivo

Tiberio (14-37 d.C.) si prefisse l’obiettivo di consolidare la forza e l’unità dell’impero. Egli era stato nominato erede di tutti i beni di Augusto e poté così disporre di enormi ricchezze del fisco imperiale per finanziare l’esercito e l’apparato amministrativo e per ottenere la fiducia dei senatori. Al tempo stesso si preoccupò di organizzare elargizioni pubbliche allo scopo di procurarsi il consenso popolare, e non trascurò le grandi famiglie aristocratiche che ancora avevano un peso nel senato, riuscendo così a influenzare anche parte dell’istituzione più importante dello Stato romano. In queste condizioni, qualsiasi alternativa al suo potere era di fatto impraticabile.
Tiberio era un personaggio introverso e taciturno, schivo, sul quale la tradizione antica dà un giudizio contrastante. Malgrado l’abilità militare e l’intelligenza politica nel risolvere molti conflitti, egli non possedeva il carisma del padre adottivo e dovette spesso affidarsi alla sua capacità di mediazione.
Tiberio cercò di riaffermare l’autorità del senato, restituendo all’assemblea molti poteri effettivi che invece Augusto aveva avocato a sé. Nonostante ciò, i senatori rimasero sempre diffidenti nei suoi confronti, poiché temevano che mirasse in realtà a far emergere eventuali oppositori alla sua figura per poi allontanarli, e la sua azione finì per suscitare ostilità, nonostante egli si presentasse con toni concilianti. Come scrisse Svetonio: «Un principe buono e pietoso – diceva ai senatori – deve essere al servizio del senato e di tutti i cittadini». Paradossalmente, però, gli attriti con il senato e il clima di servilismo da parte dei senatori, che si manifestava nell’adeguamento incondizionato alle posizioni dell’imperatore, aumentò l’accentramento del potere nelle sue mani.

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Una politica rigorosa e severa

Una particolare attenzione fu dedicata da Tiberio all’amministrazione delle risorse economiche: suoi collaboratori fidati svolgevano attività di controllo della burocrazia statale e delle province, dove si verificavano ampi fenomeni di corruzione, che si cercò di tenere a freno anche con esemplari condanne di governatori per abuso di potere e concussione. Tiberio impose così una politica di rigore nella gestione delle finanze imperiali, e al termine del suo principato lasciò quasi tre milioni di sesterzi nelle casse statali. In politica estera, invece, proseguì la politica di Augusto privilegiando il rafforzamento dei confini e la stabilità delle province piuttosto che avviare campagne espansionistiche. L’imperatore si preoccupò soprattutto di rendere sicura la frontiera del Reno in Germania, anche sfruttando le rivalità tra le diverse tribù, e di mantenere rapporti diplomatici con i Parti e con l’Armenia, mentre represse con fermezza le rivolte scoppiate in Africa, in Gallia e in Tracia.

Gli ultimi anni di Tiberio fra intrighi e congiure

La politica di rigore finanziario imposta da Tiberio nella gestione dello Stato e la scelta di non promuovere campagne militari limitarono le possibilità di sviluppo economico.
A tale politica le province si opposero prevalentemente a livello locale, come avvenne in Numidia, Cappadocia, Tracia, Gallia, poiché si sentivano danneggiate dalla tassazione esosa; il popolo romano, per lo più indifferente alla gestione del potere, guardò con sfavore Tiberio solo quando furono aumentati i prezzi dei beni di consumo o quando vi furono episodi di mancati approvvigionamenti di grano.
Come abbiamo visto, il vero oppositore di Tiberio fu il senato, anche se per molti studiosi si trattò di un’opposizione soprattutto formale, più finalizzata a dare di lui un’immagine pubblica negativa che a indurlo realmente a cambiare linea politica.
I malumori e i sospetti nei confronti di Tiberio si manifestarono in occasione della morte inaspettata di Germanico, nipote di Tiberio in quanto figlio di Druso maggiore (fratello di Tiberio) e suo successore in seguito all’adozione da parte di quest’ultimo voluta da Augusto stesso nel 4 d.C. Amatissimo dalla plebe romana, Germanico era stato protagonista fra il 14 e il 16 d.C. di una serie di vittorie contro i Germani stanziati oltre il confine settentrionale dell’impero, segnato dal fiume Reno. Inviato in Oriente a combattere i Parti, era morto improvvisamente: secondo voci del tutto infondate, diffuse dall’aristocrazia per allarmare una plebe già scioccata, sarebbe stato fatto avvelenare dall’imperatore, che vedeva in lui un possibile usurpatore della sua autorità.
Temendo di cadere vittima di una congiura e stanco delle continue polemiche, nel 27 d.C. Tiberio si ritirò nella sua villa privata, a Capri, delegando le funzioni di governo al suo potente prefetto del pretorio, Lucio Elio Seiano, che già da alcuni anni aveva fatto in modo di accrescere il proprio potere personale e di conquistare la sua fiducia. L’assenza dell’imperatore da Roma provocò un’ulteriore instabilità politica e la diffusione di intrighi e congiure. Nel 31 d.C. lo stesso Seiano tentò un colpo di Stato, represso con decisione da Tiberio che immediatamente fece arrestare e giustiziare il prefetto.
Gli ultimi anni dell’imperatore furono caratterizzati da un clima cupo ed esasperato. Poco prima di morire (37 d.C.) Tiberio adottò e designò come suoi eredi il nipote Tiberio Gemello (figlio di Druso minore, figlio naturale di Tiberio, morto nel 23 d.C.) e Gaio, figlio di Germanico, detto Caligola, dalla  caliga, la calzatura tipica dei soldati romani indossata quando, da bambino, seguiva il padre nelle spedizioni militari.

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La breve parabola del controverso Caligola

La figura del giovane Gaio metteva d’accordo nobiltà, esercito e popolo. Il senato scelse di investire del potere Caligola (37-41 d.C.), pensando di poter manovrare il giovane, mentre i pretoriani e la plebe urbana nutrivano la speranza di rivedere il prestigio e la fama del padre Germanico; entrambe le aspettative, tuttavia, andarono deluse.
Il giovane imperatore, liberatosi di Tiberio Gemello, costretto al suicidio nel 37, cercò fin da subito di imporre un regime dispotico. Egli voleva introdurre il modello della monarchia orientale di Alessandro Magno, incentrato sulla divinizzazione della sua persona, cosa inaccettabile per il mondo romano. Caligola pretese che tutti si inginocchiassero al suo cospetto, mostrò disprezzo per le istituzioni di Roma, e per il senato in particolare, che – secondo la tradizione – umiliò arrivando a nominare senatore il suo cavallo. Inoltre non si fece alcuno scrupolo a inimicarsi il popolo ebraico, imponendo la presenza di una sua statua nel tempio di Gerusalemme e provocando così violente rivolte per un atto che fu considerato una gravissima profanazione. La naturale conseguenza di questo atteggiamento autocratico fu la nascita di una forte opposizione a Caligola, diffusa in tutte le classi sociali, che provocò a sua volta l’inasprimento del suo dispotismo.
Egli svuotò le casse dello Stato organizzando giochi per il popolo ed elargendo denaro all’esercito per mantenerne la fedeltà. Spinto da un’insana esaltazione personale (che qualcuno già allora volle attribuire a disturbi mentali, o a qualche patologia come il saturnismo) Caligola organizzò una durissima repressione contro ogni oppositore, vero o presunto, provocando la morte di migliaia di innocenti. Il suo principato si concluse nel 41 d.C. quando fu ucciso da una congiura ordita da senatori, cavalieri e pretoriani.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille