3 - Gli Ottoni e la Chiesa

Unità 12 LA RINASCITA CAROLINGIA E IL FEUDALESIMO >> Capitolo 34 – Il feudalesimo e le ultime invasioni

3. Gli Ottoni e la Chiesa

Il regno dei Franchi orientali nelle mani dei Sassoni

Tra i regni sorti in seguito alla disgregazione dell’impero carolingio un ruolo storico fondamentale fu svolto da quello che si affermò nel regno dei Franchi orientali, l’attuale Germania. Questi territori, agli inizi del X secolo, erano ancora suddivisi politicamente tra i domini di quattro ducati – Baviera, Franconia, Sassonia e Svevia – legati da forti vincoli di fedeltà feudale, oltre che dalle comuni origini culturali. In tale contesto, il re di Germania aveva un ruolo prevalentemente simbolico e svolgeva per lo più le funzioni di giudice supremo e guida militare. All’inizio del X secolo, la supremazia tra i duchi germanici fu ottenuta da Enrico I di Sassonia, che nel 919 venne acclamato re dei Franchi orientali dai feudatari tedeschi. Nel 936 suo figlio Ottone I ottenne un altro importante riconoscimento politico, ricevendo la corona di re dei Franchi e dei Sassoni. Ciò fu possibile grazie all’appoggio dei duchi e dei vescovi tedeschi, che fornirono una chiara legittimazione al suo potere e al diritto ereditario del titolo di re.
Ottone, intenzionato a restituire nuova forza all’autorità regia e al titolo imperiale, inaugurò la dinastia sassone, che si affermò nel panorama politico europeo soprattutto grazie ai successi militari: nel 955 i guerrieri di Ottone I sconfissero definitivamente gli Ungari a Lechfeld, presso l’attuale città bavarese di Augusta (Augsburg), ponendo fine alle loro incursioni nei territori dell’Europa centrale. Negli anni seguenti, con l’appoggio della Chiesa di Roma, il sovrano sassone intraprese invece una campagna di espansione territoriale nelle regioni orientali, contro gli Slavi. Com’era successo all’epoca di Carlo Magno, il pretesto della missione evangelizzatrice dei “barbari” servì al re sassone per coprire le sue reali intenzioni espansionistiche.

I nuovi feudatari di Ottone I: i vescovi-conti

Il legame di Ottone I e della dinastia sassone con la gerarchia ecclesiastica prese una particolare connotazione negli anni successivi, quando si andò manifestando in modo evidente la necessità per lo Stato di affidarsi a una classe di funzionari competenti, con un buon grado d’istruzione, e che potessero garantire una più duratura fedeltà al re. Queste prerogative vennero individuate nei vescovi e negli abati, ai quali furono dunque assegnate funzioni amministrative prima esclusive di conti e marchesi: si venne così a definire la classe dei vescovi-conti, che, pur mantenendo la loro carica ecclesiastica, erano ora alle dirette dipendenze del sovrano. Si trattava di un numero relativamente ristretto di feudatari ecclesiastici cui l’imperatore affidava una contea che, alla loro morte, tornava a far parte delle proprietà imperiali. Infatti, dal momento che gli ecclesiastici non potevano avere discendenti, questa scelta evitava l’insorgere di contese legate ai diritti di eredità dei feudi che, alla morte dei vescovi-conti, ritornavano dunque tra le disponibilità del re.
Con la nomina a vescovo-conte, l’ecclesiastico si impegnava a garantire il cosiddetto servitium regis, cioè a ospitare la corte imperiale, a mettere a disposizione reparti di soldati e ad adempiere a obblighi di natura diplomatica e amministrativa. In questo modo le proprietà della Chiesa venivano equiparate a quelle imperiali, ponendo le basi per l’importante ruolo politico che i vescovi avrebbero acquisito nella storia successiva del Sacro Romano Impero, quando sarebbero stati riconosciuti tra i grandi elettori nelle persone degli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, e chiamati a intervenire nella nomina dell’imperatore assieme ad altri prìncipi laici.
La riforma amministrativa di Ottone I ebbe ripercussioni fondamentali sui rapporti tra il re sassone e la Chiesa. Il sovrano estese infatti la propria autorità politica sul clero poiché, grazie alla facoltà di nominare personalmente i vescovi-conti, la sua influenza si esercitava di fatto anche nel campo del potere spirituale della Chiesa. Nello stesso tempo, Ottone I si assicurava la disponibilità di una burocrazia efficiente e mediamente più istruita. Infine, l’assegnazione delle cariche amministrative ai membri del clero comportava un tentativo di consolidare la supremazia del sovrano sui nobili laici, che non potevano più acquisire un’autorità in grado di minacciare la monarchia.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

I VESCOVI-CONTI

In questo brano, tratto da un documento ufficiale firmato da Ottone I, sono elencate le funzioni amministrative e i poteri che l’imperatore assegnò al vescovo di Parma nell’anno 962.



«Sia a conoscenza della solerzia di tutti i fedeli della santa Chiesa di Dio e così pure dei nostri, presenti e futuri, che Uberto, vescovo della Chiesa di Parma, presentandosi alla nostra clemenza domandò che noi, giovando alla sua Chiesa allo stesso modo dei nostri predecessori, gli attribuissimo le prerogative che spettano al potere regio e alla pubblica funzione e specialmente quelle a causa delle quali la sua Chiesa veniva gravemente danneggiata da parte del titolare del potere di conte; ci domandò, dunque, che trasferissimo i beni e i servi tanto di tutto il clero del vescovado ovunque si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano nella città dalla giurisdizione regia alla giurisdizione e dominio e distretto della Chiesa, in modo che essa abbia il potere di deliberare e giudicare e costringere tanto sui beni e servi del clero quanto sugli uomini che abitano entro la predetta città di Parma e sui beni e servi loro, come se vi fosse presente il conte del nostro palazzo.
Noi, considerando e valutando il vantaggio che ne deriverà alla dignità dell’impero [...], concediamo e trasferiamo dalla nostra alla sua giurisdizione e dominio e deleghiamo il potere sulle mura della città, il distretto, il teloneo1 e ogni pubblica funzione, sia dentro la città che fuori, per un raggio di tre miglia e con confini ben determinati; le strade regie, il corso delle acque e tutto il territorio coltivato o non che là si trova, nonché tutto ciò che è di pertinenza pubblica. Concediamo ancora che tutti gli uomini abitanti nella città e nei confini detti non facciano prestazioni e non si rechino al placito2 se non di chi sarà in carica come vescovo di Parma.»


Monumenta Germaniae Historica, Capitularum regum Francorum, Boretius, Hannover 1883



1. teloneo: era il nome di una tassa sulle merci.
2. placito: fin dall’epoca carolingia questo termine indicava un tribunale pubblico, sottoposto all’autorità dei conti, in cui si dirimevano le dispute giudiziarie.


PER FISSARE I CONCETTI
  • Quali sono i poteri che il sovrano delegò al vescovo-conte?

L’imperatore Ottone I e il privilegium Othonis

I solidi legami diplomatici e politici instaurati da Ottone I con la Chiesa furono la premessa per la sua investitura a imperatore da parte di papa Giovanni XII, nel 962. Dopo la morte di Carlo il Grosso, alla fine del IX secolo, il titolo imperiale era stato conteso dai membri dell’aristocrazia italiana e francese, ma le lotte di potere avevano impedito che la corona venisse attribuita in modo stabile. In queste dispute si inserirono anche le famiglie nobili romane, che, grazie ai loro intrighi, miravano a influenzare le scelte dei pontefici per garantire i propri interessi economici e politici. Il papato, in quel periodo, era pervaso da una vasta corruzione e, per la sua intrinseca debolezza, risultava incapace di opporsi alle trame degli aristocratici.
Così, subito dopo l’incoronazione di Ottone I, papa Giovanni XII, coinvolto negli intrighi, fu deposto dal soglio pontificio. In questo contesto emerse con chiarezza come l’autorità dell’imperatore fosse notevolmente superiore a quella del papa, e attraverso un documento del 962, denominato privilegium Othonis (“privilegio di Ottone”), l’imperatore non mancò di rendere ufficiale questo aspetto, confermando il potere temporale del papa sullo Stato della Chiesa, ma stabilendo anche una norma che rendeva evidenti i nuovi rapporti di forza tra Chiesa e impero: l’elezione del pontefice restava di competenza ecclesiastica, ma doveva necessariamente essere ratificata dall’imperatore. Con il pretesto di eliminare la corruzione, Ottone I impose di fatto il controllo imperiale sul papato.

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Ottone II e le tensioni con i feudatari sassoni

Dopo la nomina imperiale, l’influenza politica di Ottone I si estese anche all’Italia: egli intraprese infatti una campagna di espansione territoriale a danno dei possedimenti dei Bizantini, che in quel periodo avevano avviato la riconquista di gran parte dei domini sottratti loro dagli Arabi nell’Italia meridionale. Il conflitto con l’impero d’Oriente si ricompose provvisoriamente solo in seguito al matrimonio dell’erede diretto di Ottone con la figlia dell’imperatore di Bisanzio. Alla morte del padre, nel 973, Ottone II ereditò il titolo imperiale e fu subito impegnato a contrastare le tendenze autonomistiche dei feudatari sassoni e dell’aristocrazia romana, che speravano di riconquistare l’indipendenza limitata dal potere del sovrano sassone. Per indirizzare le tensioni interne verso un nemico comune, oltre che per conquistare nuove terre necessarie a garantirsi la fedeltà dei feudatari, Ottone II riprese le ostilità contro i Bizantini e iniziò una nuova campagna di espansione territoriale nell’Italia meridionale. Nel 982, tuttavia, subì una dura sconfitta a Stilo, in Calabria, contro i Saraceni.

Ottone III e il tentativo di renovatio imperii

Sotto il suo successore, il figlio Ottone III (983-1002), riprese vigore l’ideale carolingio della renovatio imperii, la restaurazione dell’impero romano e cristiano, e la teoria della translatio imperii, ossia la concezione di un “trasferimento del potere imperiale” per volontà divina dagli antichi Romani ai Bizantini, da questi ai Franchi e, infine, ai Sassoni.
L’ideale della restaurazione dell’impero romano aveva lo scopo di legittimare un potere indebolito dalla crescente opposizione dell’aristocrazia feudale; a causa dell’intransigenza della nobiltà romana, che riuscì a privare l’imperatore del sostegno delle autorità ecclesiastiche, il progetto di Ottone III fallì.
Alla sua morte, in assenza di eredi, il regno passò nelle mani di Enrico II di Baviera, legato agli Ottoni da vincoli di parentela, e poi, nel 1024, al suo successore Corrado II di Franconia, detto il Salico. L’autorità di questi sovrani continuò tuttavia a essere indebolita dalle rivendicazioni autonomistiche della nobiltà feudale sassone, che riuscì a riaffermare la propria indipendenza politica. Proprio sotto Corrado II, come abbiamo visto, fu tra l’altro emanata la Constitutio de feudis con la quale venne riconosciuta l’ereditarietà di tutti i feudi.

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La corruzione nella Chiesa e il monachesimo cluniacense

I rapporti tra gli Ottoni e la Chiesa mostrano come il papato, al volgere del millennio, si trovasse in una fase di grave decadenza. La debolezza non riguardava soltanto il prestigio del papa e il suo peso nelle relazioni politiche del tempo, ma anche la situazione interna della Chiesa. Intorno all’anno Mille gli ambienti clericali erano infatti caratterizzati da una corruzione ormai endemica e dalla larga diffusione di comportamenti dissoluti (contravvenzione al celibato e abbandono dei figli, ubriachezza, lussuria) che rischiavano di pregiudicare la stessa autorità esercitata sui fedeli. Una delle piaghe più gravi che affliggevano il clero – e che l’elezione dei vescovi-conti da parte dell’imperatore aveva contribuito a diffondere – era la  simonìa, termine con cui si definiva la compravendita di cariche ecclesiastiche, fenomeno che, a partire dal X secolo, aveva assunto una dimensione notevolissima. Molti di coloro che sceglievano la carriera ecclesiastica erano infatti motivati da interessi economici, più che da istanze spirituali, in un contesto in cui la maggior parte delle relazioni di potere era dominata dalla corruzione.
Tra i fedeli vi era una diffusa condanna morale contro questo stato di corruzione permanente e dilagante, ma la risposta più incisiva sorse proprio all’interno delle stesse strutture ecclesiastiche. Agli inizi del X secolo, infatti, il duca Guglielmo di Aquitania, in Francia, diede vita a un nuovo ordine monastico dai caratteri molto particolari: i monaci cluniacensi. Essi presero il nome dell’abbazia di Cluny, in Borgogna, dove Guglielmo creò nel 910 il nuovo ordine, e promossero una riforma della Chiesa che si rifaceva agli ideali del cristianesimo delle origini, incentrati sui princìpi di povertà, castità e semplicità. Passo indispensabile per la riaffermazione di questi ideali e per l’eliminazione della corruzione era la netta distinzione tra potere temporale e potere spirituale. Per questo motivo, Guglielmo pose l’abbazia di Cluny direttamente sotto la tutela papale, in modo da evitare l’ingerenza delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche locali.
Rapidamente il monachesimo cluniacense si affermò in molte aree d’Europa e diffuse tra i cristiani nuove istanze di riforma della Chiesa, che si affiancarono a numerose altre forme di malcontento dei fedeli contro la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche. Tale carattere di sollevazione contro il malcostume si espresse per esempio nel movimento dei  pàtari, attivo nell’XI secolo a Milano.

I poteri universali: papato e impero

Questi fermenti determinarono in effetti un profondo rinnovamento dei vertici della Chiesa di Roma, che di lì a poco sarebbe diventata la principale antagonista del potere imperiale. Nel 1059, infatti, papa Niccolò II, promulgando il Decretum in electione papae, escluse definitivamente qualsiasi ingerenza degli aristocratici o dell’imperatore nella scelta dei papi, la cui nomina spettava unicamente ai cardinali. Gregorio VII, divenuto pontefice nel 1073, abolì inoltre la prassi delle investiture (cioè delle nomine) dei vescovi da parte delle autorità politiche, entrando in grave conflitto con l’imperatore Enrico IV (1056-1104). Costui riuscì a convocare un concilio per far deporre il papa, che di contro scomunicò l’imperatore e, con un provvedimento noto come Dictatus papae (1075), affermò la preminenza del potere spirituale su quello temporale: il «deliberato di principio del papa» stabiliva 27 assiomi, cioè princìpi incontrovertibili, ognuno dei quali fissava un potere del papa di Roma. Tra questi, il secondo stabiliva che il pontefice romano era «l’unico ad essere di diritto chiamato universale»; il IX che solo al papa «tutti i prìncipi debbano baciare i piedi»; il XII affermava che solo al pontefice «è permesso di deporre gli imperatori»; il XXII sanciva che «la Chiesa Romana non ha mai errato; né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l’eternità»; il XXVII che solo il papa poteva «sciogliere dalla fedeltà i sudditi dei prìncipi iniqui» (per mezzo dell’atto di scomunica).
La scomunica, vale a dire l’esclusione dalla comunità dei fedeli, rischiava di delegittimare anche il potere temporale del sovrano, autorizzando i sudditi a disconoscerne l’autorità; di conseguenza, Enrico IV fu costretto a sottomettersi al volere del papa, recandosi come penitente da Gregorio VII, ospite della contessa Matilde a Canossa.
L’azione di Gregorio VII riproponeva dunque una concezione teocratica del potere papale, che avrebbe influenzato buona parte della storia successiva. Nei primi secoli del basso Medioevo, il periodo che convenzionalmente prende avvio dall’anno Mille, i poteri universali della Chiesa e dell’impero avrebbero continuato a contendersi la supremazia nel continente, fino al sorgere delle monarchie nazionali, con le quali si sarebbe aperta una nuova epoca nelle relazioni politiche e diplomatiche della storia europea.

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• SOTTO LA LENTE • CIVILTÀ

La pirateria

Le incursioni saracene sono manifestazione di un fenomeno, la pirateria, iniziato già con le prime navigazioni nel Mediterraneo.
Le prime notizie della presenza di pirati sono in Omero: Polifemo sospetta che Ulisse sia un predone; lo stesso Ulisse rassicura Penelope che ricostituirà le greggi con le predazioni. «I Greci antichi e i barbari [...], dopo che presero con più stabilità e frequenza a trafficare tra loro per nave, tendevano all’esercizio della pirateria», dice con franchezza Tucidide. Per un nobile greco la pirateria è vanto maschile e semmai è disonorevole darsi al commercio.
Noti pirati erano stati i Cretesi, gli Etruschi, i Messapi, gli Illirici. Anticitera (l’antica Eghila), una piccola isola dell’Egeo, il centro fortificato di Kastro, Malta e la Cilicia furono a lungo covi di pirati.
Il primo a usare il termine peiratès (dal verbo greco peiráomai, che significa “fare un assalto”) è Polibio nel II secolo a.C. Lo mutuerà Cicerone, che però lo alternerà con quello romano, più in uso, di praedones, collegabile al greco leistés, che significa “predatori”. I Romani ne hanno sfruttato l’arte: nel secondo trattato commerciale tra Cartagine e Roma, risalente al IV secolo a.C., la prima chiede che Roma non ricorra ai pirati per contrastare i commerci marittimi. Dopo aver conquistato il controllo su gran parte del Mediterraneo con la vittoria nella seconda guerra punica, Roma è costretta ad affrontare il problema delle incursioni dei numerosi pirati che infestano le acque del loro nuovo impero. Nel I secolo a.C. Roma opta per la “guerra di contrasto”. «Il pirata non rientra tra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico del genere umano» proclama Cicerone.
Con la crisi dell’impero seleucide e la decadenza della potenza navale di Rodi, aumenta a dismisura il numero dei pirati, che usano porti franchi (come Delo) e minacciano i rifornimenti di grano, accumulando ingenti ricchezze con i loschi commerci di schiavi e mercanzie rubate. Come scrive Plutarco, non sono infrequenti le complicità con influenti famiglie romane che sfruttano il mercato nero per commerciare beni preziosi.
I nemici di Roma li usano come braccio armato per azioni diversive e di logoramento per arginare l’avanzata dei Romani. Con Mitridate VI si schierano, anche per convinzione politica, pirati siriani, ciprioti, panfilii, pontici. È del 67 a.C. la lex Gabinia che permette a Pompeo di liquidare, in tre mesi, il pericolo affondando 1000 navi, sequestrandone 400, uccidendo 1000 uomini e catturandone 20 000.
È il figlio di Pompeo, Sesto, che per uno strano gioco del destino ricorre ad azioni di pirateria nelle guerre civili durante il secondo triumvirato. Dopo diversi tentativi di compromesso, Ottaviano gli scaglia contro il grande ammiraglio Marco Agrippa che lo sconfigge nel 36 a.C.
Durante il principato il Mediterraneo è sostanzialmente un mare pacificato grazie al pattugliamento delle flotte di Ravenna, di Miseno, della Cirenaica e della Siria.
Con la crisi del III secolo d.C. i pirati ricominciano a popolare i mari e Severo Alessandro (222-235) deve intervenire. Poiché le legioni sono impegnate sui confini germanico e persiano, vengono scarsamente contrastate le scorribande marittime dei Sarmati e dei Goti che dal Mar Nero invadono il Mediterraneo. La reazione della flotta romana è sempre più lenta. L’ultima grande spedizione di Costantino nel 313 è fallimentare.
Il trasferimento della capitale a Costantinopoli comporterà inoltre lo spostamento della flotta militare lontano da Roma (la prima conseguenza si vedrà nel 455 quando Genserico arriva indisturbato a Ostia) sguarnendo così il Mediterraneo occidentale, sul quale Normanni e Saraceni potranno navigare senza grandi difficoltà.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille